Il comandamento del Signore e le nostre opinioni

1 CORINZI 7, 18-31

 

Quante preoccupazioni, quante sofferenze, umiliazioni, delusioni l’apostolo Paolo aveva dovuto affrontare a causa delle divisioni, dei disordini, delle rivalità che avevano iniziato a caratterizzare la vita della chiesa di Corinto, da lui fondata durante il suo secondo viaggio missionario.

Eppure, questo settimo capitolo della prima lettera ai Corinzi è rivelatore di qualcosa che ce li fa sentire un po’ più vicini, che ci rende più comprensivi, forse, nei loro confronti.

Ci rivela quanto difficile e faticoso sia il passaggio dal proprio retroterra culturale ad una vita veramente plasmata dall’Evangelo.

Quanto la comprensione delle esigenze dell’Evangelo, della vita nuova in Cristo siano condizionate dalla mentalità e dalle esperienze del mondo; dal c.d. “contesto”.

Quanto forte possa essere la tensione fra la radicale novità dei presupposti su cui si costruisce una comunità di fede e il suo continuare ad esistere nella sfera di dominio delle preoccupazioni mondane, una sfera fatta di relazioni da cui nascono vincoli e legami, impegni, responsabilità. Quanto sono compatibili queste relazioni con la dignità, il ruolo, la libertà, la vocazione scoperti nella nuova dimensione di fede ?

Questo capitolo mette insieme le risposte date dall’apostolo Paolo ad una serie di quesiti posti dai membri di chiesa sul tema del matrimonio,

Ascoltiamo alcune delle voci che hanno interrogato l’apostolo.

Dicci Paolo: una volta convertiti, non è vero che è meglio astenersi dai rapporti sessuali; anche se si è sposati, per mantenersi più puri ?

Non è addirittura meglio separarsi, così ciascuno (persino la donna!) è più libero per mettere a frutto i suoi doni per la missione evangelica ? 

E se uno ha una figlia, non è meglio che non la faccia sposare, in modo che resti vergine e come tale possa meglio consacrarsi al servizio divino, come fanno le vergini consacrate al servizio degli Dei pagani, nei templi greci?

E se poi, prima della conversione,  ci si è sposati con dei pagani, che non condividono la nuova fede, beh, almeno in questo caso non è certo che è meglio divorziare, per evitare conflitti e limitazioni derivanti dall’incomprensione del coniuge non credente, che cosa si ha più a che spartire ?

Nell’intreccio di culture, filosofie, religioni, tradizioni, etnie che caratterizza la società in cui vive, il credente cristiano riflette su ciò che è compatibile, coerente, preferibile.

Lo fa rispetto alle classificazioni in cui la società in cui vive incasella gli esseri umani, e da cui fa dipendere ruoli e valori: il matrimonio, dunque, al quale si riferisce il binomio sposati/non sposati; come l’appartenenza etnica (al quale si riferisce il binomio circoncisi/non circoncisi); e lo status sociale del binomio schiavi/liberi.

I quesiti posti a Paolo dai Corinzi negli anni 50 dopo Cristo, non sono forse quelli che noi oggi porremmo.

Ma il tema della tensione fra dentro e fuori, fra prima e dopo non ci è certamente estraneo, fa sorgere nuovi quesiti.

Quale rilevanza attribuisco io alle appartenenze che derivano dalle relazioni familiari, sociali, etniche che caratterizzano la mia vita ?

Quanto queste appartenenze e le reti di relazioni in cui sono immerso influiscono sulla definizione della mia identità.

Quanto confliggono con l’unica identità, quella nuova in Cristo, che dovrebbe contare, che preme nella mia vita, che chiede di crescere, di avere spazio, di ridefinire i vari ambiti della mia esistenza?

Paolo risponde, esaminando una ad una le affermazioni di chi gli ha scritto: “quanto alle cose di cui mi avete scritto”; quanto – si potrebbe dire – alle soluzioni che mi avete riferito di avere adottato…”

Le sue riflessioni e valutazioni rispetto al tema del matrimonio e della scelta di celibato/nubilato, sono chiaramente condizionate da una convinzione che si rivelerà infondata, ma che ancora per un po’ di tempo dominerà la vita delle prime comunità cristiane: quella cioè che la “parusia”, il ritorno di Cristo e dunque la fine del tempo del mondo presente, con il pieno avvento del Regno di Dio fosse vicinissimo e preceduto da grandi tribolazioni.

