Il mio corpo santuario dello Spirito

Il mio corpo è il santuario dello Spirito Santo: io vivo per glorificare Dio nel mio corpo

1 Corinzi 6, 9-20

 

Preghiera prima di predicazione

Signore,

apri le mie labbra

perché il mio corpo vuole

cantare le tue lodi![1]

 

 

Carissimi sorelle e fratelli,

Il tema del testo biblico proposto per oggi dal lezionario “Un giorno una parola” è il corpo ovvero – il corpo umano fisico. Un tema poche volte affrontato nella Scrittura: il Grande Lessico del Nuovo Testamento ne indica 23 per la parola corpo – gr. σϖμα, –  e ne indica 145 per la parola carne – gr. ςάρξ, – secondo la traduzione del LXX. Nella pericope possiamo individuare alcune distinzioni che circoscrivono il corpo e così: 1) fare la giustizia al proprio corpo è fondamentale e primo compito dell’essere umano siccome egli è l’erede del regno di Dio; 2) il corpo e la carne non sono stessa cosa – la carne non è il sinonimo del corpo ma il corpo è anche la carne ed è più della carne; 3) il corpo è il santuario dello Spirito santo; 4) il corpo non ci appartiene.

Mi sembra che nel affrontare il tema di oggi sia utile chiarire subito cosa è il corpo umano fisico. La domanda pare semplice, se non addirittura banale, ma così, su due piedi, non è facile fornirne una risposta soddisfacente nonostante il corpo sta costantemente sotto i nostri occhi.  Tutti possiamo dire qualcosa in merito, alcuni forse di più come ad esempio: i medici, gli artisti, una pastora o un pastore. Vediamo cosa del corpo umano dice la Scrittura? Ci dice che la creatura umana entra nel universo come corpo e arriva al mondo materiale visibile dal mondo dove soggiorna Dio che è invisibile. Il corpo umano è creato come corpo maschile e corpo femminile ed è costituito di due elementi quali sono: 1) polvere della terra e 2) soffio di Dio; ovvero polvere della terra animata dal soffio di Dio. Il racconto di creazione Gen. 2,7 dice: Il Signore Dio forma la creatura terrestre (l’‘adam) polvere della terra. Egli insuffla nelle sue narici un alito di vita. Nel testo ebraico, il termine vita – ḥayyîm – è un plurale di intensità che si potrebbe rendere con – viventi: un soffio di viventi. Così il soffio divino mette dell’infinitamente plurale in ogni corpo umano. Questo è il DNA umano offerto da Dio. Perciò il corpo non entra nel mondo come neutrale, come una tabula rasa bensì corredato del DNA Divino che lo orienta; li dà una destinazione e precisamente quella di: fare il corpo con altri corpi. Inoltre le creature umane sono invitate da Dio a curare i propri corpi che vuol dire non straniarsi da essi e di conseguenza: andare verso il corpo dell’altro che significa: non deviarlo, non porsi contro corpo dell’atro e non voltarli le spalle. L’essere umano è creato libero perciò può scegliere, ad esempio, di non voler fare corpo con altri corpi. Vediamo perciò che l’umano, cioè il corpo, ha il suo inizio nel invisibile ovvero: il suo fondamento sta là, ma il “resto” del corpo sta da questa parte, materiale. Dunque: il corpo esiste contemporaneamente in queste due realtà ed è composto assieme dell’invisibile – non materiale e del visibile – materiale; questo vuol dire, inoltre, che lo vediamo in parte. Essere creatura umana vuol dire che siamo uguali, indipendentemente dalle provenienze geografiche e culturali: tutti abbiamo un cuore, occhi, orecchie, naso e così via e, contemporaneamente, non esistono due corpi uguali: ognuno è un pezzo unico e originale. Inoltre, il corpo è l’unica cosa che Dio abbia creato – il testo dice: plasmato – con le proprie mani. Cosa vuol dire questo? Vuol dire che è un’opera d’arte e come tutte le opere d’arte (ad esempio – scultura o pittura) è stato realizzato con le mani. Senza le mani nessun artista può fare nulla! Dunque: il fatto che Dio usò le Sue mani per modellare i corpi di Adamo e di Eva dimostra che Dio è l’Artista e che il corpo è un capolavoro.

Ora – avendo chiarito, quel poco che è concesso, cosa è il corpo umano fisico – possiamo procedere con l’analisi dei punti individuati.

  • Fare giustizia al proprio corpo è il primo fondamentale compito dell’essere umano siccome egli è l’erede del regno di Dio.

Il corpo, come giusto che sia, è l’oggetto dell’amore e del desiderio. Lo cercano altri corpi, lo cerca Dio e lo cerca il peccato. La pericope di oggi inizia con la domanda che l’apostolo Paolo due mila anni or sono, ha posto agli Corinzi e oggi, nell’anno 2021, stessa domanda c’è la poniamo noi: Non sapete forse che gli ingiusti non erediteranno il regno di Dio? La domanda solleva le questioni che sono prime e ultime: giustizia e regno di Dio o meglio: essere eredi di regno di Dio. La giustizia, come più volte viene detto nella Bibbia, è la figlia prediletta di Dio. Noi sappiamo che Dio ama molte cose siccome Egli stesso è amore ma, più di tutte – ama la giustizia. La giustizia, solo la giustizia seguirai, affinché tu viva – leggiamo in Dt. 16,20. Questa è la parola-metro di misura di Dio di tutte le azioni umane. La domanda – che si riferisce agli eredi di regno di Dio (eredi in tutti i tempi), solleva la questione dell’ingiustizia come esclusione dall’eredità.  L’avverbio – forse – che indica il dubbio e accentua la negazione invita a leggere la domanda in questo modo: ma voi – che siete eredi del regno di Dio e lo sapete perché vi è stato detto e spiegato, – continuate a comportarvi da ingiusti: non soltanto non seguite la giustizia ma ignorate la propria posizione di essere beneficiari; comportandovi così fate duplice male a se stessi: 1) vi ponete da parte dell’ingiustizia perché: sottovalutate – se non addirittura non accettate la posizione di eredi del regno di Dio; inoltre: 2) siete ingiusti verso il Testatore stesso (per fortuna il Testatore ovvero Dio è un Padre misericordioso). La domanda di Paolo più che minacciare vuole insegnare: indicare, far capire e ri-convertire. L’ingiustizia che commettono i destinatari della lettera è ingiustizia provocata dal peccato: immoralità sessuale, idolatria, adulterio, essere effeminati e depravati, rubare e essere avidi, ubriacarsi e maledire, essere rapinatori. Non esiste una via di mezzo, non si può peccare poco e restare giusti. Non è permesso dire – forse, ma – particolarmente al peccato, bensì: (…) il vostro parlare sia “sì” se è sì, “no” se è no; ciò che è in più viene dal Male. (Mt 5,37). Non si po’ essere un poco giusti o un poco ingiusti: si deve essere giusti integralmente altrimenti non si è giusti ma si è ingiusti. La domanda, dunque, si riferisce alla giustizia o negazione della giustizia verso il proprio corpo: ogni volta che acconsento il peccato esso mi afferra, cioè afferra il mio corpo e infrange la sua integrità: toglie all’essere umano la bellezza dell’umanità pensata da Dio, e, innanzitutto – nega la prima vocazione dell’essere umano che è cura del proprio corpo ovvero: questo che è in me più di me e che rimane in me per sempre nonostante può essere da me seppellito per causa del peccato. Prendersi cura del proprio corpo vuol dire essere giusti agli occhi di Dio. Non prendersi cura del proprio corpo vuol dire fare ingiustizia agli occhi di Dio. Noi sappiamo cosa fa l’ingiustizia: l’ingiustizia genera il male. Perciò devo oppormi al peccato non pensando di fare bensì facendo. Allora, se prendo la coscienza del peccato – che mette in evidenza la mia identità – mi ri-conosco immediatamente quale creatura, mi ri-avvicino a me stessa/a me stesso, a Dio e all’altro –perché mi ri-avvicino alla vita che da Dio proviene e che il peccato contradice. Facendo così mi accorgo della mia crescita: accordo tanta importanza ai miei limiti umani, alla mia vulnerabilità, alla mia mortalità quanto a quel soffio libero che mi parla della mia origine divina e il ri-prendermi cura di entrambi, del mio corpo e del corpo della terra di cui è fatto, e di conseguenza del corpo degli altri – ri-dà il senso, la direzione e il significato al mio cammino nel corpo attraverso la vita.

Andiamo avanti.

  • Il secondo punto dice: Il corpo e la carne non sono stessa cosa – la carne non è il sinonimo del corpo ma il corpo è anche la carne ed è più della carne.

Abbiamo detto che la creatura umana entra nel mondo materiale visibile dal mondo invisibile dove soggiorna Dio – quale il corpo costituito di due elementi: polvere della terra e soffio di Dio ovvero il polvere della terra animata dal soffio divino. Dove – tra questi due elementi – sta la carne non viene specificato nei racconti di creazione. Abbiamo affermato comunque che la carne non è il sinonimo del corpo, che il corpo è anche la carne però è più della carne. In che senso? Al versetto 13 dell’epistola apostolo Paolo dice: «I cibi sono per il ventre e il ventre per i cibi», ma Dio distruggerà questo e quelli! Cosa vuol dire questo affermazione? Credo vuole dire alcune cose: che la carne abbia funzione differente da quella del corpo; è subordinata al corpo e, in qualche modo, sta sotto il corpo; che è la sua parte più materiale e più debole, e perciò limitata, che il corpo contiene e contempo-raneamente trascende. Rendersi conto di questa differenziazione accentua l’importanza dell’ordine Divino: nella stessa lettera Paolo chiama di non essere troppo umanitroppo carnali, dice anche: Quelli che usano di questo mondo, come se non usassero, perché la figura di questo mondo passa(1Cor.7,3.19). Dunque: comprendere sé stessi così come Dio ci ha fatti e non tendere a modificare l’opera di Dio, come fosse la nostra, perché non è la nostra vuol dire: non idolatrare né carne né il cibo (e nemmeno il corpo). Non condannare niente bensì tutto considerare nella giusta misura: ascrivere alle cose – non troppa e non troppo poca – bensì giusta importanza.

Il terzo punto ci dice:

  • Il corpo è il santuario dello Spirito santo.

Siamo giunti alla frase che è il cuore del testo biblico di oggi: Non sapete che il vostro corpo è santuario dello Spirito santo che è in voi, che avete da Dio?

Cosa vuol dire che il mio corpo è santuario dello Spirito santo? Lo è già, dice la frase, è un atto compiuto e pure – io non sono che il corpo carico del bagaglio delle esperienze di vita. Ciononostante, agli occhi di Dio, sono già il Suo santuario: sono già il santuario dello Spirito santo che è in me e che ho ricevuto da Dio, prima che m’accorgessi di qualcosa; che Esso alberga il mio corpo, anche se continuo non accorgerselo comunque. Tutto questo a mia insaputa ma, in parte però, perché capita che intuisco, e anche sento, la forza della Sua presenza e precisamente nel momento stesso quando respingo il peccato e uscendone quale vincitrice libero il mio corpo: ecco che la mia vittoria si moltiplica: lo Spirito santo che è in me si muove – quasi come un bambino nel grembo materno – e si genera la gioia di vivere. Mi accorgo, dunque, che sono contemporaneamente tutto questo, – sono: corpo, carne e santuario – ognuno di questi piani è reale e il più reale è quello che ne è il fondamento che si situa nel mondo invisibile: il piano del solido e del irremovibile. Questo vuol dire che tutti questi piani sono contenuti nel mio stesso piccolo corpo e che egli è capace di contenerli e reggerli in piedi tutti assieme non confondendo e non smarrendo nulla! Allora se è così: il corpo abbia un’altra dimensione, sicuramente ampia, molto ampia: potrebbe trattarsi della, o delle, profondità…

Un commento rabbinico alla Genesi dice che Dio creò il mondo con la lettera bet ב  che significa casa. Dio ha voluto creare il mondo come sua casa, e un suo tu umano in corpo, per dare a ogni tu una propria casa cioè – il corpo. Il nostro corpo creato da Dio come nostra casa è da lui considerato e ritenuto il santuario dello Spirito santo. La nostra prima casa terrena – il corpo – è contempo-raneamente per noi casa e santuario di Spirito santo. A Dio è piaciuto fare così… Allora il nostro corpo è contemporaneamente una casa e un santuario di Dio: il piccolo (la prediletta misura di Gesù Cristo, vi ricordate?) riflette il monumentale. Dire che siamo la prima chiesa domestica non è un errore. E il detto – essere tutto chiesa e casa – forse qui ha la sua origine.

