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Padre nostro

EDUARD LOHSE,
Paideia, Brescia, 2013,
pp. 150, Euro 16,00

Il pregio di questo commento al Padre nostro è quello di calare la preghiera cristiana più famosa all’interno dell’ambiente giudaico da cui è scaturita, analizzandola da quella prospettiva per coglierne sia la continuità con la tradizione giudaica sia gli elementi originali che essa propone. Il testo è suddiviso in tre capitoli, seguiti da un’appendice. Il primo capitolo prende in considerazione la tradizione del Padre nostro, le differenti versioni di Matteo e Luca, l’originale aramaico e il testo greco, suggerendo che nella sua forma primaria la preghiera doveva avere un andamento poetico, e infine prende in esame le preghiere giudaiche del tempo di Gesù, in particolare quelle scoperte a Qumran, lo Shemà, il Qaddish e le Diciotto Benedizioni, concludendo che Gesù ha sicuramente attinto a questa ricca tradizione, ma l’ha poi rielaborata in modo originale. Il secondo capitolo analizza le sette petizioni del Padre nostro, soffermandosi su ogni singola parola, di cui viene ricercato il significato, anche attraverso il confronto con il suo uso nel giudaismo. Ad esempio, l’autore analizza il significato del termine Padre in alcune preghiere giudaiche, dove la designazione di Dio come Padre è strettamente unita alla maestà divina e non è mai pronunciata da un singolo, a differenza del Padre nostro, in cui essa indirizza l’orante verso un atteggiamento di fiducia. La richiesta della venuta del Regno è compresa alla luce dell’escatologia giudaica, da cui Gesù riprende la nozione di signoria di Dio, svincolata però dalle sue connotazioni politiche, ed è collegata alle parabole contenute nei Vangeli su questo tema (il seme che cresce da sé, il granello di senape, il lievito e il seminatore). La petizione del pane occupa uno spazio particolare per l’analisi del termine greco tradotto generalmente con “quotidiano”, ma che è un termine rarissimo in tutta la letteratura antica, la cui radice potrebbe riferirsi al verbo essere o al verbo andare, conducendo a significati anche teologicamente diversi: basti pensare alla traduzione latina della Vulgata, dove il pane quotidiano è definito “ultraterreno”. La richiesta del pane è poi messa a confronto con il Discorso della montagna, che, con il suo invito a non preoccuparsi per il domani, sembra mal conciliarsi con la petizione del Padre nostro. Sulla questione del perdono si analizza la differenza tra Luca e Matteo, che usano, rispettivamente, il presente e il passato del verbo “rimettere”: l’impostazione matteana, che potrebbe alludere ad una reciprocità contrattuale (l’uomo otterrebbe il perdono solo se ha perdonato a sua volta), viene invece da Lohse spiegata con una diversa traduzione dell’originale aramaico. Anche qui la petizione viene affiancata ad una parabola, quella del servo spietato, per sottolineare il rapporto tra preghiera ed azione. Il terzo capitolo riepiloga il significato complessivo del Padre nostro e analizza l’uso della preghiera nel primo contesto cristiano, ad esempio nella Didachè: la preghiera di Gesù diventa simbolo dell’unione tra giudei e cristiani, che potrebbero “riscoprire il legame che li unisce in virtù della storia comune”. Interessante, anche se appesantita da una certa ripetitività, è l’Appendice, in cui l’autore esamina il commento al Padre nostro effettuato dai Riformatori e quello presente in diversi catechismi cattolici o in autori moderni, sia cattolici che protestanti, per ribadire l’importanza ecumenica di questa preghiera che, come disse Tommaso d’Aquino, nonostante le divisioni all’interno della cristianità, “rimane il bene comune e un appello urgente per tutti i battezzati”.
Antonella Varcasia

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