Il tempo è ormai abbreviato….

In quel contesto, e partendo da questa premessa, Paolo aveva scelto per sé il celibato (non certo per esigenze di purezza, ma di maggiore libertà nella missione e di minore esposizione di congiunti e familiari a sofferenze per le crescenti ostilità e persecuzioni).

Molte sue risposte sembrano conservatrici: “ognuno resti nella condizione in cui si trovava quando Dio lo chiamò”. Ma queste sono le risposte che Paolo sente di potere fornire in relazione a quel contesto, in cui non ha senso mettere in discussione ordini sociali, perché “il tempo è ormai abbreviato” e “la figura di questo mondo” (le sue strutture, le sue regole) “passano” …

Sia pure con questi limiti, in ogni caso, dall’approccio di Paolo possiamo trarre diversi insegnamenti preziosi, che sono ancora validi per affrontare i nostri quesiti, le nostre tensioni e forse anche per la edificazione della vita comunitaria, per le scelte che su come vogliamo camminare insieme come chiesa, come comunità di credenti

1) Il primo insegnamento, lo traiamo dal modo in cui Paolo presenta la maggior parte delle sue conclusioni: “Non ho comandamenti dal Signore” (cioè: non sto esprimendo una dottrina che Dio stesso impone a tutti), ma “esprimo il mio parere”.

Paolo insegna, quindi, a distinguere fra il comandamento del Signore e le nostre opinioni, anche quelle delle persone più autorevoli, che si mettono, con coscienza davanti alla parola di Dio per cercare di capire che cosa il Signore vuole, che cosa è veramente conforme alla sua volontà. Incoraggia, quindi, in ciascuno un processo di discernimento, senza risposte preconfezionate: un modello per la discussione all’interno delle chiese.

2) Il secondo insegnamento riguarda proprio il modo in cui vivere le tensioni relative ai rapporti mondani, alla rete di relazioni ed appartenenze che derivano dal nostro vivere nel mondo, con i suoi ordini, i suoi schemi culturali e le sue strutture sociali.

E ci dice che è inevitabile, alla luce del comandamento di Dio (per come esemplificato, anzi incarnato da Gesù stesso), sottoporre tutto ad un ripensamento critico;

ma questo lo si può, anzi lo si deve fare con la serenità (senza gli appesantimenti di risentimenti e di carica violenta) che nasce dalla consapevolezza che, per quanto importanti, le appartenenze del mondo, le classificazioni che ne derivano, sono “relative”.

Relativo il pianto ed il riso; relativi i possessi che se ne ricavano; come le privazioni che si subiscono.

Queste appartenenze e queste relazioni non vanno dunque mai assolutizzate, esponendosi a due rischi opposti: quello di trasformarle in idoli (la famiglia; la classe sociale; l’etnia, come fonte di sicurezza, di prestigio, di privilegio) o, al contrario, in fantasmi, in spauracchi di cui avere paura, pesi da cui sentirsi schiacciati.

Ed invece, sono di per sé prive di valore davanti al Signore e non rilevanti ai fini della salvezza: “Voi tutti che siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. (quindi) non c’è qui giudeo né greco (circoncisi/incorcincisi); non c’è né schiavo né libero, non c’è né maschio né femmina (marito/moglie; celibe/nubile), tutti siete uno in Cristo”:

E non hanno neppure il potere di condizionare in modo assoluto la libertà interiore che si trova quando è Cristo a dimorare in noi, radicandosi nel nostro cuore: voi siete stati riscattati a caro prezzo – ricorda Paolo- e qualunque sia la vostra condizione siete affrancati dal Signore, dunque, non diventati schiavi di nessun essere umano !

La realtà nuova di Cristo può essere vissuta, quindi, qualunque sia la condizione nella quale ci si trovi, in un equilibrio difficile, ma non impossibile: un equilibrio fra il rifiuto di vincoli opprimenti, che pretendono di forzare la coscienza, da una parte; ma anche della pretesa (pericolosa ed illusoria) di una autonomia individuale assoluta, che porta ad escludere qualunque legame ed impegno.

