Io sarò per voi

12 febbraio 2017

Esodo 3,1-14

Nelle settimane passate poco dopo l’attentato di Berlino, mi ricordo di aver assistito ad un susseguirsi di servizi televisivi e articoli che cercavano di capire le ragione del gesto dell’attentatore, il tunisino Anis Amri, partendo dalla sua storia, dai suoi dati biografici.

Insomma la domanda ‘perché l’ha fatto?’ era strettamente collegata all’altra: “Chi era Anis?”

In questo brano di Esodo due sono i personaggi che si muovono sulla scena e di entrambi qualcosa si sa, qualcosa si svela, qualcosa cambia.

Se certamente nel brano i personaggi sono due, è Dio colui che muove l’azione: tutto quel che accade in questo momento e che accadrà nella vita di Mosè avviene per iniziativa divina.

E Dio, per far risuonare la sua voce, per iniziare questa relazione con Mosè che avrà carattere personale e dialogico, sceglie una localizzazione non tradizionale e non religiosa, ma che nella Bibbia ha un valore altamente simbolico: il monte Horeb. Luogo fondamentale anche per un altro incontro, quello di Dio con il profeta Elia, e che porta ad un altro tipo di Esodo: il profeta che esce e lascia la caverna per andare in missione.

Ma torniamo al nostro testo e qui ciò che cattura l’interesse di Mosè e lo muove all’incontro è una visione. “La curiosità conduce alla vocazione” scrive l’esegeta Fretheim.

La visione del pruno che arde senza consumarsi non è, però, solo un fatto accessorio, ma aggiunge qualcosa all’ascolto perché Dio si presenta come colui che viene incontro e si rivela non solo a livello celebrale, ma afferrando la persone che ha scelto nella loro completezza, nella loro totalità anche carnale.

È un Dio che utilizza la natura come un suo strumento per rivestire quel che naturale non è, un Dio che infrange le leggi della natura per suscitare l’incontro, eppure lo fa attraverso “un’apparizione umile”, osservano i rabbini, come ad offrire all’umanità la possibilità di entrare in un dialogo genuino con lui.

Infatti, in questo incontro Dio non chiede a Mosè, e a tutti coloro che Egli sceglie e chiama, di auto-annullarsi: non siamo destinatari passivi, ma interlocutori attivi, e spesse volte oppositori.

In effetti, se ci pensiamo bene, qualcosa del genere accade a Mosè che, dopo essersi avvicinato per vedere il pruno ardente, quando comprende chi ha dinnanzi nasconde la faccia. Normalmente si è portati a pensare che questo sia un atto di deferenza, di rispetto nei confronti della maestà divina.

Però si potrebbe tentare un’altra spiegazione e sono proprio l’atteggiamento e le parole divine, secondo me, ad offrircela.

Dio si presenta come colui che ha un legame storico e affettivo con Mosè perché è il Dio dei suoi padri, degli antenati.

Ma Egli è anche colui che ha visto la sofferenza del popolo d’Israele che egli definisce il suo popolo.

Dio non osserva la sofferenza da fuori, ma se ne sente personalmente coinvolto e la partecipazione empatica, che poi diviene azione, è marcata proprio da quel ‘vedere’.

Il volto di Dio che guarda verso l’essere umano è per il salmista segno di relazione e favore divino, ma anche noi esseri umani nel voler istaurare o meno una relazione guardiamo chi ci sta innanzi o distogliamo lo sguardo.

E quante volte capita di farlo di fronte alle insopportabili sofferenze di tante vite umane?! Quante volte distogliamo lo sguardo per non essere toccati dalla sofferenza?!

Ma Dio no. Dio guarda, osserva, ascolta il grido di dolore e si muove incontro all’umanità per liberarla da ciò che provoca sofferenza, schiavitù.

Non un movimento per migliorare la situazione di questi derelitti rendendola più accettabile, ma una radicale e totale liberazione.

Questa comprensione del Dio Uno come sorgente di libertà umana si sviluppa attraverso tutti gli scritti dell’Antico Testamento fino al Nuovo trovando nell’Abbà Padre di Gesù la sua piena manifestazione.

Ma la storia di relazione tra Dio e Mosè fa qui un salto in avanti perché da questo incontro sulla scia di una promessa di libertà nasce anche la vocazione dell’essere umano a partecipare a questa liberazione.

Ed ecco che quella chiamata per nome cui l’ebreo fuggitivo riparato a Madian aveva risposto prontamente ‘Eccomi’, viene ora come fermata dalla titubanza umana: “Chi sono io per partecipare a quanto mi chiedi? È compito troppo arduo per la mia pochezza”.

In queste titubanti parole di Mosè, colme di falsa umiltà e di molta provvida viltà, tanti di noi e le nostre chiese nel complesso possono tranquillamente rispecchiarsi…

A questa, che è solo una delle otto obiezioni che l’eroe di Israele solleva per il suo mandato, Dio replica asserendo che Egli stesso starà con lui in tutto quello che intraprenderà.