Sorelle e fratelli,

Siamo giunti all’ultimo punto:

  • Il corpo non ci appartiene.

Rileggiamo ultimi 2 versetti: Non sapete [che il vostro corpo è santuario dello Spirito santo che è in voi, che avete da Dio] e che voi non appartenete a voi stessi? Infatti siete stati comprati a prezzo! Glorificate dunque Dio nel vostro corpo! Le ultime due frasi rinforzano e confermano il versetto – cuore della pericope.

Possiamo individuare alcuni motivi per i quali noi stesi, ovvero il nostro corpo, non ci apparteniamo: esso è concepito e creato, ovvero plasmato, in tutte le sue dimensioni dalle stesse mani di Dio e il materiale usato è di proprietà esclusiva di Dio; esso e la mia casa terrena in concessione per tutta la durata della mia vita ma la sua proprietà non mi è stata trasferita cionondimeno la mia casa-corpo è già erede del regno di Dio; il mio corpo lo condivido perciò con Dio, o meglio è Dio che lo condivide con me; il fatto che corpo è anche il santuario dello Spirito santo mi parla della mia provenienza e della mia destinazione che sono realtà appartenenti a Dio soltanto; il mio corpo è stato redento a prezzo del sangue di Gesù Cristo perché possa essere elevato a Dio e saper devenire cantore della gloria di Dio. Di fronte a questi dati mi sembra difficile avere dei dubbi riguardo la proprietà dei nostri corpi.

Cosa possiamo dire alla conclusione del testo biblico di oggi, così ricco e non privo di sorprese? Sicuramente possiamo dire che non abbiamo esaurito di esplorare sia la sua ricchezza sia la sua dimensione di sorpresa, tuttavia tracciamo alcuni punti che ci serviranno come l’insegnamento come spunti di riflessione.

  1. Al proprio corpo bisogna riservare il trattamento di giustizia perché seguire solamente la giustizia, la giustizia di Dio, è l’unica strada della vita indicata da Dio.
  2. Per vivere bene nel corpo che è anche carne, ma entrambi non sono sinonimi, occorre imparare l’arte del governo di sé.
  3. A Dio è piaciuto che il nostro corpo sia assieme la nostra casa e santuario dello Spirito santo per elevarci verso di Lui e insegnarci, tra l’altro – l’intimità attraverso un tete a tete privato con Lui che avvenga (di tanto in tanto) nel santuario dello Spirito santo del nostro corpo: l’intimità questa dobbiamo trasferire agli altri.
  4. Il corpo non ci appartiene vuol dire: richiamandosi all’intelligenza di tutto il corpo adempiere il proprio compito e lasciare adempimento del compito di Dio a Dio.

Il testo biblico di oggi ha rivelato alcune novità assolute sul corpo umano. Cristo venendo nel mondo con il corpo ha portato al corpo umano la veste che mancava: questa è Egli stesso. Quando noi ci rivestiamo di Cristo ecco che i nostri corpi risuonano assieme e in armonia con tutti i corpi visibili e invisibili.

Sorelle e fratelli,

Il corpo umano è l’unico tra tutte le creature creato a immagine di Dio e – siccome fatto degli elementi potenti e inafferrabili assieme – è un enigma, di cui il modello è però l’immagine di Dio, appunto, è lecito, perciò, accettare le cose così come stanno: la inafferrabilità del corpo umano fisico deve rimanere tale perché in esso si riflette l’inafferrabile immagine di Dio. Questo è il modo Divino di farsi conoscere.

I nostri corpi sono assieme il capolavoro delle mani di Dio e – in divenire: il corpo è un work end progress nelle mani di Dio e un po’ anche nelle nostre mani.

Vorrei accennare ancora a un’altra dimensione insita nel corpo umano fin dalla sua origine: esso è il primo, longevo, il più sincero e il più veritiero (perché non falsa, cosa che possono fare le parole) linguaggio umano: il linguaggio del corpo, appunto. Questo significa che abbiamo costantemente e gratuitamente a disposizione una lingua accessibile a tutti. Un più antico esperanto, – non affatto superato perché riuscito e perenne, – depositato in ogni corpo umano che va esercitato, come ogni lingua.

Una bella preghiera ortodossa parla della vita umana come un mare da attraversare e del destino dell’uomo che viene alla vita proprio per attraversare questo mare della vita a nuoto. Il nostro corpo, inoltre, serve a questo.

Amen

 

 Preghiera dopo la predicazione

 

O Signore

quanto è magnifica la tua opera

quanto magnifico è il corpo umano

di uomo e di donna

opera delle tue mani

Aiutaci

ad imparare l’Arte del Governo di sé

possiamo esserci sempre più capaci di respingere ogni peccato

per

liberare tutto lo spazio del quale dispone il corpo umano

perché sia interamente occupato soltanto dal santuario dello Spirito santo che è in me

risuonino i corpi di tutta l’umanità in un’unanimità corale

di canti di Tue lodi

anche il giorno di oggi – la Piccola Pasqua

che è testimone della resurrezione del nostro Signore

si unisca nei canti:

Santo Santo Santo

Dio degli eserciti

tutta la terra e i nostri corpi sono pieni della Tua gloria

o Dio

 

Amen

 

Tatiana Novak

[1] Parafrasi Salmo 51,15

Elia profeta del pane

Care sorelle e cari fratelli nel Signore, il testo della predicazione per oggi è tratto  dal libro del 1 Re al cap. 17 versetti da 1 a 24, è  semplice e facile da capire come ci viene raccontato nel suo susseguirsi. Sono tre episodi che si intrecciano, e ruotano al vissuto di Elia, rifugiato e straniero, salvato da una calamità naturale del suo paese.

La storia parla di un profeta che annuncia un messaggio di Dio al re Acab. Possa la sua esperienza indelebile essere una sorgente di fede nel Dio vivente anche per i lettori e gli ascoltatori di oggi.

Nel obbedire fedelmente al comando di Dio, alla sua voce, Elia trovò la strada giusta da seguire che lo condusse alla scoperta della provvidenza divina, visse come un testimone della presenza del Signore del cielo e della terra.  Con la fiducia in Dio, Elia andò di luogo in luogo, non opponendosi al suo comando, trovò sostentamento nella sua vita e il suo compito nella vita degli altri.

Elia si trovò in una condizione di scarsità di cibo a causa della siccità nella sua terra, e rifugiandosi tra le acque del torrente trovò il cibo e l’acqua che gli servivano per vivere, dei corvi che gli portavano il pane e la carne due volte al giorno, poi un alloggio da una donna vedova e suo figlio.

3 Slides(immagini di Elia e i corvi, Elia e la vedova, Elia e il bambino)

Care sorelle e cari fratelli, osservate e guardate attentamente le immagini sullo schermo. È incredibile, è difficile crederci. Sono immagini che nemmeno io stento a credere. Si presentano come favole, piccole storie eppure nel parlare il nome di Dio siamo chiamati a testimoniare le sue parole profetiche perché da e in esse Egli trae la vita. In mezzo alla morte Dio trae la vita. Quando confidiamo nel Signore, la vita si riconferma, avviene un miracolo, come nella moltiplicazione dei pani dove Egli non ha ridotto nulla, ma ha riprodotto qualcosa. Paradossalmente, nella nostra vita di oggi, vivendo nell’abbondanza non ci rendiamo conto di quanta benedizione riceviamo da Lui ogni giorno.

Oggi vorrei soffermarmi a riflettere su tre considerazioni.

La prima è quella di ricordare e ravvivare una delle nostre tradizioni sull’ospitalità attraverso la lettura di questo brano dal versetto 14 Infatti così dice il SIGNORE, Dio d’Israele: …16 La farina nel vaso non si esaurì, e l’olio nel vasetto non calò, secondo la parola che il SIGNORE aveva pronunciata per bocca d’Elia.Queste parole sono precedute da una esortazione “Non temere” come dire “abbi fede”.

Ho cercato di immaginare la situazione in cui si trovava Elia. Non era altro che un passeggero precario che si trovava nella stessa condizione della donna vedova. Sono due poveri(oppure sono diventati poveri) che non hanno nulla da offrire se non il superfluo che non è né più né meno. Attualizzando questi versetti molto conosciuti a noi nelle Filippine diciamo: “noi crediamo e pratichiamo con la convinzione che essere ospitali è qualcosa di sacro, perciò bisogna dare il massimo grado di accoglienza a un viandante, a uno straniero.” Uno straniero porta una benedizione, una speranza di vita positiva, un messaggero di buone notizie. Crea un quadro simile a quello di Elia che, spinto dal bisogno di dissetarsi dopo un lungo cammino sotto il sole, si ferma e bussa alla porta per chiedere un bicchiere d’acqua. Spontaneamente, da lì inizia una conoscenza reciproca e una conversazione continua. Il miracolo dell’incontro, è un evento che non avviene per caso nella vita dei credenti. Anche le parole dette da entrambi nei versetto 1 e 12 “Come è vero che il Signore vive” si avverano perché affermano che la loro unica fonte comune è Dio.

La seconda considerazione che vorrei condividere con voi parte dal contesto in cui Elia si è trovato allora e riguarda a una cattiva gestione politica del re Acab nel governare il suo paese a favore del dio Baal. Nei versetti precedenti, gli ultimi del cap. 16 leggiamo:  “Acab figlio di Omri, cominciò a regnare sopra Israele l’anno trentottesimo di Asa, re di Giuda; e regnò a Samaria sopra Israele, per ventidue anni. Acab, figlio di Omri, fece ciò che è male agli occhi del Signore più di tutti quelli che l’avevano preceduto. Come se fosse stato per lui poca cosa abbandonarsi ai peccati di Geroboamo, figlio di Nebat, prese in moglie Izebel, figlia di Etbaal, re dei Sidoni, andò ad adorare Baal, a protrarsi davanti a lui, e innalzò un altare a Baal, nel tempio di Baal, che costruì a Samaria. Acab fece anche l’idolo d’Astarte. Acab fece più di quello che avevano fatto tutti i precedenti re d’Israele per provocare lo sdegno del Signore d’Israele.”(cfr. 1 Re 16,29-33).

Quindi, alla luce di questo fatto, ci troviamo di fronte alla disobbedienza del re Acab al terzo comandamento di Dio: “Non avere altri dei all’infuori di me” Es.20:3.
Uno dei commenti sulla siccità è implicitamente vista come la reazione di Dio alla politica pro-Baal di Acab. Ancora una volta vediamo una sfida profetica contro l’idolatria reale. In altre parole, la siccità, che era il risultato della scarsità di cibo per tutta la terra d’Israele, era anche una manifestazione dell’ira di Dio contro la disobbedienza del re. Re Acab aveva violato la legge del suo Dio. Come disse Elia: “Com’è vero che vive l’Eterno, il Dio d’Israele, che io servo, non ci sarà rugiada né pioggia in questi anni, se non per mia parola”. (v. 1 è la risposta di Dio che si oppone alla malvagità del re Acab).

Come nell’antichità e oggi nei paesi aridi e sottosviluppati/in via di sviluppo, la siccità è una minaccia alla vita perché causa la morte. È stata anche la risposta di Dio alla cattiva gestione del potere dell’uomo e alla responsabilità trascurata verso il suo habitat.  Toccava a Dio fermare la malvagità che aveva avvolto Acab che come re aveva influenzato il destino del suo popolo. La cattiveria o le azioni malvagie dell’uomo possono essere fermate o interrotte solo dall’opera potente di Dio, ma in un modo che lo rivela ai piccoli come disse Gesù, “Ti ringrazio Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. Padre, perché ti è sembrato buono.” (cfr. Matteo 11:25-26)

 

Cosa è cambiato da te, dalla tua esperienza di quasi due anni fa, nel convivere con il COVID-19? Questa è una pandemia che ha messo in ginocchio la nostra economia, e soprattutto è stata minacciata la salute di tutti. Questo è un grande allarme perché se non abbiamo una buona salute, anche lo stato della nostra economia ne soffrirà. Inoltre, il cambiamento climatico avverso che ci sta portando alla distruzione è un segno che l’uomo a cui ha affidato tutta l’umanità sta trascurando la sua responsabilità verso il suo habitat. L’acqua, il sole, la terra, la vegetazione quindi tutta la creazione è un bene comune per un popolo, anzi per tutti i popoli. Il giuramento, come la dichiarazione di fede di Elia e della vedova, era una prova che Dio osserva e agisce a suo tempo con provvidenza.