In questo equilibrio – difficile, ma non impossibile – le relazioni e le appartenenze del mondo, vanno orientate nello spirito del reciproco servizio e della reciproca sottomissione; senza gerarchie, senza ricavarne sensi di superiorità/inferiorità; impegnandosi a viverle, invece, come spazi in cui può sempre operare – anzi in cui certamente opera – la potenza trasformatrice di Dio.

3) Il terzo insegnamento è che il comandamento di Dio va sempre vissuto in relazione al contesto: non possiamo mai sottrarci, fratelli e sorelle, alla fatica di valutare ciò che è giusto, ciò che è bene, in relazione alle situazioni concrete e reali, ai tempi storici che ci troviamo a vivere, che non sono quelli di Paolo, non sono neppure quelli dei nostri nonni.

E di farlo in spirito di libertà responsabile, che cioè si fa carico dell’altro/ dell’altra; e di amore.

Voglia essere questo lo Spirito che guida i nostri passi, il nostro cammino di crescita nell’amore, di “santificazione” (per usare il linguaggio a noi caro)

Sia questo lo Spirito che guida i nostri passi, dentro e fuori la comunità, nel tempo breve o lungo che dovrà trascorrere prima che la figura di questo mondo passi per sempre.

Amen

dica. Alessandra Trotta

Di fronte al Risorto

Atti 17,32-34
Negli ultimi anni sono uscite diverse indagini sociologiche sulla fede cristiana nella popolazione italiana, oppure tra i giovani. Com’è noto, da tutte queste inchieste emerge che il numero delle cristiane e dei cristiani è in diminuzione e ben presto anche il nostro paese, come già accade in molti altri stati europei, sarà a maggioranza atea o indifferente. Se, però, a questa prospettiva ci siamo volenti o nolenti abituati, perché appunto non costituisce una novità, vi è un dato statistico che, almeno a prima vista, può stupire: tra le persone che si dicono cristiane, una buona percentuale dichiara di non credere che i morti risorgeranno. Si considerano, cioè, credenti in Dio, ma non fanno propria la fede nella risurrezione. Non è un po’ strano, visto che l’attesa della risurrezione dei morti conclude il Credo comune a tutte le chiese cristiane?
Il libro degli Atti ci presenta Paolo impegnato a predicare ai cittadini di Atene, che sono dipinti un po’ come molti nostri contemporanei. Non sono necessariamente nemici della religione, ma sono politeisti: c’è un Dio per ogni cosa, per ogni bisogno religioso. La religione, praticata o mno, caratterizza la città di Atene, ci sono statue e altari un po’ dappertutto. Paolo, in realtà, non è molto edificato da questa situazione: è un ebreo e non sopporta le statue e gli altari degli idoli. Anziché, però, lanciarsi in una polemica contro la religiosità degli ateniesi, fa un tentativo audace. Menziona uno dei molti altari che aveva visto in giro per la città, dedicato: al dio sconosciuto; vedete, dice, alla fine per voi Dio è uno sconosciuto. Ebbene, io ve lo presento, è il Dio di Israele, il Dio di Gesù (che non è mai nominato esplicitamente, ma solo in modo indiretto), il Creatore del cielo e della terra, l’unico, vero Dio. Persino i vostri poeti (cioè la cultura greca: avrebbe potuto aggiungere i filosofi) in qualche modo l’anno intuito, come brancolando nel buio. Paolo vuole essere incoraggiante, anche se forse intende solo rendersi simpatico: siete sulla buona strada per arrivare alla verità, ma l’ultimo passo non lo potete fare voi, lo fa Dio stesso, che vi viene incontro.
Proprio per parlare di quest’ultino passo, tuttavia, Paolo allude a Gesù, come colui che Dio ha risuscitato dai morti. E qui succede il patatrac: la parola risurrezione sembra assurda, superstiziosa. I Greci avevano le loro idee sull’aldilà; il nostro tempo ha le proprie, una delle quali è che non esiste alcun aldilà. In ogni caso, parlare di risurrezione appare balordo: a volte persoino ai credenti, come abbiamo visto a proposito delle indagini sociologiche.
