Farsi carico, farsi prossimo

6 novembre 2016

Romani 14,7-12

“Ho spezzato i catenacci delle porte, più nulla mi parve imprigionato perché ero io la chiave di ogni cosa. Sono andato incontro a tutti i miei reclusi per liberarli perché nessuno sia più né carcerato né carceriere”. Questa frase tratta dalle Odi di Salomone mi è tornata in mente quando ho iniziato a riflettere su uno dei brani che il lezionario propone per la predicazione di questa domenica.

A prima vista sembrerebbe aver poca relazione con il testo di Romani, ma credo che riflettendo insieme sul modo in cui l’apostolo Paolo argomenta il suo discorso e sulle finalità cui vuol giungere, ne potremo cogliere la connessione.

Come era già accaduto a Corinto, anche a Roma il nostro si trova ad affrontare questioni che ineriscono alla coesistenza fraterna dei credenti.
La chiesa di Roma è composta da persone provenienti da differenti background culturali e religiosi: probabilmente vi sono credenti ex-ebrei, altri ex-pagani di varia nazionalità e altri ancora passati dal paganesimo al giudaismo per approdare al cristianesimo.

In tale contesto è facile che difficoltà e incomprensioni emergano forti, fino a dividere idealmente la comunità in due gruppi: i deboli e i forti nella fede, come li chiama l’apostolo. Egli si rivolge ad entrambi i gruppi ed ha una parola di richiamo per entrambi. Gli uni e gli altri, per motivi differenti, non si accettano nella loro singolarità cultural-religiosa, finendo col mettere in pericolo la vita stessa della comunità, vista come un edificio la cui costruzione si deve a Dio stesso per mezzo di Gesù Cristo.

Ho potuto costatare quanto la situazione descritta dall’apostolo sia ancora attuale la scorsa settimana mentre partecipavo come presidente del Cp-Opcemi all’assemblea dell’Ucebi.

Buona parte della discussione che ha investito i lavori rimandava proprio alla divergenza di posizioni, a tratti vissute come inconciliabili, tra coloro che si richiamano ad una comprensione letteralista e conservatrice della Bibbia e altri che sono più vicini alle posizioni del protestantesimo storico.

Se poi guardiamo alla nostra comunità non possiamo non notare come anche tra noi siano presenti persone provenienti da differenti background culturali, sociali e religiosi: ci sono italiani ex-cattolici, ex-pentecostali, alcuni valdesi e altri metodisti, vi sono poi persone originarie dalle Filippine, dalla Cina e da altre nazionalità e alcune di loro sono provenienti da differenti denominazioni (battisti, metodisti, presbiteriani, come pure pentecostali).

Insomma siamo proprio un bel mix e anche tra noi, come è accaduto a Roma e a Corinto, a volte vi sono difficoltà nel far viaggiare insieme queste differenze.
A volte vi sono argomenti sensibili, come è accaduto per le benedizioni di coppie omosessuali, che fanno emergere differenze sostanziali nell’interpretazione e comprensione della Bibbia.

Le difficoltà poi possono aumentare perché nelle nostre società è fortemente presente la paura del diverso e dello straniero che influisce pure sui nostri rapporti interni, dato che la chiesa non è mai e non deve essere una sorta di torre di avorio rispetto il resto della società.

In positivo non deve esserlo perché il suo compito è annunciare al mondo il messaggio di salvezza e libertà in Cristo, cosa impossibile se ci si auto isola dagli altri; in negativo, vivendo nel mondo la chiesa rischia di accogliere ed assumere come suoi, valori e idee che percorrono il nostro tessuto societario, come appunto la paura di e il giudizio su il diverso…

Come risponde l’apostolo alle difficoltà che emergono tra i due gruppi della chiesa romana?
Paolo, pur dimostrando di accogliere come sue le posizioni dei forti, riprende entrambi i gruppi, ugualmente responsabili di aver intaccato lo spirito di fratellanza che deve animare i membri della comunità cristiana.

Il motivo portante della paraclesi paolina è la mutua accoglienza come si esprime al capitolo 15 di questa lettera: “…accoglietevi gli uni gli altri, come anche Cristo vi ha accolti per la gloria di Dio”.

Ma di quale accoglienza sta parlando? In fin de’ conti, in Italia e nelle nostre chiese non viene già praticata l’accoglienza? Troppo spesso si sente parlare di accoglienza di persone, di interi popoli, di culture diverse, di convinzioni diverse.