 

Care sorelle e fratelli nel Signore, oggi il brano per la predicazione evidenzia quanto sia necessario avere il pane da mangiare. Così colgo questa occasione per parlare della parola “PANE” il cibo per eccellenza del corpo e dell’anima e non solo perché la necessità di esso nasce dall’esperienza della mancanza, a causa della cattiva gestione dell’uomo di turno, di colui che governa il paese, o di un disastro naturale.

 

Infine, la mia ultima considerazione riguarda il PANE.

 

PANE- è una parola composta da quattro lettere, queste ci ricordano la loro importanza nella nostra vita, credenti o meno per nutrire il nostro bisogno quotidiano. Quando siamo sazi di pane siamo felici e soddisfatti.

Vorrei ricordare con voi queste quattro lettere come se fosse un acronimo, ma poi potete anche in un altro modo. Cominciamo con la lettera P – Padre. È molto familiare a tutti noi questo nome Padre. Lo attribuiamo a Dio prima di tutto perché lo abbiamo riconosciuto come la fonte del nostro cibo. Lui si compiace di donarcelo poiché siamo tutti i suoi figli, ce lo dà in abbondanza secondo il suo desiderio di sempre. Per avere del pane pronto da mangiare serve però il sole per far crescere le piante, la pioggia per irrigare la terra, qualcuno che la coltiva e che ce lo cuoce.

 

La seconda lettera è A – Amore. Dio Padre, fornendo cibo ai suoi figli, manifesta il suo amore. Per amore non vuole che suo figlio abbia fame e quindi fa di tutto per dimostrare che il suo sostentamento non mancherà mai.  Il mondo è pieno di cibo. Siamo consapevoli della sua abbondanza e allo stesso tempo della sua scarsità dove c’è una cattiva gestione e ci sono esseri viventi da nutrire.

 

La terza lettera è N -Nutrimento. Quando il corpo è nutrito vive, non patisce la fame, ed è capace di agire continuamente.  Il corpo umano ha bisogno di essere nutrito perché  adempia il suo mestiere, il suo ruolo nel mondo in cui destinato a vivere insieme ad altri. Il pane è il nostro nutrimento che alimenta tutto il corpo.

 

La quarta ed è ’ultima lettera è l’E – Evento. Questa parola è fondamentale per la vita del credente in Dio. Nell’incontro con l’altro succede qualcosa che diventa un “evento”. Nell’incontro con l’altro si raggiunge la soddisfazione e si completa la gioia mangiando insieme il pane. Perciò il pane rivela una necessità assoluta perché sostiene la vita. Dio vuole che mangiamo il suo pane disceso dal cielo, che viene da lui. Il popolo di Dio è vissuto di questo pane che lo ha nutrito, moltiplicandolo, spezzandolo, dividendolo in molti. Il raduno come evento è un miracolo che diventa una festa ogni volta che siamo riuniti nelle nostre case e nelle nostre chiese. Il cibo si moltiplica quando c’è un’opportunità di condivisione. Il pane nutre il corpo, l’anima, crea legami, riconcilia le relazioni interpersonali.

 

L’intervento di Dio si manifesta così nella successione degli eventi che raggiunge il suo culmine, come in questo caso la prova che Elia era stato inviato per ridare la vita al figlio del suo ospite, una madre, una donna vedova disposta a rinunciare a tutto il poco che aveva.

 

Elia, i corvi, la vedova – sono tutti messaggeri di Dio che hanno portato il pane materiale e spirituale.

Gli animali (un corvo, una colomba, un serpente) giocano un ruolo decisivo nella continuità della vita dell’uomo. L’esempio eroico del meraviglioso lavoro degli animali dovrebbe abbassare l’orgoglio umano e ricordarci che Dio ha il potere di metterli insieme come un puzzle per raggiungere il suo scopo. Le storie di vita e di esperienza dei personaggi della Bibbia sono testimonianze che istruiscono l’uomo sulla fede. Continuiamo a scoprire il cammino di fede tracciato nelle Sacre Scritture.

 

Voglia il Signore santificare il giorno in cui ascoltiamo la sua parola che ci diriga a trovare il nostro bisogno di cibo a suo tempo e quotidiano. Non trascuriamo il nostro habitat, curiamolo.  È nostro dovere e responsabilità preservarlo mentre viviamo.

 

Amen.

Signore nostro Dio,

ti preghiamo di aiutarci a cambiare il nostro comportamento nei confronti del nostro habitat. Non permetterci di trascurare il nostro dovere verso tutta la creazione come frutto di una calamità naturale, chiamaci a cambiare la nostra mentalità di continuo sfruttamento.

Aiutaci ad obbedire ai tuoi comandamenti. Facci imparare da ciò che ascoltiamo e meditiamo ogni volta, parlaci attraverso l’esperienza dei nostri antenati con le Sacre Scritture.

Tu hai affidato la custodia della terra a noi soprattutto a coloro che hanno in mano il governo di tutti i paesi del mondo.

Ti preghiamo per chi è malato e malata nella nostra comunità. I nostri fratelli e le nostre sorelle che hanno una certa età. Fa che riacquistino la forza mancata.

Facci trovare ciò che ci manca e dacci un cuore sempre riconoscente.

Benedici il pane che spezziamo e condividiamo a molte persone che incontriamo nella strada della vita. Susciti in noi la gioia di donare. Accompagnaci con la tua presenza. Noi riassumiamo tutte le nostre preghiere con le parole di Gesù che ci ha insegnato Padre nostro…

Past. Joylin Galapon1818

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Resistere nell’amore

La vite, la vigna, il vignaiolo sono immagini che ritroviamo molte volte  nelle scritture. E in vari brani è identificata a Israele come in Ezechiele al capitolo 15. Nella cultura d’Israele la vite era immagine del popolo. Lo abbiamo appena ascoltato nel  profondo cantico d’amore del Signore per la sua vigna raccontato da Isaia, ma anche il Profeta Geremia parla di Israele come di una vite.

In Ezechiele,, invece il profeta descrive il legno della vite. Che pregi ha? Nessuno. Il legno della vite è l’unico legno tra gli alberi della campagna con il quale non si può fare nulla; non ci si può fare un oggetto, un attrezzo utile. Il legno della vite è buono soltanto per far passare la linfa vitale ai tralci e produrre frutta. Quindi il legno della vite è il legno inservibile, se non per portare frutto. Ed è a questa immagine del Profeta Ezechiele che Gesù si riallaccia nel famoso discorso della vite e dei tralci, contenuto nel capitolo 15 del Vangelo di Giovanni. E questo legno così inservibile diventa l’immagine che tutti abbiamo nella nostra mente, nel cuore,

Tantissimo si potrà dire su questo brano. Cercherò di dare semplici flash.

Quando Gesù dice “Io sono”, questo rappresenta la pienezza della sua condizione divina, perché “Io sono” è il nome di Dio.

Bene Gesù dichiara di essere “la vera vite”, quindi ci sono delle false viti. Gesù continua quel processo di sostituzione con le realtà di Israele con la propria persona:

– non la manna dal cielo, ma lui è il vero pane che da vita al popolo;
– lui è la vera luce al contrario della legge;
– lui è la vera vite, lui è il vero popolo piantato dal Signore

La vite, quel mostriciattolo storto e contorto verde grigio nero, una rete che si arrampica si aggroviglia e si avvinghia. Qual’è la vite e dove comincia il tralcio: fin qui è vite, d’ora in poi è ramo, tralcio, articolazione? Boh. Per me è tutta una cosa… se sto in mezzo ai filari è una sensazione unica. Sembra la mia vita, lunga lunga, torta, ritorta, sottosopra un po’ su un po’ giù senza capo né coda. Un liquido di immagini di batticuori di ricordi di pensieri che mi scorre addosso a lampi e buio, a tutto volume e a vuoti, senza senso. Forse lo stesso è capitato a Gesù e ai discepoli.

Vite e tralci tutt’uno.

Se ci penso dico così. Tra me e lui non è un combaciare di pensieri e di affetti, non siamo due innamorati alla pari. Legati uniti. Non è, il nostro, un atto d’amore che si avvicina si affronta si attacca e poi lentamente giustamente penetra nell’amato: qui la curva fisiologica dell’atto d’amore non funziona, non spiega. Una unione tra amato e amante. Tra Gesù e i discepoli, tra Gesù e noi oggi.

Ecco sì la vite che senza tanti fronzoli mi s’installa dentro silenziosa come una app e poi si di-rama come un tralcio. Gesù vite e noi tralci. Però… sembra facile e invece quanta cura pretendono da me ‘sti tralci benedetti. Neanche belli a vedersi: i tralci di vite devo guidarli avvolgerli raccoglierli e alla fine contorcerli e costringerli su un fusto o un fil di ferro o una pertica o lungo un pergolato. Che impegno che fatica che cura esige un vigneto e che lavoro nascosto di pensieri di emozioni di controlli pretende la mia personale fede.

Allora questa è la fede? Un momento la fede non è il primo passo ma l’ultimo: quasi il frutto di un avvicinamento amoroso fra Gesù e il discepolo poi (si spera) i discepoli fra di loro. Per la comunità che scrive il Quarto Vangelo raggiungere quel tipo di fede è già vita eterna, il massimo per un mortale. Senza attendere un giorno finale e senza, attenzione, aspettarsi un premio o aver paura di un castigo o di un inferno. È un impianto religioso nuovo originale provocatorio, il pensiero giovanneo.

Per capire Giovanni devo abbandonare la convinzione che aver fede serva a salvarmi l’anima, che credere sia necessario per sfuggire a un inferno o per ottenere un paradiso. Ragionamenti che per lui non esistono.
Secondo il Quarto Vangelo, la fede (si consuma tutta al di dentro di un’esperienza amorosa: felicità di unione con l’Amato o, se va male, tormento per essermi allontanato da lui o per essere stato abbandonato da lui. Fede sofferta e incerta ma finalmente pura gratuita trasparente: niente forma esageratamente pubblica, nessuna ostentazione: una felicità che mi allaga l’anima senza che nessuno lo sappia.

Riflettendo su questo brano ho scoperto due possibili traduzioni differenti da quello che normalmente leggiamo e ascoltiamo.

Il padre, vignaiolo, pota i tralci che non portano frutto. Ma una possibile traduzione è invece di potare, purificare. Il Padre purifica la nostra vita. Il verbo adoperato da Giovanni è ‘purificare’, non ‘potare’. Sono due cose completamente diverse. Cosa significa purificare? Il Padre che ha a cuore che il tralcio porti più frutto sa individuare quegli elementi nocivi, quelle impurità, quei difetti che ci sono nel tralcio e lui provvede a eliminarli. Questo è importante, l’azione è del Padre; non deve essere il tralcio a centrarsi su sé stesso, ad individuare i propri difetti e cercare di eliminarli, perché centrandosi su sé stesso farà un danno irreversibile.

Noi vogliamo purificarci da soli, vogliamo salvarci da soli. Vogliamo costruire una fede fai da te. Giovanni ci dice il contrario: Non siamo noi a purificare…. Ma è il Padre.

C’ sempre una filosofia, una sociologia, una psicologia, che ci dice come essere come perfezionarci come essere “frutti abbondanti”. Qui ci dice che invece è il Padre che ci offre la purificazione della nostra vita.

Queste teorie sono nient’altro che “formalismi della perfezione”, ma anemici nel donare, nell’amore, incapaci di trasmettere Amore. La purificazione del Padre riempie di questo Amore. Lui sa e agisce perchè ognuno e ognuna di noi sia dono. Sia amore.

