Prima volta al Sinodo

(19-26 agosto 2017)

Eccoci arrivati a Torre Pellice! Per prima cosa ci viene consegnata una cartellina, con dentro il tesserino di riconoscimento, i buoni pasto, alcuni moduli amministrativi e un depliant dal titolo emblematico: “La prima volta al Sinodo”, che contiene alcune notizie fondamentali sulla composizione del Sinodo e sull’organizzazione dei lavori, nonché alcune indispensabili regole comportamentali. Quello che non ci viene detto, però, è che, nella settimana che stiamo per affrontare, vivremo un’esperienza unica, nel bene e nel male, nel positivo e nel negativo, nella stanchezza e nell’entusiasmo, nell’impegno e nella convivialità fraterna. Un’esperienza che tutti i credenti evangelici dovrebbero fare almeno una volta nella vita, come il pellegrinaggio alla Mecca per i Musulmani, per imparare, per capire, per rendersi conto di che cosa sia veramente la nostra chiesa, per comprenderne la complessa organizzazione, per valutarne la democraticità, per apprezzarne la libertà di parola e di pensiero. Ma anche per assumersi la responsabilità di decisioni che andranno ad impattare sulla vita delle chiese come sulle singole vite dei credenti, per imparare a rispettare le posizioni altrui, per confrontarsi con fratelli e sorelle su temi d’attualità che creano disagio e imbarazzo, come la famiglia, l’omosessualità, i migranti, la bioetica. Per scoprire che le tue opinioni aperte, liberali e moderne, da persona “forte”, che davi per scontate, possono generare scandalo in alcuni fratelli “deboli”, che provengono da un’altra cultura. Per accorgerti che i conflitti che tanto ti preoccupano nella tua comunità non sono più gravi che nelle altre e che non molto è cambiato dai tempi delle lettere di Paolo ai Corinzi. Per renderti conto che i tuoi confratelli al di là dell’oceano vivono i tuoi stessi problemi e le tue stesse difficoltà. Ma anche per rallegrarti dei progressi compiuti dall’ecumenismo, della fraternità dimostrata nei saluti portati dai rappresentanti di altre confessioni religiose, della ricchezza delle opere diaconali che la nostra chiesa svolge nell’ottica del servizio. Certo, non tutto è rose e fiori: c’è anche un po’ di vuota retorica, c’è qualche deficit organizzativo, c’è quel tanto di diplomazia che si accontenta del compromesso per evitare di approfondire questioni imbarazzanti, c’è talora un inopportuno esercizio dell’autorità o, come nelle più classiche riunioni di condominio, il noioso sproloquio di chi parla solo per il gusto di ascoltare la propria voce. C’è la stanchezza di tante ore di concentrazione, c’è la mancanza di tempo che costringe a volte a sorvolare su temi che meriterebbero maggiore attenzione. Ma siamo umani e anche questo fa parte del gioco. E soprattutto siamo una grande famiglia e, come in tutte le famiglie che si rispettano, si parla, ci si confronta, si discute, si litiga anche, ma ci si vuole bene.

L’esperienza del Sinodo è arricchente anche sotto questo aspetto: al di là dell’impegno lavorativo, ci sono i culti e i momenti in cui si prega insieme, in cui si canta insieme, in cui insieme si prende la Santa Cena. Il culto all’aperto svoltosi il primo giorno sul prato di Chanforan, dove avvenne l’adesione dei Valdesi alla Riforma, o quello di apertura del Sinodo, che ha visto la consacrazione di cinque nuovi pastori, o quello di chiusura, in cui più di duecento persone hanno condiviso la Cena del Signore mentre la comunità intera cantava, sono esperienze indimenticabili. Non sono mancati i momenti di svago, come concerti e conferenze, ma è stata soprattutto la condivisione quotidiana delle esperienze, il mangiare insieme, il passeggiare insieme, il chiacchierare insieme, il condividere in certi casi la propria camera che ci ha permesso di conoscerci meglio e di apprezzare il dono che il Signore ci ha fatto di non essere soli, ma avere fratelli e sorelle con cui affrontare il nostro cammino. E’ stato un piccolo assaggio di quella “vita comune” vagheggiata da Bonhoeffer, che difficilmente può trovare spazio nella routine quotidiana.

Infine l’esperienza del Sinodo ci ha regalato la scoperta delle Valli valdesi, che non costituiscono solo un bel panorama, fatto di boschi, torrenti e verdi vallate, ma sono un riferimento storico fondamentale per la vita della nostra chiesa. Anche se le origine metodiste sono diverse, non ci si può non emozionare di fronte ai luoghi che hanno visto il glorioso rimpatrio dei Valdesi, il loro giuramento di fedeltà a Dio nel verde pianoro di Sibaud circondato dai boschi; non si può non commuoversi nel cantare il Padre Nostro alla luce delle fiaccole nella Gheisa d’la Tana, la grotta dove i Valdesi si rifugiavano dalle persecuzioni; non si può non ammirare la tenacia dei “barba” che affrontavano indicibili fatiche e disagi per studiare nel Collegio arrampicato sulla montagna a Pradeltorno; non si può non provare riconoscenza, sedendosi nei banchi ancora intatti della piccola scuola degli Odin, per coloro che tanto si sono adoperati per i Valdesi, come il generale inglese Beckwith, fondatore, tra l’altro, delle scuole che portano il suo nome; non si può non provare una punta di invidia per la vita semplice ma autentica che questo popolo conduceva nella sue Valli, come traspare dalle ricostruzioni della sezione etnografica del Museo. Tutto questo rafforza il senso d’identità, di gratitudine e di responsabilità: si torna più ricchi, più maturi, più consapevoli delle proprie origini, del proprio compito, della propria fede, con il desiderio di ricambiare, almeno in parte, i doni immensi che abbiamo ricevuto e porre a frutto i talenti che ci sono stati affidati.

 

Antonella Varcasia

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