Qual è la radice di questo scandalo? E’ abbastanza semplice. Fin quando si discute se da qualche parte c’è un Dio, se esiste un essere supremo, in fondo si parla pur sempre in generale, in termini che oggi potremmo definire da salotto. E’ il tipo di discorso che piace agli ateniesi, i quali amano, secondo Luca, confrontarsi su questi temi. Se però si parla del Dio che risuscita i morti, la mia immaginazione entra i crisi. Che cos’è la risurrezione dei morti? Come me la devo immaginare? E se non riesco a immaginarmela, vuol dire che si tratta di frottole. Paolo invece vuol dire: il Dio che risuscita i morti è lo stesso che è presente in questo mondo, nella natura, nella storia. Non è il Dio delle statue o degli altari, ma quello che io, Paolo, in questo momento vi annunzio. Gli ateniesi non prendono sul serio il messaggio della risurrezione, perché in realtà non hanno preso sul serio neanche il resto del discorso di Paolo, che non è filosofia (anche se può parlare il linguaggio della filosofia), bensì, come egli stesso dice, annuncio.
La fede cristiana è nata, e anche oggi nasce, quando donne e uomini sono confrontati con il messaggio pasquale: egli, Gesù, non è nel sepolcro, bensì è risorto. Pasqua, cioè, è la chiave per comprendere ogni parola e ogni gesto di Gesù. Poiché Dio ha risuscitato dai morti il predicatore di Nazareth, il suo messaggio, i suoi gesti, la sua stessa persona assumono un significato nuovo e decisivo. Mettere tra parentesi Pasqua, significa mettere tra parentesi il vero significato di Gesù, significa ridurlo a un saggio tra i tantoi della storia dell’umanità.
Che fare allora? Devo sedermi con la testa nelle mani e cercare di convincermi che davvero Gesù è risorto, anche se non ci credo? Oppure devo far finta di crederci, anche se non ne sono convinto? No, le bugie non portano da nessuna parte e quelle a se stessi sono ancora più pericolose di quelle raccontate agli altri. In fondo, anche le donne che hanno trovato il sepolcro vuoto, anche la Maddalena che, secondo alcuni racconti, è stata la prima incontrare il Risorto, anche gli altri discepoli hanno dunitato. Forse le fede nella risurrezione di Gesù, che secondo la Bibbia è l’anticipazione anche della nostra risurrezione, non può essere accolta nel nostro cuore una volta per tutte. Forse la tentazione dell’incredulità si presenta quando meno ce l’aspettiamo. E mi piace pensare che sia per questa ragione che Gesù risorto ripeta così spesso: non abbiate paura! Non abbiate paura, nemmeno della vostra incredulità.
Quello che realmente possiamo fare è uscire dall’atteggiamento di superficiale curiosità che caratterizza gli Ateniesi: sentiamo un po’ che cosa ha da dire costui, facciamo l’ennesimo talk show, l’ennesimo dibattito. Paolo pone di fronte l’azione di Dio: nel mondo e in Gesù Cristo. Quello che possiamo fare è porci di fronte a questo messaggio non come spettatori curiosi, ma come coloro ai quali Dio ha pensato ispirando Luca a scrivere questo racconto. A voi è annunciata oggi la verità di Dio in Cristo risorto. Né l’apostolo Paolo né, tantomeno, io, possiamo convincervi. Accogliete questa parole come una sfida e sostate di fronte ad essa. Il resto, lo farà Dio stesso.
Amen
prof. Fulvio Ferrario

Pastori e greggi, greggi e pastori

“Voi, pecore mie, pecore del mio pascolo, siete uomini. Io sono il vostro Dio, dice il SIGNORE”. La nostra traduzione è più patriarcale del testo che traduce. Potremmo renderlo così: “Voi siete il mio gregge, voi siete il gregge umano del mio pascolo –  e io sono il vostro Dio, oracolo del Signore Dio.” E’ una forte rilettura della formula “Io sono il vostro Dio – voi siete il mio popolo” che tante volte esprime il vincolo tra Dio e quelli che ha liberato dalla schiavitù. Per Dio, essere Dio significa essere pastore – il popolo è un gregge che si fida del suo Pastore.

Prima di questa solenne conclusione, di questo evangelo per le pecore disperse di Israele e per noi, il profeta dice molte altre cose da parte di Dio.