Allora, in ognuno di noi ci sono dei limiti, ci sono dei difetti, ci sono delle brutte tendenze. Ebbene noi non ci dobbiamo preoccupare. Sarà il Padre che, se vede che questi limiti, questi difetti, queste tendenze sono di impedimento al portare più frutto, lui penserà ad eliminarli, non noi.

E dichiara Gesù “Voi siete già puri”, ecco vedete, quando i traduttori traducono il verbo con ‘potare’ anziché ‘purificare’, non rendono questo gioco di parole che l’evangelista fa tra il verbo ‘purificare’ e l’aggettivo ‘puri’.

Purificandoci rimarremo nel suo amore. Rimanere credo sia ripetutto fino al versetto 17, 10 volte.

Rimanete in me, rimanete nel mio amore è il segno tracciato per una nuova frontiera. Rimanere, restare attaccati, méinete: il verbo ossessivo che domina quelle pagine.

Rimanere nell’amore: quasi un ritornello che assedia i discepoli che ascoltano impietriti quell’interminabile assolo del Gesù giovanneo nel corso di quella sera fatale. Ma cos’è questo permanere, cosa intende cosa propone quel tormentone?

Rimanere nell’amore è sfidare il tempo è prenderlo di petto perché, invecchiando, non ci spenga il coraggio il fervore la sincerità; perché non ci precipiti nella noia e nel pressapochismo. Il tempo non ci perda, il tempo non ci annienti.

Una possibile altra traduzione di rimanere che ho trovato e mi affascina molto è resistere, resistere nell’Amore. Resistere nel suo Amore. Questo dal punto di vista della comunità di Giovanni può indicare differenze e problemi.

Ma a noi oggi, ci indica un itinerario e una borsa degli attrezzi:

purificare,

resistere

portare frutto

Rimanere nel suo amore. E cos’è quel suo amore? Cosa ha a che fare col mio col tuo, coi nostri amori ordinari, mezzi mezzi, zoppicanti e molte volte in forse?

È proprio questo il problema ed è proprio questa la sfida impossibile del Quarto Vangelo. Rimanere non è solo prolungare passivamente ma immergere e affondare e impastare i nostri deboli amori in quel vertiginoso fuoco che il Gesù giovanneo chiama il legame fra il Padre e il Figlio.

Intrecciare i nostri fragili amori con quell’amore che lega Gesù al Padre. Che azzardo che assurdo che follia. Sarebbe come rivestirci dei panni dei tanti amori come ad esempio dal Cantico dei Cantici. Un po’ così. Ma a questo tende il Quarto Vangelo nei suoi capitoli finali: educarci finalmente all’amore.

E su questo Giovanni non concede tregua. Gesù parla parla parla ininterrottamente, si esalta si commuove si rammarica si intristisce.  E senza prendere fiato incoraggia rimprovera promette scongiura. Per aprirci all’Amore.

Quello sarà il tuo tempo: il tempo della vite e dei tralci anche per te. La fede e la voglia di vivere di sapere di gustare di tendere alla luce saranno allora un tutt’uno, senza stare più a discutere e razionare e separare religione e vita. Sarà impossibile metterci mano.

Questa è la fede che sogno. Non so voi.

Perchè il frutto della linfa, della vite di questa immagine giovannea è:

amore

libertà

coraggio

è l’I Care, cioè mi preoccupo di te, mi curo di te, ci sono per te.

È  un grande inno di amore. Purificare, resistere, oppure potare e rimanere, è costruire nell’oggi l’Amore abbondante, rigoglioso, saldo, nella fatica della quotidianità, che è innestato nella vite del Cristo, del Cristo Risorto.

Dunque con Gesù e con il messaggio della sua vita occorre instaurare un rapporto stabile e profondo, non passeggero, non momentaneo, non dettato dal futile e passeggero entusiasmo. Solo allora porteremo molto frutto.
Non si tratta di una promessa da montarci la testa. Si tratta di prendere sul serio la prospettiva che le nostre piccole vite non sono inutili, non sono sterili, che i semi gettati nella direzione dell’amore e della solidarietà non vanno perduti perchè il campo della vita personale e del mondo gode della cura di un agricoltore (v.1) che è Dio. Possiamo seminare e fidarci. Non ho mai sognato cose grandi, ma prego ogni giorno Dio perchè io possa scegliere e percorrere i sentieri della fecondità per non vanificare i Suoi doni e per rendere più abitabile il Suo campo.

 

Fabio Perroni

Stupiti e perplessi

Atti 2 12-13

 

12 Tutti stupivano ed erano perplessi chiedendosi l’uno all’altro: «Che cosa significa questo?» 13 Ma altri li deridevano e dicevano: «Sono pieni di vino dolce».

 

Fratelli e sorelle per un non professionista della parola come io mi ritengo è difficile predicare su testi molto corti o addirittura su un paio di versetti estrapolati da un brano più corposo.

In alcuni casi questa situazione potrebbe essere addirittura considerata scorretta perché un brano biblico andrebbe letto, analizzato e discusso nella sua interezza.

Sono quindi consapevole di affrontare una situazione difficile e spero mi perdonerete se non riuscirò appieno e allo stesso tempo prego il Signore di rimanere fedele al Suo messaggio che queste parole ci indicano e di non utilizzarle per altri fini.

I versetti estrapolati appartengono, come credo sappiate tutti al racconto della Pentecoste che abbiamo celebrato poche settimane fa, racconto che quindi non riprenderò, voglio però soffermarmi proprio su questa parte finale che ritengo molto significativa per i credenti di allora ma forse ancor più di oggi.

Il giorno di Pentecoste per i discepoli di Gesù e per la popolazione di Gerusalemme, accade qualcosa che darà nuovo significato a questa festa ebraica e che segnerà una svolta epocale per tutta la storia del popolo di Dio.

Quel giorno troviamo i discepoli di Gesù in una casa di Gerusalemme che, riuniti in preghiera, attendono qualcosa che ancora non sanno bene definire, ma che Gesù aveva loro promesso.

Noi che attraverso i racconti biblici li conosciamo bene non troviamo affatto strano che gli Apostoli non avessero del tutto compreso il messaggio del Cristo. Troppe volte nella storia e anche ai nostri giorni questo messaggio è stato mal interpretato, sfruttato per altri fini o semplicemente ignorato.

I discepoli di Gesù quindi vennero improvvisamente invasi dallo Spirito Santo e questa esperienza avrebbe cambiato del tutto la loro vita e ovviamente anche la nostra.

Essi ricevono “il dono delle lingue”, quello che permette loro di comunicare efficacemente quel che riguarda Gesù di Nazareth, l’Evangelo, a gente di lingue e nazioni differenti.

Questo dono prefigura e annuncia l’inizio del giorno in cui Dio raccoglierà, per far parte del Suo popolo, persone da tutto il mondo.

La cosa per noi oggi è ovvia perché noi vediamo questa cosa come già avvenuta, le nostre comunità sono piene di genti, fratelli e sorelle, che parlano lingue differenti, usano liturgie diverse e talvolta indossano abiti di foggia per noi strana. Noi lo diamo per scontato, diciamo che viviamo in una Pentecoste 2.0

Persone che nonostante tutti differenti modi di chiamarlo adorano un medesimo Salvatore e pregano lo stesso Signore.

Ma a quell’epoca nel mondo di tradizione ebraica era assolutamente una novità affermare che tutti gli uomini saranno chiamati a far parte del popolo di Dio senza più significative distinzioni

La risposta che parte di quel mondo dà ai discepoli ha sempre colpito molto, ed essa è proprio quella compresa nei versetti che abbiamo letto:

“E tutti stupivano ed erano perplessi, e si dicevano l’un l’altro: «Che vuol dire questo?». Altri invece li schernivano e dicevano: «Sono ripieni di vin dolce!».

Davanti alle frasi pronunciate dagli Apostoli all’annunzio delle parole del Signore, perché questo stavano facendo i 12 parlando nelle più svariate lingue, essi annunciavano il Signore molti rispondevano prendendoli in giro e credendoli ubriachi.

Noi non ci stupiamo se riflettiamo a come lo stesso Gesù era stato spesso accolto durante la sua missione in giro per la Palestina: c’era chi lo odiava e tramava la sua morte ma anche chi lo prendeva in giro tutti noi ricordiamo le parole pronunciate ai piedi della croce dove fu inchiodato:

Così pure, i capi dei sacerdoti con gli scribi e gli anziani, beffandosi, dicevano: 42 «Ha salvato altri e non può salvare sè stesso! Se lui è il re d’Israele, scenda ora giù dalla croce, e noi crederemo in lui.»

Niente di strano quindi che il messaggio di amore e fratellanza portatoci dal Cristo e rilanciato dagli Apostoli sia bersaglio di prese in giro.

Ecco purtroppo anche oggi alle parole che le chiese cercano di annunciare, soprattutto in ambito politico e sociale la risposta è troppo spesso: “voi siete ubriachi” o l’altrettanto valido “voi siete pazzi”.

Davanti alle affermazioni dell’Apostolo Paolo che non esiste più né Greco né Giudeo cosa è stato risposto tanti anni fa?

E davanti alle altrettanto clamorose affermazioni che non esiste più libero ne schiavo?

Davanti alla affermazione che i laici avevano la stessa prerogativa di predicare l’Evangelo cosa è stato risposto a Valdo ed agli altri riformatori tanti anni fa?

Ma voi siete pazzi!!!

Davanti ad alcune affermazioni sulla parità delle donne anche e soprattutto nel ruolo di predicazione cosa fu risposto ormai tanti anni fa a Wesley ed agli altri riformatori?

Ma che siete ubriachi?

Davanti all’affermazione che esiste parità di dignità nell’amore fra due esseri umani a prescindere dai loro sessi cosa ci è stato risposto non tanti anni fa?

Ma voi siete pazzi!!!

Quando prima a Milano e poi a Roma alcuni fratelli decisero di iniziare a distribuire aiuti ai senza tetto cosa dissero (o magari solo pensarono perché dirlo avrebbe fatto brutto)?

Ma perché la domenica mattina non ne approfittate per dormire visto che potete, siete proprio pazzi!!!

Quando la Federazione delle chiese evangeliche immaginò e propose i corridoi umanitari da molti come venne derisa?

Far entrare i rifugiati con l’aereo e non fargli rischiare la vita in un barcone? Ma che idea da pazzi!!!

Quando si decise che ad Intra il nostro stabile vista lago che poteva sicuramente essere affittato ai turisti tedeschi fosse destinato alla seconda accoglienza per famiglie con problemi cosa si poteva pensare?

Che la chiesa era pazza a rinunciare a quei soldi!!!

E quando la Tavola dell’epoca aprì nel cuore della Sicilia, terra di mafia e disoccupazione un centro a Riesi convinta che lavoro e legalità fossero il modo migliore di testimoniare il Signore in quelle terre cosa dissero in molti?

Che erano e forse ancora siamo pieni di vino dolce!!!

Ed allora la Pentecoste, la festa della nascita della Chiesa intesa come gruppo di persone che portano avanti la predicazione di Gesù Cristo in questo nostro mondo così imperfetto, è anche questo.

Il momento in cui i credenti si rendono conto che c’è chi “rema contro” C’era chi remava contro nella Gerusalemme del I secolo e purtroppo c’è chi rema contro anche nell’Europa del XXI secolo. Ma queste persone, questi movimenti, queste idee non remano contro la Chiesa, umana riunione di uomini e donne essi remano contro e si oppongono al messaggio Cristiano così come il Salvatore dell’umanità ce lo ha rivelato.

Mentre scrivevo queste riflessioni mi sono accorto che esse possono apparire un modo di incensare le nostre chiese, cosa del tutto lontana dalle mie intenzioni considerando che tutti noi in questo locale sappiamo benissimo che esse hanno mille difetti e mille mancanze, sono formate da uomini e donne con le loro debolezze e i loro difetti, che esse arrancano per portare avanti la testimonianza e soprattutto che solamente con l’aiuto indispensabile del Signore hanno portato avanti quelle e le altre che abbiamo ricordato.