A volte sembra una parola velata di un vacuo buonismo, mentre in qualche caso equivale per chi è accolto al doversi uniformare alle abitudini e convinzioni di chi accoglie, con un vago sentore di messa in sudditanza…

Ebbene l’apostolo Paolo utilizza in questi versetti la forma media del verbo greco “proslambano” che indica ben più del semplice “accogliersi”, vuol dire “dare soccorso” e anche “prendere parte, acquisire”.

Per l’apostolo è necessario prendersi carico e assumere pienamente la complessità dell’altro vicendevolmente, senza ipocrisie, con tutte le sue fragilità, in un dialogo costante improntato alla libertà, ma nell’amore per l’altro.

Paolo chiede soprattutto a chi si ritiene più forte ed emancipato di assumersi la responsabilità di una tale azione: “…noi che siamo forti dobbiamo farci carico delle debolezze di quelli che forti non sono ed evitare di compiacere noi stessi.” (Rm. 15,1)

In effetti, a volte nelle nostre chiese in nome della libertà si fanno grandi balzi in avanti lasciando indietro coloro che non riescono a procedere col nostro passo, rischiando di fare un po’ come coloro che pretenderebbero d’imporre la democrazia ad altre nazioni con le armi o per legge….

Ma non dimentichiamo che il discorso di Paolo si rivolge anche ai cosiddetti deboli nella fede che vorrebbero giudicare le pratiche considerate libertarie dei forti.
Ad entrambi i gruppi egli ricorda che vi è un solo giudice al quale tutti, ciascuno per se stesso, deve rendere conto: Dio, al cui cospetto ogni ginocchio si piegherà.

Ecco che però emerge forte la novità dell’evangelo nel discorso paolino perché la reale accoglienza dell’altro/a, la comunione solidale dei credenti non vede il suo centro nell’insita bontà di ognuno di noi. Centro di unità è il rapporto totalizzante con Cristo, l’appartenenza a lui: “…se viviamo, viviamo per il Signore, se moriamo, moriamo per il Signore. Sia dunque che viviamo o che moriamo, siamo del Signore.”

I credenti sono del Signore Gesù sempre e totalmente. Egli ci ha acquistati – dirà l’apostolo – a caro prezzo, quello della sua vita. Ed è infatti in virtù della sua morte e resurrezione che egli è divenuto “Signore dei morti e dei vivi”, ma lo è divenuto solo attraverso un immenso atto di amore come quello di dare la sua vita per gli altri. Gesù Cristo non è solo un modello da imitare, ma il fondamento stesso da cui nasce l’identità del credente. Però visto che nessuno, nemmeno il credente, è un’isola ma vive in relazione con gli altri, è nella comunità in prima istanza che il nostro essere in Cristo si rivela. Ecco che quindi il vero centro di unità della comunità è Cristo, all’interno del quale diverse prassi cultuali sono ammissibili.

Per Paolo non è importante stabilire chi abbia ragione o torto tra i deboli e i forti, visto che poi spesso questi ruoli possono essere intercambiabili, per lui è rilevante il rapporto di amore che vive nella comunità.

La libertà interiore non può attuarsi in modo esclusivista perché sarebbe egoismo: essa trova il suo criterio di autenticità nella premurosa attenzione alla situazione e realtà unica di chi ci sta dinanzi.

Ma nemmeno è possibile, con moderni vincoli mortali della legge, eliminare o ingabbiare la libertà alla quale Gesù Cristo stesso ci ha chiamati giudicando il prossimo in base ad una comprensione moraleggiante e letteralista della Parola.

Il faro che indirizza il nostro cammino di comunità è la grazia offertaci da Dio, essa stessa costruisce la chiesa, ma è necessario il nostro impegno affinché questa grazia possa divenire una realtà operante tra di noi.

Se così non fosse, finiremmo col perdere il senso finale del vivere insieme la fede in Cristo ossia che la nostra comunione solidale è in se stessa annuncio profetico del Regno di Dio in cui amore, giustizia e libertà sono sovrane.

L’obbedienza di cuore a Dio non è l’adesione ad un principio astratto e limitato dal tempo, è invece un processo vivo che si realizza quotidianamente nelle decisioni e nelle scelte concrete prendendo sul serio la complessità, a volte tragica, degli uomini e delle donne che ci stanno dinanzi.

Essere uno in Cristo non è un possesso, un qualcosa di già dato, ma è una realtà dinamica che s’identifica con i ritmi concreti dell’esistenza. Essere uno in Cristo è un processo da costruire insieme nelle difficoltà, con un dialogo aperto e, a volte, sofferto alla fine del quale nessuno di noi sarà più lo stesso, perché – come è detto nelle Odi di Salomone – “…nessuno sia più né carcerato né carceriere”.

Amen

Past. Mirella Manocchio