C’è innanzitutto una dura invettiva contro i cattivi pastori, quelli che il gregge non solo non l’hanno curato, ma lo hanno oppresso  e hanno pensato solo a se stessi: interesse anziché dedizione, sfruttamento anziché servizio. E’ innanzitutto una critica politica: sotto di essa cadono gli ultimi re di Giuda e di Gerusalemme, la loro corte e i loro sostenitori. Sono state le loro scelte sbagliate a provocare la rovina del popolo, come succederebbe se il pastore non si curasse del gregge o peggio lo opprimesse.

L’applicazione del discorso ai capi preme sulla metafora. Se nella pastorizia normale non c’è nulla di male a tosare le pecore per averne  la lana, nel ricavarne latte e da qui latticini, e anche carne, ad un certo punto, le parole del profeta sono già fuor di metafora e mettono al centro dell’attenzione un popolo trascurato, considerato solo nell’interesse di chi dovrebbe esserne pastore, strumentalizzato, angariato e alla fine abbandonato.

Varie volte nella Bibbia – e anche nel mondo intorno a Israele – il pastore è una metafora per il (buon) re.  Davide (2 Sam 5,2) a questo è stato chiamato. Anche il re persiano Ciro è stato unto da Dio (Is 45,1) per essere “il mio pastore” (Is 44,28), cioè un buon sovrano, a quel fine messo sul trono.  Quando i re non sono buoni pastori, il popolo è ridotto a vivere “come pecore senza pastore” (Num 27,17; 1 Re 22,17//2 Cr 18,16).

Anche la dedizione e la fedeltà di Dio sono descritte con l’immagine del pastore, che ha cura del suo popolo: il Dio che “siede sopra i cherubini” è il Pastore che guida Israele come un gregge (Sal 80,1). “Il Signore è il mio pastore, nulla mi mancherà …” (Sal 23) dice anche il singolo …

Non dobbiamo avere del pastore un’immagine sdolcinata, agreste,  da scenetta di campagna con agnellino e pastorella, da pubblicità del “Mulino banco”, Ma nemmeno quella contemporanea: autocarri per spostare il gregge, innocue palizzate elettrificate che tengono unito il gregge senza nuocergli … ai tempi di Ezechiele, per il pastore il  suo gregge era tutta la sua vita, il suo pensiero costante, la sua cura e preoccupazione quotidiana. Per esso doveva non solo faticare, ma anche essere preparato, e sempre pronto … ma anche esporsi, rischiare, a volte la vita …

Sembra esserci una frase stridente,  nel programma di Dio che si presenta a soccorrere le sue pecore: “distruggerò la grassa e la forte:  …” In varie versioni si legge infatti “custodirò la grassa e la forte”. “Distruggerò” potrebbe essere dovuto ad una svista dei copisti, che hanno confuso due lettere molto simili … Ma potrebbe anche essere l’anticipazione di un discorso che viene più avanti, nella parte di testo che è stata saltata. Qui compare – forzando la metafora delle pecore e del gregge – il conflitto all’interno del gregge: non ci sono solo cattivi pastori, ma anche pecore prepotenti che “spingono con il fianco e con la spalla e cozzano con le corna tutte le pecore deboli finché non le hanno disperse e cacciate fuori …” (v. 21). Dio deve non solo condannare i cattivi pastori, ma anche “giudicare tra pecora e pecora” … (v. 22)

I guai del gregge non vengono solo da sopra o da fuori, ma anche da dentro … l’antica metafora del potere regale, del governo monarchico sembra acquistare ancora maggior forza per noi, che nei nostri sistemi occidentali non siamo – o non dovremmo essere – pecore incerte e sottomesse che aspettano guida, ma uomini e donne responsabili che si scelgono i loro pastori … I pastori oggi assomigliano molto di più alle pecore che devono guidare di quanto non avvenisse nella metafora di Ezechiele. Riascoltare le sue parole non ci deve spingere nella canea dell’antipolitica, ma ci deve portare a vedere nella crisi – la crisi delle nostre democrazie rappresentative parlamentari – un momento di giudizio, sui pastori e sulle pecore … Non al lamento o all’invettiva contro altri, “gli altri”, “loro …”, “quelli …”, “i politici …”, ma alla faticosa ricerca della “buona politica”, che è fatta di pecore non prepotenti e di pastori dediti.