Ne erano coscienti gli apostoli, ne era cosciente Paolo che scrisse nella sua lettera ai Corinzi:

26 Infatti, fratelli, guardate la vostra vocazione; non ci sono tra di voi molti sapienti secondo la carne, né molti potenti, né molti nobili; 27 ma Dio ha scelto le cose pazze del mondo per svergognare i sapienti; Dio ha scelto le cose deboli del mondo per svergognare le forti; 28 Dio ha scelto le cose ignobili del mondo e le cose disprezzate, anzi le cose che non sono, per ridurre al niente le cose che sono, 29 perché nessuno si vanti di fronte a Dio.

Di questo dobbiamo esserne ben coscienti e tenerne conto nell’impegno quotidiano di testimonianza che ci siamo presi sulle spalle, in questa società ci sarà sempre chi accuserà le chiese, tutte le chiese su questo siamo in un ambito di perfetta parità, di parlare come pazzi e i credenti di essere pieni di vino dolce.

Signore nostro Dio che hai mandato il tuo Figlio unigenito a salvarci e ad indicarci la strada da seguire, che mandi il tuo Spirito a consolarci ed accompagnarci per questo cammino aiutaci a ignorare chi ci accusa di essere pazzi e a non ascoltare chi ci accusa di essere pieni di vino dolce.

Amen

pred. Enrico Bertollini

Il ribelle e il bigotto

Lc. 15, 1-3. 11-31
Immaginatevi che un gruppo di persone della comunità, mentre si reca allo studio biblico, veda in un bar la pastora che si fa un bicchierino un po’ forte insieme alle prostitute del quartiere. Sarebbe un bel colpetto. Poi però qualcuno penserebbe: Sì, forse ha esagerato un po’, ma è per il loro bene. Parlando con loro, può convertirle. Supponiamo però che la pastora risponda: Veramente io sto con loro perché mi sono simpatiche. E già che ci siamo: siete proprio sicuri che siano loro, le prostitute, che si devono convertire? Magari siete voi che siete mal messi con il buon Dio e dovreste darvi una regolata.
Non credo che il gruppetto della chiesa la prenderebbe molto bene. Proprio questo, però, è quello che secondo Luca vuol dire Gesù. Non un discorsetto edificante sull’amore di Dio, bensì un pugno nello stomaco delle persone per bene convinte che le altre siano per male.
La nostra parabola ha ricevuto, nella storia della chiesa, vari titoli: “Il figliuol prodigo”, probabilmente il più diffuso; “Il padre misericordioso”; “I due fratelli”. Potremmo aggiungerne un altro: “Vite contrapposte. Due modi di intendere ll’esistenza,, due “progetti”, diremmo oggi, che sembrano prendere direzioni diametralmente opposte. Vediamole.
Il “figliuol prodigo”, il trasgressivo. Quali sono le sue motivazioni? Un famoso poeta sostiene che il ragazzo aveva bisogno di non essere amato. Il racconto non offre indicazioni chiare, ma la congettura sembra un po’ astratta, filosofica. Più semplice e diretta la tesi di suo fratello: ha voluto sperperare tutto quanto con le prostitute. Forse si tratta di una semplificazione, ma ha il merito di limitarsi ai crudi fatti.
Farsi liquidare anticipatamente l’eredità (un terzo del patrimonio paterno, nel caso del figlio minore) era in teoria giuridicamente possibile, ma rappresentava una richiesta estrema, considerata offensiva nei confronti del genitore; anzi, la saggezza ebraica invitava quest’ultimo a rifiutare; già il libro dei Proverbi, del resto, sa che «l’eredità acquistata in fretta non sarà benedetta alla fine» (20,21). Il racconto vuole che ci immaginiamo in modo vivido il compiersi di questa profezia di sventura: dapprima la voglia compulsiva di spendere, poi la carestia, la necessità di accettare un lavoro ritenuto particolarmente ripugnante e religiosamente impuro, fino all’estremo di dover desiderare, invano, il cibo dei maiali. Il testo resta ambiguo sulle motivazioni del ripensamento. Il ragazzo si pente in senso morale? Una lunga tradizione interpreta in questa senso, compreso il nostro inno con musica di Mendelssohn. La faccenda, tuttavia, non è affatto chiara e, anzi, il v. 17 sembra suggerire un calcolo: in ogni caso, da mio padre mi andrà meglio. Il giovane, però, si conquista un certo rispetto da parte di chi legge preparando un discorso sobrio, che non accampa scuse né cerca di edulcorare la situazione.
Veniamo alla vita contrapposta, il figlio maggiore. Di lui sappiamo, essenzialmente, quello che ci dice egli stesso, che cioè è stato un figlio per bene e senza grilli per la testa. Colpisce il vocabolario utilizzato dal giovane: per anni ha servito il padre, senza trasgredire alcuno dei suoi ordini (la parola è la stessa che indica i comandamenti). Egli si muove in un universo rigidamente gerarchico il che, secondo il racconto, gli impedisce di comprendere il proprio rapporto col padre («ogni cosa mia è tua»: ma il ragazzo non se n’era accorto) e, soprattutto, lo spiazza di fronte al fatto che il padre vive secondo un’altra logica. La storia è costruita in modo da presentarci il giovanotto in modo poco simpatico. Tuttavia ci possiamo chiedere: come mai aveva interpretato la vita familiare in termini militari? Se l’era sognato lui, oppure il padre l’aveva, diciamo, aiutato a fraintendere la situazione? Non lo sappiamo. Fatto sta che egli ha costruito il suo rapporto sull’obbedienza alle regole, l’esatto contrario di suo fratello. Vite contrapposte, come dicevamo.
Con ciò, però, siamo ancora alla superficie di questo rapporto a tre. Dietro l’apparente contrasto tra le vite dei fratelli, vi è un parallelismo assai più importante: entrambi i figli sono ciechi di fronte all’amore del padre; entrambi comprendono il rapporto con lui come oppressione, solo che uno si ribella, mentre l’altro subisce. Le vite dei due giovani sono opposte, ma il rapporto con il padre è meno diverso di quel che sembra a prima vista. Il senso di oppressione è comune. Da una parte il ribelle, che manda a quel paese il padre e le buone regole; dall’altro l’obbediente, che però si fa il fegato marcio e sotto sotto invidia le prostitute di quell’altro, le vorrebbe anche lui, gli sembrano un’espressione di libertà, ma non ha il coraggio. Sono entrambi come un tappo che sta per saltare. E salta, in effetti: per il figlio minore, quando decide di andarsene; per l’altro, quando il ritorno del fratello è accolto dal padre come il più grande dei doni. Sintomi diversi della stessa malattia: l’incapacità radicale di comprendere l’amore di questo padre e in fatto che la sua casa è un luogo di vita e di libertà, non un campo di lavori forzati.
E Gesù chiede ai bravi israeliti che lo ascoltano, e chiede a noi ora: e voi, con tutta la vostra religione, da che parte state? Siete tra quelli che pensano che Dio li metta alla prova, voglia vedere se sono proprio così bravi come dicono, così obbedienti, così fedeli? E che magari, sotto sotto, non ne possono più di questo Dio, dei suoi precetti e dei suoi obblighi, e invidiano “gli altri”, che sembrano più liberi di vivere una vita interessante, con tante belle cose che a loro, a noi, sono negate (da Dio!)?
La domanda di Gesù è stata ben capita dai suoi interlocutori, che non l’hanno presa bene. Semplificando un po’, si potrebbe osare dire che Gesù è stato ucciso proprio per questa domanda: per il suo sospetto, esplosivo, destabilizzante, che le persone della religione, tutte casa e chiesa, non sono più vicine a Dio di quelle che frequentano i bordelli. gli uni e gli altri sono diversi in tutto meno una cosa: la volontà profonda di sbattere la porta in faccia a Dio.
Gesù, però, dice anche un’altra cosa, se possibile ancora più importante, se possibile ancora più esplosiva. Che Dio, Dio stesso, quella porta la tiene aperta. Per le persone per bene e per quelle per male. La vita vera, dice Gesù, non è nei bordelli, certo; ma non è neanche nell’esistenza bigotta che critica gli altri per sopportare la propria mediocrità. La vita vera è resa possibile dalla porta tenuta aperta da Dio, per entrambi i figli. Il racconto non dice se il maggiore, l’uomo per bene, voglia entrare alla festa. Il padre, però, lo desidera molto ed è per questo che ci è concesso di avere speranza.
Amen.
prof. Fulvio Ferrario

Il dolore della vita sulla via per Emmaus

Il dolore è una costante della nostra vita. Tutti e tutte noi, inevitabilmente, ci troviamo a provare sofferenza. E, a volte, il dolore è talmente forte da renderci non solo le nostre menti disilluse ma anche i nostri occhi ciechi. Questa sorta di apatia provocata dalla consapevolezza della sofferenza nella nostra esperienza ci pone come un velo nero davanti agli occhi che non permette di vedere nessuna consolazione. Questo è quello che è accaduto ai discepoli sulla strada per Emmaus. Seguaci del Signore Gesù Cristo, sì, ma pur sempre esseri umani. I discepoli sono talmente accecati dal dolore della perdita che non riescono a rendersi conto di chi hanno davanti, di quale consolazione quella presenza potesse realmente portare loro. Gesù è morto, è stato ucciso con una morte atroce, la crocifissione, e quella vista li ha talmente annebbiati da non rendersi conto che in realtà il Cristo è risorto, è risalito dal soggiorno dei morti ed è davanti a loro.

Anche noi, spesso, viviamo con un senso di attesa che è in sé “attesa sterile”: un sentimento di sospensione, che ci porta a pensare che non ci sia nulla da aspettare; nulla di bello, nuovo, o positivo da attendere. L’annuncio dell’Evangelo diventa così per sua natura in-atteso, non solo nel senso che ci travolge nel suo essere stupefacente, come stupefacente può essere una sorpresa ben architettata, ma è in-atteso nel senso che non lo stavamo aspettando, non lo stavamo, o forse non lo stiamo, più aspettando in un momento in cui prendono il sopravvento lo sconforto, il lutto e lo smarrimento, le ansie per il presente o per un futuro che sembra non poter essere diverso da come è.

Schiacciati da un lutto sono anche i due discepoli, senza più prospettive e speranze, che appartengono ormai solo al passato v21: “Noi speravamo che fosse lui che avrebbe liberato Israele; invece, con tutto ciò, ecco il terzo giorno da quando sono accadute queste cose”. E in questa condizione di non attesa, di focalizzazione su quello che non può più essere, né può più accadere, i discepoli non riconoscono che quello che attendevano e “faceva loro ardere il cuore” è già lì accanto a loro.

In effetti, uno dei tratti distintivi di questo testo risiede nel mancato riconoscimento di Gesù da parte dei due discepoli per quasi tutto il corso della narrazione. Ma anche questa è spesso e tristemente la condizione di molti cristiani e cristiane che, trasversalmente a tutte le confessioni, pur frequentando con assiduità le Sacre Scritture, le occasioni di culto comunitario e i sacramenti, di fatto vivono come se Gesù non fosse altro che il protagonista di una storia, per quanto importante, finita molto tempo fa, o eventualmente collocano il Signore Gesù in una prospettiva di religiosa astrazione, iperuranica e non vicina. L’aspetto preoccupante di questa miopia religiosa si traduce nella difficoltà a riconoscere Cristo nelle nostre relazioni personali, nella nostra comunità come al di fuori di essa, e rischia di compromettere seriamente la credibilità di qualunque testimonianza cristiana verso l’esterno.

Gesù è fisicamente accanto a loro, è lì presente, ma essi non riescono a vedere. Eppure, nonostante la nostra miopia, Dio nella sua infinità bontà ci viene incontro e prova instancabilmente a fare breccia nel nostro cuore per accendere in noi la luce della fede.