L’io di Mosè sarà sempre accompagnato dall’Io divino, da quel Dio che lo conosce, che conosce Israele e la sua sofferenza e che conosce chi siamo noi.

Ed in effetti, Dio non chiama persone qualificate, ma qualifica le persone che chiama cui assicura la sua presenza costante e per conseguenza anche la certezza della vocazione anche se una tale consapevolezza giunge a Mosè come segno, e anche a noi direi, solo dopo che gli accadimenti sono avvenuti.

Al momento possiamo andare solo con la fiducia in questo Dio che sarà con noi, cui fa da pendant teologico la domanda retorica: “E se Dio è per noi, chi sarà contro di noi?” (Rm. 8,31b)

La stessa fiduciosa domanda che un Wesley ormai anziano e privo di forze fisiche, ma non certo mentali e spirituali, rivolgeva in una lettera al deputato americano anti schiavista, William Wilberforce per sostenerlo nel suo impegno di liberazione.

Ebbene nel dialogo serrato che avviene tra l’essere umano e il divino ecco che sorge un’altra domanda che si lega alla prima: dal “chi sono io?”, Mosè passa al “Chi sei tu che prometti di camminare con me?”

La disponibilità umana si incontra con la disponibilità divina.

Dio si rivela interagendo con l’interlocutore umano che lo interroga.

Ecco che qui si presenta uno dei versetti su cui si sono maggiormente spesi i traduttori, gli esegeti e i teologi, quello che indica il nome divino: “elyeh asher elyeh” composto da una voce del verbo essere in ebraico, ripetuta due volte alla prima persona al singolare, più un pronome personale.

Questa frase è normalmente tradotta con “Io sono colui che sono” o “Io sarò quel che sarò”, ma potrebbe anche essere tradotta, e più correttamente secondo Fretheim, “Io sarò quel che sono/Io sono quel che sarò” che indicherebbe “Io sarò Dio per e con voi” quindi non solo ora ma pure nel futuro.

E allora quel “Io sarò con te” detto a Mosè al versetto 12 anticipa l’indicazione del Nome divino.

Pertanto nell’indicare il suo nome, il Signore esplicita anche la sua relazione con il popolo d’Israele e l’umanità tutta perché se da una parte vi è il legame con la storia del popolo attraverso l’essere il Dio dei patriarchi, dall’altra vi è pure in quel “Io sarò Dio per voi” un impegno forte ad essere una parte della storia attraverso un legame personale anche con i singoli che questo popolo compongono.

Ma far conoscere il proprio nome implica pure una certa vulnerabilità e un mettersi a disposizione di coloro, in ogni tempo, di cui si ascolta il grido di dolore.

Questo vale per Dio che si rivela e definisce nel suo nome relazionale, ma vale anche per l’eroe e profeta del mondo ebraico che nella sua chiamata in missione, nel cammino di fede con il Creatore del cielo e della terra, scoprirà pure la sua identità.

Un progetto e una rivelazione in divenire.

Sorelle e fratelli,

se Dio è il Dio per noi che ci chiama, la nostra missione in quanto singoli e come chiesa metodista è, come quella di Mosè, di cooperare a liberare il popolo dall’oppressione e riconoscere agli altri il diritto alla libertà.

La chiamata ci può giungere ogni giorno in un luogo che non è sacro per definizione, ma che lo diventa in virtù di questo incontro. E Dio si incontra con noi nella nostra unicità e ci coinvolge in una missione di salvezza dove ognuno di noi è chiamato a svolgere la sua parte unica, irripetibile.

Anche nel nostro vagare distratto, annoiato, possiamo inciampare nei nostri pruni ardenti – sono le brucianti opportunità che Dio ci offre per catturare la nostra attenzione nel quotidiano.

Ci lasceremo cogliere dallo stupore e dalla curiosità per una passione che nel bruciare non si consuma?

“Suolo sacro” per noi anche in assenza di templi, di chiese, perché da questo evento noi udremo la voce di Dio che ci chiama per nome, come chiamò l’ebreo fuggitivo, e da questa chiamata fa nascere la nostra vocazione che è pure un impegno per l’umanità, come lo esprimeva Wesley sintetizzandolo nel motto: “la mia parrocchia è il mondo”.

E Dio, il nostro Dio, “il sarò per voi” fornirà a noi suoi chiamati gli strumenti necessari, non per farci saltare in aria come il presunto Dio del giovane tunisino, ma per farci partecipi di un’azione di liberazione in una situazione di abbandono e di degrado che sembra essere senza via di uscita, eppure non lo è se Dio è con noi.

Amen

Pastora Mirella Manocchio

 

 

 

 

 

 

 

Letture bibliche: Matteo 17,1-9; Romani 8,31-34

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