La cosa vale anche per le chiese e i loro pastori, a cominciare da chi vi parla … Anche qui la crisi non deve spingere al rimpianto, allo scoramento, alla polemica. In una sola cosa la chiesa differisce dal mondo in cui vive e i cui umori investono anche i suoi membri: essa sa, tanto più nei momenti di crisi, di sbandamento, di fallimento e sì, anche di colpa,  che il suo cammino è guidato dal Pastore con la maiuscola, che può contare sulla dedizione di Dio, che cerca chi è perduto, cura chi è ferito, risolleva chi è caduto, sostiene chi è debole, come corregge chi sbaglia e condanna “chi pasce se stesso” …

Lo sa … dovrebbe saperlo … ma lo dimentica. Le viene però ricordato, da un parola che viene da lontano. Lo fa oggi il discorso sui cattivi pastori e sul buon Pastore che il lezionario prevede per questa seconda domenica dopo Pasqua chiamata da secoli “misericordias Domini”, “le misericordie di Dio”,  “Per sempre voglio cantare le azioni misericordiose di Dio”,  “misericordias Domini in aeternum cantabo” (Sal 89,1 nella nostra versione). Questa parola che viene da lontano – ma anche da alto! – è ciò di cui abbiamo bisogno, pecore smarrite, pecore litigiose, con cattivi pastori, senza pastore, pecore ferite o arroganti. Nella crisi, questa parola ci fa apparire come siamo e smaschera tutte le nostre scuse, e quando ci ha fatto aprire gli occhi ci annuncia la dedizione di Dio per il suo gregge umano, che gli non lascia in preda ad altri e non abbandona a se stesso.

Amen

prof. Daniele Garrone

Il Risorto incontra i suoi discepoli

Giovanni 21,1-14

Domenica dopo domenica eccoci qui riuniti a lodare Dio, a confessare il nostro peccato, soprattutto eccoci ad ascoltare la Parola del Signore…
Lo facciamo anche oggi che la Pasqua è appena passata e che siamo sommersi dalle preoccupazioni per una pandemia ancora non sconfitta e per una profonda crisi economica e sociale che scuote il nostro paese e tante altre nazioni.

In questo contesto a volte viene da chiedersi se e quale può essere il nostro ruolo come piccola chiesa protestante?
E in tal senso quale attinenza può avere questo racconto di Resurrezione con la nostra realtà quotidiana di credenti e di cittadini?

Nel passato molti padri della chiesa greci e latini, molti esegeti e commentatori, si sono arrovellati sulle figure di Pietro e del discepolo che Gesù amava e su chi avesse il primato tra di loro all’interno della chiesa primitiva, si sono interrogati sulla simbologia dei numeri qui citati come quel centocinquantatrè dei pesci pescati, o ancora se questo capitolo sia stato o no aggiunto all’originale giovanneo da un lavoro redazionale successivo…

Ma oggi non ci interrogheremo su tali questioni, seppur importanti.
Oggi vorrei focalizzare la vostra attenzione sul perché il Signore appare ai discepoli da Risorto per la terza volta…

L’azione si svolge sul lago di Tiberiade dove già i discepoli avevano visto Gesù in azione tante volte da vivo.
Sette dei dodici discepoli si trovano insieme, ma sembrano essere svuotati, privi di idee…Allora Pietro prende l’iniziativa e decide di andare a pescare. Gli altri lo seguono e così cominciano una pesca notturna che però si rivela infruttuosa: non prendono nulla.

Al mattino del nuovo giorno ecco che si presenta Gesù sulla riva del lago e inizia con loro un dialogo…
Non è singolare fratelli e sorelle, Gesù da risorto incontra i suoi discepoli mentre stanno pescando che è proprio quel che secondo i vangeli di Matteo e Marco facevano la prima volta che li aveva incontrati!!

In effetti, questo racconto sembra presentare i discepoli che compiono il cammino opposto a quello che Gesù aveva proposto loro all’inizio: dal pescare pesci all’essere pescatori di esseri umani, dalle reti alla sequela.

Anche all’inizio del vangelo di Luca quando i discepoli incontrarono Gesù la prima volta troviamo una “pesca miracolosa” ma in un senso completamente diverso: quella apriva la storia del loro rapporto con il Gesù terreno, questa sembra marcarne la conclusione.