“Resta qui con noi, il sole scende già” a prima vista e fuori dal contesto, questa frase può sembrare una richiesta di aiuto rivolta a Dio. I discepoli, al contrario, nel rivolgere questo invito a Gesù credono di far lui un favore, credono che sia lui ad avere bisogno di protezione, vogliono offrire un riparo per la notte, non vogliono lasciare solo uno straniero. In realtà non sanno che sono loro stessi ad aver bisogno di lui. Quante volte ci capita di aiutare una persona e scoprire di aver ricevuto più di quanto si sia dato. Questo è un miracolo ogni volta sconvolgente: Quando mi volgo ad aiutare qualcuno o qualcuna inconsapevolmente, ma a volte anche consapevolmente, inorgoglisco all’idea che qualcuno abbia bisogno di me, mi riempio di vanto pensando: “quanto sono brava, ho aiutato chi aveva bisogno, ho seguito gli insegnamenti di Cristo”. Dura un attimo, il tempo esatto di capire che non avevo capito nulla, il tempo necessario per  rendermi conto di essere molto più fragile che forte, molto più bisognosa di aiuto di quanto pensassi; a quel punto, quando nulla è andato come previsto, ecco che tutto si risistema e acquista senso.

Forse è questo quello che è accaduto ai discepoli di Emmaus, il loro invito si è dimostrato una richiesta di aiuto invece che di protezione: facendo entrare Gesù in casa con loro hanno permesso ai loro occhi di aprirsi e credere alla buona notizia che pensavano ormai passata.

E noi dove possiamo incontrare effettivamente il Signore Gesù oggi? Forse nessuno di noi ha avuto modo di fare per strada una lunga conversazione con lui, ma non per questo ciò significa che non abbiamo modo di riconoscerlo e ascoltarlo tangibilmente nella nostra vita. Tre sono infatti i luoghi in cui possiamo a tutti gli effetti incontrare il Signore. In primo luogo, nella sua Parola, ovvero nelle Scritture che ascoltiamo e che sostanziano e fondano l’annuncio della Chiesa. Banalmente, qui nel culto ogni domenica. In Secondo luogo, strettamente connesso al primo, nel sacramento della Cena. In fondo questo è accaduto agli stessi discepoli di Emmaus: È nella semplicità e nella rapidità di un solo gesto, quello di spezzare il pane, che i due discepoli comprendono e riconoscono che il forestiero con cui avevano passato lunghe ore a conversare, in realtà altri non era che il Signore stesso. Allo stesso modo, nella Santa Cena, proprio mentre speziamo il pane e beviamo il vino insieme ricordando il sacrificio di Gesù per la nostra salvezza, noi lo incontriamo nell’intimo del nostro cuore, e pur nella nostra cecità, ci viene donato di ricordarci di essere un solo corpo con il Signore, le nostre sorelle e fratelli. Ed è proprio per questa ragione, in virtù della comunione e del comandamento dell’amore che Gesù ci dato durante il suo ministero pubblico, che il terzo luogo in cui possiamo effettivamente incontrare il nostro Signore è chi è altro da noi, il nostro prossimo. Quella persona che è sempre inattesa perché non siamo noi a sceglierla. La persona che con i suoi limiti e i suoi doni ci impone la  necessità dell’incontro come scandalo e opportunità. La persona, chereca nel suo volto tutti i comandamenti: non uccidere, non rubare, non commettere adulterio, non desiderare, ama il prossimo tuo come te stesso.

Sì, sorelle e fratelli, è anche nel nostro volto, in quello di coloro che ci si siedono accanto proprio qui, anche questa mattina, che possiamo incontrare il Signore Gesù Cristo. In un altro passo dei Vangeli, in Matteo, Gesù parla del giudizio nell’ultimo giorno:34 Allora il re dirà a quelli che stanno alla sua destra: Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo. 35 Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, 36 nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi. 37 Allora i giusti gli risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere? 38 Quando ti abbiamo visto forestiero e ti abbiamo ospitato, o nudo e ti abbiamo vestito? 39 E quando ti abbiamo visto ammalato o in carcere e siamo venuti a visitarti? 40 Rispondendo, il re dirà loro: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me.

Care sorelle e cari fratelli, Cristo è davvero risorto e conosce la nostra vita e le nostre vie. Egli ci accompagna e si rivela laddove forse noi non siamo più abituate e abituati a cercarlo, ad ascoltarlo. Ma Lui c’è. La Pasqua non è quindi una storia passata, non è semplicemente una narrazione religiosa che possiamo riporre nel cassetto fino all’anno prossimo, ma è il fondamento di una speranza nuova, di una vita nuova a partire dalle nostre relazioni, a partire da quella che abbiamo con l’ascolto delle Scritture, sino a quella con il nostro prossimo. L’Evangelo di Pasqua è l’inatteso che si concretizza per proiettare la grazia di una speranza futura nella quotidianità del nostro presente, perché la nostra vita porti molto frutto. Amen.

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Giona, fuggire dalla presenza di DIo

Care sorelle e cari fratelli nel Signore,

il libro del profeta Giona è una dichiarazione tangibile, un esempio reale della verità del cammino di fede di qualcuno chiamato a compiere una specifica chiamata.

Leggendolo, anche solo una volta poiché è breve, e con solo 4 capitoli possiamo collocarlo nel contesto della portata di ciò che ha già fatto per testimoniare l’opera salvifica di Dio a noi oggi. Giona si traduce in colomba che significa un messaggero.

Egli è figlio di Amittai che significa verità. Quindi Giona era un messaggero della verità.

Il centro del suo fuggire dalla presenza di Dio  risiede un atteggiamento di paura di avere una fede scarsa, senza però potersi nascondere da Lui in alcun modo.

Rowena e d io, abbiamo  discusso sulla vocazione rivolta a  Giona da Dio.

Abbiamo discusso del suo rifiuto di adempiere il suo mandato perché aveva preso un’altra via lontano da quel luogo indicato a lui, laddove avrebbe svolto la sua specifica chiamata.

Agli occhi di Dio la città di Ninive era il luogo dove Giona poteva intervenire attraverso la proclamazione della sua Parola affinché si convertissero dai loro affari malvagi, poiché non conoscono il bene, fanno tutto il male.

L’intento di Dio  non fu compreso bene Giona.

Si può capire, E’ ancora all’inizio, lui non ha ancora ben afferrato tutto.

La storia dice che possiamo quindi capire il comportamento di Giona illustrato all’inizio dell’omonimo libro. Dio gli chiese di andare a Ninive, il capitale d’Assira, per avvertirli del giudizio che stava per mandare su di loro a causa della loro malvagità, ma Giona non aveva nessuna intenzione di farlo. Nell’ottavo secolo a.c. gli Assiri erano infatti già noti per la loro malvagità e per la crudeltà nel trattare i nemici. È quindi comprensibile che Giona fosse riluttante ad andare proprio a Ninive a portare un messaggio da parte di Dio.

Perché Dio voleva avvertirli e dare loro una possibilità di salvezza?

Giona avrebbe preferito, come si comprende leggendo il resto del libro, che Ninive venisse annientata.

Giona ricevette un ordine preciso ma fece tutto il contrario di ciò che Dio gli aveva chiesto. Egli sapeva che gli Assiri sarebbero stati un problema per Israele e, spinto dal proprio patriottismo, scelse di non essere proprio lui lo strumento attraverso cui Dio li avrebbe salvati!

Care e cari,

Domenica scorsa era la domenica della Trinità. La nostra sorella Francesca Agrò ci ha ricordato il Dio trino, le tre persone di Dio Padre, Figlio e Spirito, cioè il Dio che si è rivelato come Colui che è AMORE.  Nel giorno della Pentecoste lo Spirito di Dio scese dal cielo. Si unì con i discepoli e le discepole, che apparvero come delle lingue di fuoco. Noi così abbiamo appreso e con timore e tremore scorgiamo la presenza di Dio, capace di irrompere, di pervadere, attraversando i confini, le barriere a partire da noi stessi.

Così Dio inseguì Giona attraverso anche la tempesta del mare per rivendicare la sua volontà.  Allontanandosi dal luogo della propria missione, Dio continua anche lui con insistenza la sua volontà di fare ciò che aveva in mente, il suo proponimento.

Il disegno di Dio che sarà compiuto da Giona era anche un pensiero che il Salmo 139 ha voluto esprimere in parole che ci ricordano della conoscenza che Dio ha in sé di ciascuna e ciascuno di noi. Così, il Salmista dichiara:

7 Dove potrei andarmene lontano dal tuo Spirito,
dove fuggirò dalla tua presenza?
8 Se salgo in cielo tu vi sei;
se scendo nel soggiorno dei morti, eccoti là.
9 Se prendo le ali dell’alba
e vado ad abitare all’estremità del mare,
10 anche là mi condurrà la tua mano e mi afferrerà la tua destra.
11 Se dico: «Certo le tenebre mi nasconderanno
e la luce diventerà notte intorno a me»,
12 le tenebre stesse non possono nasconderti nulla
e la notte per te è chiara come il giorno;
le tenebre e la luce ti sono uguali.

13 Sei tu che hai formato le mie reni,
che mi hai intessuto nel seno di mia madre.

Perciò, noi cogliamo in questo momento, nel tempo di Pentecoste, per elevare l’opera più potente dello Spirito, che nella vita del profeta Giona aveva precisamente usato questo prodigio per la salvezza del popolo di Ninive.  A colui che è, lo Spirito di Dio, disse: Alzati e va’ a Ninive v.1…

Giona teme Dio, con la consapevolezza di Giona che ha su Dio produce in se l’autentica umiltà che porta a riconoscere il suo essere un semplice uomo, non capace di compiere grandi cose come il Dio che professa il  creatore del cielo e della terra. Questo fuggire di Giona era manifestato da questo timore. Forse perché era consapevole della sua grande inadeguatezza,  che non poté con la sua forza  fare ciò che Dio gli aveva comandato.

Nello stesso tempo  Giona disse: «Sono Ebreo e temo il SIGNORE, Dio del cielo, che ha fatto il mare e la terraferma».

Un ebreo, quindi colui che appartiene il popolo di Israele del Dio che con lui potrebbe anche fare di più come era con Mosè che aveva visto Dio con i suoi occhi i prodigi come lo faceva trasformando da una cosa all’altra nel libro dell’Esodo ai capitoli 3 e 4ss , la sua missione e obiezione.

A partire dal nome di Dio, “IO SONO COLUI CHE SONO” vuol dire non c’è nessuno o non c’è un altro nome più grande di lui; Il bastone che diventò un  serpente, poi si trasformò di nuovo un bastone;  la sua mano che diventò lebbrosa, bianca come la neve, poi di nuovo tornò come la carne, come era prima.

Non è un fatto magico ma è un essere di Dio che doveva comprendere Mosè perché fosse  lui a svolgere la sua vocazione di far uscire gli israeliti dalla casa del re faraone, dalla casa di schiavitù.

Quindi, parallelamente a ciò,  E’ opportuno evidenziare per noi oggi  la missione di Giona ai niniviti,  Coloro che erano stranieri  Dio aveva avuto pietà, e così ricordiamo che a sua volta anche per gli israeliti,  per mezzo di Mosè ebbero avuto la salvezza di Dio che li liberò.

Tutto il popolo ebreo e straniero ninivite sono stati investiti dal soffio dello Spirito e per mezzo della parola annunciata  rivelata da Dio ha portato la vita nuova, la vita rinnovata riconoscendo lui il Dio di tutti che non si limita a donare la sua bontà infinita.

Così io e Rowena abbiamo avuto in comune la conferma che quando Dio disegna un suo piano lo realizza. La salvezza universale è realizzata da Dio per mezzo del suo chiamato che compie l’annuncio della sua Parola a coloro che sono i destinatari.

Il frutto dell’opera di Dio Spirito, nell’uomo credente deve sempre ritornare al punto di partenza cioè di essere obbediente alla volontà di Dio come strumento al servizio della sua parola.

In questo modo si riconosce dagli ultimi destinatari cioè la chiesa che  Dio ha parlato sin dall’inizio  per bocca dei profeti per la salvezza di molti fino a Gesù.

Dio aveva giudicato i niniviti malvagi  perché  avevano raggiunto il picco della loro malvagità. E per questo motivo che mandò Giona poiché rivolse una parola giusta perché  si converta. La vocazione di Giona è unica proprio per il popolo di Ninive.

Noi che leggiamo la sua storia di vocazione realizzata nel suo percorso di  fede non priva di dubbi, ci incoraggia a credere di più e confessargli  che Dio prosegue ad eseguire il suo piano perché a ciascuna e ciascuno di noi serve a sua volta quello che è necessario ed opportuno.