L’emblematica figura di Pietro riassume la frattura che è avvenuta tra i discepoli e il loro Maestro, i molti sentimenti che si scatenano in loro:
– il senso di colpa per non averlo capito prima della croce,
– il fatto di averlo tradito con le parole o con l’assenza,
– il senso di vuoto per non aver compreso la portata della sua missione, neppure dopo l’annuncio della risurrezione da parte di Maria Maddalena.

Eppure anche questo tornare indietro al vecchio lavoro risulta problematico. Come accade ad un immigrato che torna dopo tanti anni nella sua madre patria, così pure i discepoli che tornano all’antico contesto lavorativo non vi si trovano più a loro agio.

Se dovessimo tracciare un parallelo tra noi e i discepoli probabilmente non ci riconosceremmo in loro quando seguivano Gesù nei momenti “alti” del suo ministero, ma più facilmente in quelli ora descritti: un certo senso di frustrazione nelle cose che si fanno, la consapevolezza dei tradimenti fatti e/o subiti, i “non luoghi” in cui passiamo tante ore e tanti giorni della nostra esistenza…

Ma cosa provoca lo scoraggiamento dei discepoli?
Oltre all’annuncio della resurrezione da parte della Maddalena, Gesù è apparso già due volte da Risorto ai discepoli eppure sembra che nulla sia accaduto…
Quante volte anche noi abbiamo sentito il racconto e l’annuncio della resurrezione, ma poi siamo tornati a vivere al solito modo facendo sempre le solite cose nella convinzione di essere soli a dover tirare avanti la baracca?
E così la rete rimane vuota e lo sconforto si moltiplica: tutta la notte a pescare e nemmeno un pesce che abbocchi…
In questa situazione agitata e di svuotamento, di rassegnazione al giornaliero “buscarsi il pane per sopravvivere”, spicca all’alba del nuovo giorno ritta in piedi sulla riva del lago la figura di Gesù. Gesù mentre cucina e mangia il pesce con loro e ripete quelle azioni con cui distribuiva pane e pesci alla folla che lo ascoltava o mentre spezzava il pane e offriva il vino nell’Ultima Cena.

Tornando quindi alla domanda iniziale sul perché Gesù Risorto si fa presente ai discepoli per la terza volta? Semplicemente perché capisce che ne hanno bisogno visto non hanno ancora capito e creduto davvero.

Il Cristo risorto è presente non in modo astratto, ma reale tra i suoi proprio nei momenti di confine e di scoramento.
E così, in modo inspiegabile ma con gesti semplici, Egli appare al gruppo di uomini sfiduciati per dare loro coraggio. Ma non si limita a questo, non si limita a dare loro una pacca consolatoria sulla spalla.

Quando tutto sembra inutile, Gesù appare sulla scena e la storia riparte da dove sembrava essersi interrotta: la rete si riempie di pesci e il mangiare insieme con il Signore segna la rinascita della comunità, segna l’invio in missione.

In effetti, quel che è in gioco è la relazione tra Gesù, non più solo Maestro ma Signore, e i suoi discepoli e le sue discepole, coloro che compongono la chiesa.
E questa relazione si esprime nel riconoscimento.

Gesù riconosce i discepoli come suoi amici e li chiama affettuosamente ‘ragazzi’; i discepoli riconoscono il loro Maestro quale Signore ed è a partire da ciò, come per Maria Maddalena, che scaturisce il riconoscimento di sé stessi e della missione che li attende.

Nel ripetere le azioni della sua missione terrena crea una sorta di continuum spazio-temporale – come direbbero i film di fantascienza – tra la sua vita di prima con loro e questa nuova vita che li attende tutti.

La storia non è finita, ma prosegue nell’oggi quotidiano dei discepoli perché egli è vicino a loro in ogni momento e in ogni luogo, non solo nei recinti sacri di un tempio o di una chiesa dove noi vorremmo racchiudere il nostro rapporto con il Signore.

E nel far questo il Risorto crea anche la chiesa quale comunità di credenti redenti dalle loro paure e chiusure, dal loro peccato. Una comunità cui offre un senso nella missione: vivere uniti nella fede in lui e nella condivisione, e fare lo stesso con gli altri.

Ecco cosa offre oggi il Signore a noi tutti quando la Pasqua è appena trascorsa e noi siamo tornati alle nostre attività come se nulla fosse.
Tutto sembra uguale ma tutto è cambiato e noi possiamo operare non scoraggiati, ma fiduciosi nel mondo; senza gesti plateali e altisonanti, ma come fa Gesù con piccoli semplici gesti.