Leggiamo la Bibbia e mentre lo facciamo, essa stessa ci legge e ci giudica a che livello siamo attraverso il nostro modo di praticare l’amore misericordioso di Dio, che è così irraggiungibile ed esaustivo perché solo in Lui è la salvezza di tutti per tutti, nascosta e rivelata a suo tempo. E per questo il nostro compito è quello di non esimerci dal proclamarlo sempre e ovunque per la nostra reciproca consolazione.

Conosciamo i nostri limiti, calcoliamo bene la nostra inadeguatezza, ma a Dio appartiene tutto.  Ci ha creati tutti perciò non sta a noi a dare l’ultimo giudizio e ebbene che ci ricordiamo  il Dio che ci mette insieme per fare ciò che è giusto.

Come possiamo dire ‘lui’ no, lei sì, perché  ha fatto questo e quel male.

Noi dimentichiamo spesso la nostra chiamata(vocazione) di essere per il progetto di realizzazione del piano di Dio che lo compie nella storia della salvezza di tutta l’umanità.  Ricordiamoci quelle parole del Signore Gesù: <<Non siete voi che avete scelto me, ma sono io che ho scelto voi…>>

Accettiamo umilmente che  siamo  giudici di noi stessi perché tendiamo ad esprimere giudizi immediati, e questo serve sempre a noi a guardare Dio di fronte  a noi.  Colui che aspetta al nostro dire di sì ad annunciare la sua parola che è un invito, un appello alla conversione.

Voglia il Signore accompagnarci e guidarci sempre con il suo spirito Santo. Amen

past.a Joylin Galapon

La Trinità

Cari fratelli e care sorelle,

oggi è la prima domenica dopo Pentecoste, domenica in cui generalmente si medita sulla Trinità, difatti il primo passo della Bibbia che oggi abbiamo letto si riferisce proprio a questo tema: Gesù è risorto, come promesso è arrivato sui discepoli lo Spirito Santo e il Vangelo di Matteo si conclude proprio con la enunciazione della Trinità stessa. Ci viene detto che tutti gli atti di fede compiuti non saranno nel nome di un  dio qualunque ma in quello di un Dio uno e trino, Padre, Figlio e Spirito Santo.

Curiosamente, due anni fa mi sono trovata in questa chiesa a predicare sempre su questo tema e la predicazione si era concentrata su come la  Trinità sia, in fin dei conti, una manifestazione di amore da parte di Dio verso l’Umanità. il nostro Dio è un Dio vicino in diverse forme, non lontano e distante, ma partecipe dei nostri sentimenti e che ci ama, infatti racchiude in sé la figura del Padre perché ci accoglie come Figli e ci ama di un amore immenso, del Figlio che addirittura si fa carne e viene ad abitare in mezzo a noi sperimentando anche le nostre sofferenze umane, e ancora di più dello Spirito Santo che è risultato della Sua promessa di non lasciarci soli e che guida la Chiesa Universale.

La Trinità è un atto d’amore dunque, ma Dio, come sappiamo, vuole che questo suo amore verso di noi sia contraccambiato non solo a Lui ma anche al prossimo, e questo è quello che oggi il brano su cui ho scelto di riflettere ci propone.

In questo passo la legge del taglione potrebbe sembrare qualcosa di deplorevole, ma in realtà tale sistema non era altro che una conquista civile per affermare che il male fatto doveva essere contraccambiato con la stessa misura e non in maniera sproporzionata, occhio per occhio e dente per dente invece che occhio per la vita del tuo nemico, ad esempio. Qui Gesù però, nonostante la moderazione di tale sistema, ci chiede di andare oltre ancora e di amare i nostri nemici. Come sappiamo questa richiesta è veramente difficile da esaudire, specialmente verso chi ci perseguita, ci ha fatto del male o peggio, ha fatto del male a qualcuno a cui vogliamo bene.

Mi sono quindi chiesta come mai Gesù ci chieda una cosa così difficile, e l’unica risposta che ho trovato è che probabilmente ce lo chiede perché solo l’amore può disinnescare il male. Vi faccio una confessione personale: sono una grande fan di Un posto al sole,che per chi non lo sapesse è una telenovela italiana storica che va in onda tutte le sere. Per chi lo conosce e lo segue sa che in questo periodo il tema ricorrente è proprio la vendetta per il male subito e una frase pronunciata da uno dei personaggi a un altro mi è rimasta impressa: possibile che lui (riferito a colui che vuole far del male)  in tutti questi anni non abbia avuto nessuno che lo abbia amato e che gli abbia fatto passare questa ossessione per la vendetta?  Cari fratelli, per quanto il contesto da cui sia stata estrapolata questa frase possa essere profano la verità è proprio questa: il male che noi subiamo e che c’è può essere battuto solo con l’amore. L’odio, quando esercitato, genera altro odio in una spirale che sembra infinita e senza uscita, l’unico modo per appiattirla è andare contro corrente…

A questo punto ci potremmo chiedere come si potrebbe  fare per cercare di ottemperare almeno un minimo a questa richiesta della vita cristiana. Credo che forse una delle strategie possibili sia il non essere superficiali e andare a fondo in quel che accade, capirne le motivazioni.  Da circa un anno e mezzo mi trovo a operare con persone che hanno compiuto reati, quelle che la società scarta, quelle invisibili…. Alcuni hanno compiuto anche i reati più gravi come omicidi o tentati omicidi, sfruttamento della prostituzione, altri “semplicemente” spaccio di droga o maltrattamenti… Queste sono le persone che la nostra società odia, forse anche ragionevolmente. Ma se si prova ad andare oltre, si scopre che queste persone sono persone che a loro volta hanno subìto maltrattamenti, persone che non hanno appunto conosciuto l’amore o che semplicemente, come afferma anche qualche corrente sociologica, non sono riuscite a vivere secondo la legge perché con mezzi legali non riuscivano a mangiare…. Si può essere anche i peggiori criminali, ma la fame ci accomuna tutti e se qualcuno non si riesce a sfamare per vie legali userà delle scorciatoie. Certo, questo non vuole essere una giustificazione, la società per funzionare ha delle regole ben precise e in un paese civile è giusto che chi sbaglia paghi. Ma forse, provando ad andare oltre, si può guardare chi fa il male con una consapevolezza diversa, la consapevolezza che ogi uomo è portatore di un bisogno, che la maggior parte della volte è l’amore e altre volte anche semplicemente la fame e questa mancanza talvolta porta ad azioni scellerate.

Vorrei concludere anche con un esempio più pratico e vicino a noi: poco tempo fa mi trovavo in una clinica per ritirare un importante risultato di una analisi. Ero molto nervosa e, ammetto, quando sono nervosa ho un carattere abbastanza fumantino. Siccome non  trovavo il posto esatto dove ritirare questo referto e i cartelli presenti si contraddicevano tra loro ho attaccato chi stava allo sportello. Mi sono comportata in modo aggressivo, e l’operatore ha risposto altrettanto…. Forse, vista da fuori questa storia dimostra che io ero in grande tensione per un importante risultato, e il mio interlocutore chissà, magari era pressato anche lui da vicende familiari o lavorative… non lo saprò mai, ma sicuramente se si avesse un minimo di dolcezza in più verso le persone il mondo potrebbe girare meglio di ora.

In questo periodo siamo in pandemia e abbiamo dovuto imparare ad amare a distanza, ma anche solo un pensiero credo che possa fare tanto.

Quindi fratelli, che il nostro essere cristiani possa portarci ad andare in profondità, a non soffermarci alle apparenze, che davvero Gesù ci guidi e ci porti ad amare ed essere testimoni della nostra fede. Amen

Francesca Agrò

Pentecoste

Sembra tutto chiaro, sembra tutto evidente. Un storia e la sua contro storia. Un tragedia e la sua soluzione.

Da Babele, la tracotanza umana respinta nella dispersione,  l’unità megalomane frantumata nella divisione … L’empia rivolta umana contro Dio che l’ha cerata … a Pentecoste, una nuova umanità che grazie allo Spirito ritrova in Cristo la comunione con Dio e quindi l’unità …

Babele come anti-Pentecoste, Pentecoste come anti-Babele …

La storia di Babele è tutta e solo nera? E’ solo una storia di peccato e castigo?

Un piccolo gruppo emigra da oriente, dove Caino era andato a finire (4,16) nel paese del vagabondaggio; cammina cammina, arriva nella grande piana di Babilonia e lì si stanzia.

C’era in tutta la terra, letteralmente, “un solo labbro e parole uniche”. Che vuol dire? Normalmente si pensa che l’umanità parlasse una sola lingua, che tutti avessero lo stesso lessico. Così la nostra traduzione. Stranamente, però, il capitolo precedente della Genesi ha già  fatto un lungo e complesso elenco di tutti i discendenti di Noè, lo scampato al diluvio, ognuno con la sua lingua (10,20.31). C’erano già “lingue, paesi e nazioni”. La storia di Babele vuole raccontare dopo quello che è successo prima?

C’è un’altra possibilità. “un solo labbro e parole uniche” non vuole indicare che non c’erano ancora lingue straniere, ma che tutti avevano gli stessi propositi, facevano gli stessi progetti. Non l’unità dell’idioma, ma l’unità degli intenti, gli stessi piani condivisi. L’umanità  tutta intenta ad uno stesso scopo, ottimisticamente lanciata in una sola direzione. Sappiamo che la propaganda degli assiri, che Israele aveva conosciuto a sue spese, diceva che il sovrano aveva  fatte avere “una bocca sola” ai popoli che sottometteva, li aveva ridotti a una bocca sola, cioè tutti obbedivano e non si ribellavano. L’unanimità, volontaria o estorta.

Proviamo a seguire questo filo di pensieri. Qual è il proposito unitario, il progetto che tutti mobilita, senza cedimenti o dissensi? Sono due, preceduti da una innovazione tecnica: hanno imparato a costruire mattoni e a cuocerli e a usare come malta il bitume, che affiorava dal terreno.  Sono due, dicevamo: vogliono costruire una torre e una città. E’ ovvio che intendono una città cinta da mura, una città in grado di resistere.

Cosa voleva essere la torre? Una struttura difensiva, per l’avvistamento dei nemici? Oppure  uno dei quei templi a gradoni che sappiamo esistevano: quello di Babilonia (Babele), si chiamava Etemenanki ed era alto più di 90 metri, una altezza eccezionale, per allora.

Volevano che la torre fosse alta, con la cima in cielo.

Qui c’è uno snodo importante. Si cela qui il proposito di una scalata al cielo, per raggiungere lo spazio degli dèi e mettersi al loro livello? Una sorta di sfida alle divinità, una tentativo di superare la distanza tra il cielo degli dèi e la terra degli uomini con una “iniziativa dal basso”, pensata come inarrestabile? Una pretesa titanica? Una “ribellione contro l’Altissimo”, per dirla con parole bibliche? La  torre che svetta orgogliosamente come “simbolo di ateismo”?

Oppure “la cima in cielo” è solo una immagine per dire che volevano fare una torre molto alta, forse la più alta che si potesse fare o che si fosse mai vista, ma senza nessuna pretesa di ascendere al cielo. Così è in Deut 1,28 e 9,1  dove si parla di città fortificate fino al cielo per dire che avevano alte torri. In Isaia 14,13 viene rimproverato al re di Babilonia di aver detto: “Io salirò in cielo, innalzerò il mio trono al di sopra delle stelle di Dio  …” L’ sì che si parla di sfida a Dio …

Perché vogliono fare così? Per “acquistare fama” e “non essere dispersi”. “Acquistare fama” è “letteralmente “farsi un nome. Alcune volte l’espressione è usata per Dio … per esprimere la grandezza che gli si riconosce, la fama che ha ottenuto … ma Dio ha anche “fatto un nome” a Davide (2 Sam 7,9 // 1 Cr 17,8) e Davide stesso “si è fatto un nome” con i suoi successi militari (2 Sam 8,13). Qui, a Babele, “farsi  un nome” e il tentativo di non essere dispersi sono collegati; forse è solo la volontà di realizzare qualcosa che venga ricordato, attraverso chi porterà dopo di loro il loro nome … resistenza all’oblio, continuare nella memoria. Noi ce ne andremo, ma lasciamo qualcosa di memorabile … Oppure si tratta di delirante megalomania, ricerca di fame imperitura? Senso di onnipotenza o semplicemente ansia …?

“Dio scese a vedere…” Un’altra di quelle espressioni che noi troviamo “poco da Dio”, come se avesse bisogno di avvicinarsi perché da lontano, da sopra,  non vede … E’ un modo umano, “fiabesco” di parlare, ma forse è così che ci viene detto qualcosa di importante. Dio “scende” per il grido che sale da Sodoma (Gen 18,21); promette a Giacobbe che “scenderà con lui in Egitto”, cioè che non lo lascerà solo; Dio è sceso dagli schiavi in Egitto perché ha visto la loro afflizione e udito il loro grido (Es 3,8) e vuole “farli salire” alla terra della libertà; Dio scenderà per parlare con Mosè (Num 11,17.25; 12,5); Dio scende, quando si manifesta con la sua forza (es. Giud 5,13; : Sal 18,10 ; 144,5). Dire che Dio “scende” è un modo di dire non è indifferente, che gli sta a cuore come le cose vanno quaggiù …

Dio scese a vedere la città e la torre (v. 5).  La torre è già costruita (al v. 8 smetteranno di costruire la città). Non arriva al cielo, se Dio scende. Dall’inizio della creazione, varie volte Dio “ha visto”. Al cap. 1, ha visto ogni volta che ciò che aveva creato “andava bene”.  Prima del diluvio (Gen 6,5) ha visto che l’umanità che aveva creato non andava bene. Qui vede che ciò che gli uomini costruiscono non va bene.

Che cosa non  va bene? Questo: l’unità di intenti che accomuna tutti gli umani è solo l’inizio e così nulla sarà loro impedito  di ciò che si proporranno di fare. Qui  forse è il punto del contrasto tra Dio e gli umani. Le stesse espressioni usate qui si trovano soltanto, in tutta la Bibbia, nel discorso in cui Giobbe (42,2) riconosce che  Dio “può tutto  e nessun progetto gli è precluso”.

Questo fare senza limiti viene interrotto. “Avanti, scendiamo e confondiamo la loro lingua in modo che, letteralmente, uno non ascolti più il labbro dell’altro”: pluralità degli idiomi o, anche e soprattutto, crisi dell’unità di intenti? Disperdiamoli, disseminiamoli … in un certo senso riconduciamoli così ai loro limiti, impediamo la confusione tra possibilità che si hanno e  illusioni, progetti velleitari e totalizzanti …

Dio parla al plurale. Come in 1,26: “facciamo l’umanità a nostra immagine …” e in 3,22 “Ora l’umanità è diventata come uno di noi …” Plurale maiestatico? L’immagine di una corte divina?

Sia come sia, la costruzione della città viene interrotta, i suoi abitanti dispersi, disseminati. E si ironizza sul nome della città. “Porta del cielo” voleva dire Babele … qui babele viene collegato – in ebraico ci sono suoni affini – al verbo della confusione. Le tante lingue che si sentivano nella grande città sono lette come il segno di un limite posto all’unità totalizzante … e totalitaria …

Come dobbiamo leggere la nostra storia? Come la consumazione di un dramma, come terribile atto punitivo di Dio? Come polemica contro le ambizioni del progresso e della civiltà? Oppure come reazione di Dio per difendere l’umanità da se stessa, non per avvilirla e ricacciarla indietro, per ricondurla ai suoi limiti, ma anche alle sue possibilità, senza illusioni che necessariamente saranno frustrate? Un punire e prevenire insieme … più prevenire che punire? Forse tutto è raccontato più con ironia che con il senso della tragedia.

Anche a Pentecoste, possiamo e forse dobbiamo rispecchiarci nella storia di Babele. Siamo ancora una umanità così. Progrediamo, ma ogni conquista ha un risvolto, porta con se anche le illusioni di Babele e l’ansia di Babele. Ci seduce il pensiero che, andando avanti così, nulla ci sarà impossibile e niente ci fermerà. Le nostre ambizioni e le nostre velleità ci impediscono di fare i conti con la realtà e con i nostri limiti. E così perdiamo ciò che è possibile per ciò che non può essere disponibile. Anche nella dispersione e nella pluralità delle lingue, illusioni e ambizioni totalizzanti sono sempre fra noi e dentro di noi.

A noi, che la storia di baele fa vedere come siamo, a noi Pentecoste annuncia che Dio scende ancora, per un’umanità così, con il suo Spirito che crea realtà nuove e certe.

prof. Daniele Garrone

Il nome al di sopra di ogni nome

Efesini 1,20-23
15 Perciò anch’io , appresa la vostra fede nel signore Gesù e l’amore (che avete) verso tutti i santi, 16 non cesso di ringraziare per voi facendone memoria nelle mie preghiere 17 affinché il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno Spirito di sapienza e di chiarezza nella conoscenza di lui 18 tale da illuminare gli occhi del vostro cuore, perché possiate intendere qual è la speranza della sua chiamata, quale la ricchezza della sua gloriosa eredità fra i santi, 19 e quale la straordinaria grandezza della sua potenza in favore di noi credenti secondo l’efficace intervento della sua forza vigorosa, 20 che egli dispiegò nel Cristo risuscitandolo dai morti e facendolo sedere alla sua destra nei cieli 21 al di sopra di ogni principato e autorità e potenza e dominazione
e ogni altro nome che si nomina non solo nel mondo presente ma anche nel futuro ; 22 e sottopose tutte le cose sotto i suoi piedi e lo diede (nella sua qualità di) capo su tutte le cose alla chiesa, 23 che è il suo corpo, la pienezza di lui che riempie tutto in ogni sua parte .
Celebriamo oggi la sollennità dell’Ascensione al cielo di Gesù. Abbiamo ascoltato il racconto nell’evangelo di Luca: quaranta giorni dopo la sua risurrezione, Gesù sale definitivamente al cielo. Per la verità, la festa liturgica era giovedì e in molte nazioni, come la Germania, la Svizzera o anche la Francia, che una volta erano cristiani, essa è ancora una festività civile. In Italia, no. Lo è l’Assunzione di Maria, il 15 agosto, ma non l’Ascensione di Gesù. Un po’ strano; o forse no, in questo paese.
Il mondo antico conosce molti personaggi importanti, profeti (pensiamo a Elia), eroi semidivini (Romolo), che ascendono al cielo e, in tal modo, si vedono riconosciuta l’autorità di Dio stesso. La divinizzazione dell’eroe, nell’antica Roma quella dell’imperatore, era un atto politico: se l’imperatore è divino, lo è lo stato, lo è Roma. Chi comanda nel mondo non è solo il più forte, il più brutale, il più cinico: comanda per diritto divino. Il potere sa essere anche generoso: con chi obbedisce e, più ancora, con chi adora . Obbedire al potere che si vuole divino è la condizione elementare per vivere in pace: meglio ancora, appunto, se ci si prosterna di fronte a chi siede sul trono.
L’epistola agli Efesini ha qualcosa da dire a questo proposito. Le forze che governano il mondo sono numerose e qui vengono chiamate: principati, autorità, potenze e dominazione. C’è però uno che è al di sopra di tutte quante, perché l’unico vero Dio ha posto ogni cosa sotto i suoi piedi: quest’uno è il Cristo risorto. Per orecchie cristiane, come le nostre, può apparire un’affermazione abbastanza scontata: celebrare Cristo, aggiungendo un titolo all’altro, una benedizione all’altra, ci costa poco. In realtà, quello di Efesini è un discorso molto pericoloso, non solo nel mondo antico. L’autore ci dice: quando i potenti della terra reclamano autorità assoluta, non date loro retta. Uno solo ha questa autorità. Non ci si inginocchia davanti al potere, né politico né religioso: è una bestemmia. Solo il Risorto o, come lo chiama l’Apocalisse, colui che era morto, ma ora vive nei secoli dei secoli, merita che ogni ginocchio si pieghi davanti a lui. Anche questo, dunque è un messaggio politico, come quello degli imperatori romani: solo, di segno opposto. Non il Cesare di turno, ma questo Gesù risuscitato da Dio è colui al quale il mondo è sottoposto. Lo stato, il potere politico e anche di quello ecclesiastico hanno il loro diritto, che è importante, ma relativo. La solennità dell’Ascensione proclama che il Risorto è il signore dei signori: usa il linguaggio del potere, per affermare che Dio solo regna sul mondo e sulla storia. E che dunque ogni potere umano è discutibile, se necessario contestabile.
Milioni di cristiane e cristiani, in tutti i tempi, sono morti per testimoniare questo evangelo. La città nella quale viviamo è piena di ricordi di questa testimonianza, nei primi secoli: dalle catacombe ai luoghi associati alla memoria dei martiri. A migliaia sono anche morti per testimoniare la signoria di Cristo contro la chiesa che la voleva usurpare: Cristo è il luogo – tenente (alla lettera: colui che tiene il posto) di Dio, ma il papa non è il luogotenente di Cristo. Molto spesso, per il papato dei secoli scorsi, celebrare l’Ascensione ha voluto dire: poiché Cristo è in cielo, qui in terra comando io. Cioè l’esatto contrario dell’evangelo di questo giorno. Io oggi posso dirlo con tutta tranquillità e magari qualche cattolico sarà d’accordo con me. Ma moltio evangelici sono stati uccisi per aver detto molto, ma molto meno.
Tornando al desiderio di onnipotenza del potere politico, esso va ben oltre Roma antica.. Pochi giorni fa è stato ricordato il centenario della nascita di una ragazza, Sophie Scholl, che è morta a 22 anni, assieme a diversi suoi coetanei, per dire che Hitler non era un Dio: e che siccome, invece, voleva farsi passare per dio, era in realtà un avanzo dell’inferno, un demonio. E si potrebbero elencare gli altri martiri del Novecento, uccisi dai regimi terroristici dei più diversi colori. La solennità dell’Ascensione è pericolosa, questa è la verità, perché pericoloso è Gesù: Erode ne aveva paura, Ponzio Pilato anche e il potenti di oggi sono degni allievi dei tiranni del passato. Gesù è tranquillizzante, innocuo, solo quando è ridotto a un’immaginetta, che magari lo vede svolazzare, come un passerotto o un angelo, tra cielo e terra. Colui che è asceso al cielo, invece, lo ha fatto per liberare la terra dai falsi dei. E questi ultini reagiscono e colpiscono.
Secondo l’epistola, tuttavia, vi è un luogo nel quale l’autorità del Risorto è presa sul serio. Un luogo che è ripempito della sua presenza, animato dalla libertà che promana da questo imperatore celeste che abbatte gli imperi terreni: questo luogo è la chiesa. Attenzione: non vuol dire, ripetiamolo, che la chiesa e i suoi capi sono onnipotenti. Questa è la caricatura dell’evangelo dell’Ascensione. Che il Signore dei signori, colui al quale Dio ha sottoposto il mondo, pervade e riempie la chiesa significa invece questo: ciò che la società, il mondo, non ha ancora riconosciuto, e anzi si ostina a negare, è già vero nella chiesa. E’ vero già ora, nella chiesa, che chi guida è in realtà al servizio: non però a parole, ma nei fatti. E’ vero già ora, nella chiesa, che non c’è un monopolio del potere maschile. E’ vero già ora, nella chiesa, che chi ha più soldi non è più importante di chi ne ha meno. La condivisione del pane e del vino, tra noi, non è un rito magico celebrato da uno stregone, ma l’opera di colui che, secondo sua madre, ha rovesciato i poitenti dai troni e ha innalzato gli umili, e quindi ci ha messi tutti in cerchio, per celebrare la sua memoria, cioè la sua presenza vivente. La chiesa è questo, sì o no?
Credo che possiamo osare rispondere: noi non siamo la chiesa dell’Ascensione come dovremmo, come vorremmo e nemmeno come potremmo. Però lo siamo un po’, non per merito nostro ma per grazia di Dio. Ed è questa la promessa rivolta alle nostre piccole comunità: essere segno della presenza di quel Signore che libera il mondo dai finti signori che vorrebbero trasformarci in servi.
Amen
prof- Fulvio Ferrario