Uno sguardo empatico ed attento agli esclusi, una parola di conforto a chi è nella disperazione, lo spezzare il pane con il bisognoso, la fiduciosa speranza che Dio ci è accanto per amarci e donarci salvezza.

Ecco cosa può allora significare anche per noi uomini e donne moderni vivere ogni giorno come se fosse Pasqua.

In un mondo in cui la globalizzazione di merci e finanze e la massificazione dei modelli culturali fanno da pendant alla frammentazione del tessuto sociale, a una sempre maggiore esclusione di tante popolazioni dal benessere economico e dalla giustizia sociale, in cui la funzione economica finisce con l’inghiottire la dimensione umana, noi non possiamo chiuderci nei nostri angusti confini fisici e mentali, semmai possiamo e dobbiamo proporci come uomini e donne capaci di atti di accoglienza e di liberazione gratuiti.

Annunciare che Gesù è risorto vuol dire che non dobbiamo cercarlo nei sepolcri del passato, dove ritenevano di trovarlo i discepoli e Maria Maddalena.
Egli ha abbandonato i cieli ed ha scelto le nostre case, le nostre città, come sua dimora. Per questo la speranza pasquale rimette in moto quanti sono delusi e rassegnati; passa attraverso i muri delle nostre divisioni ed inimicizie; diventa Parola che annuncia la pace, che vince la nostra incredulità.

Il Risorto cammina accanto ad ognuno di noi, ci sostiene nelle nostre fatiche, percorre le strade della nostra città, ci rialza quando siamo abbattuti per proseguire il cammino. Non siamo soli, il nostro quotidiano è abitato dal Signore… Nella strada che sembrava interrotta dal macigno della morte, egli ha aperto un sentiero nuovo sul quale ci precede.

Amen

Preghiera:

Dio nostro Padre, che per mezzo del sacrificio del tuo Figlio ci hai fatto rinascere a vita nuova, donaci di vivere con gioia i frutti della risurrezione, perché insieme, come comunità di redenti, possiamo ogni giorno essere annunciatrici ed annunciatori fedeli: Sì, il Signore è veramente risorto!

Così è! Amen!

Past. Mirella Manocchio

Osanna al Figlio di Davide

Zaccaria 9,9-10

Matteo 21,1-11

Care sorelle e cari fratelli nel Signore,

Il tempo della missione terrena di Gesù si conclude a Gerusalemme. I quattro evangelisti hanno tracciato e testimoniato la Sua entrata nella città con un carattere particolare. Molti pellegrini stavano arrivando per la festa di Pasqua, ma Gesù non era un normale pellegrino. Fino a quel momento era andato a piedi per le strade della Galilea, della Samaria, della Giudea, ma a Gerusalemme entrò solennemente, seduto sopra una cavalcatura.

Entrò come un re. Per fare questo, aveva due possibilità. I conquistatori entravano nelle città sottomesse seduti su un cavallo e completamente armati.

Gesù non prese neanche in considerazione questa possibilità e scelse invece la seconda: entrare in modo pacifico.

Nell’antichità, quando un re visitava il suo popolo, per dimostrare la sua intenzione di portare la pace, era consuetudine sedersi su un asino.

Di questo ha parlato il profeta Zaccaria: “Verrà un re che porterà a Gerusalemme una pace senza fine”. I pellegrini avevano dunque visto nell’ingresso di Gesù il compimento della profezia, l’arrivo della salvezza e della pace. Gesù, però, sapeva che il suo incontro con la città non sarebbe stato tutto trionfale; la sua missione terrena doveva concludersi con l’arresto e con la morte. Perché dunque accettare di entrare solennemente là dove dopo pochi giorni sarebbe stato disprezzato e ucciso? Ne valeva la pena?

Egli doveva arrivare nella città, ma per farlo avrebbe potuto scegliere un modo meno appariscente. Invece, vuole sottolineare il significato del suo ingresso; dare più valore alla profezia che al potere delle autorità umane. Sa che le autorità religiose e il potere romano non potranno impedirgli di far nascere, attraverso il dono della sua vita, una nuova umanità. Gesù ha scelto di donare la sua vita per una nuova umanità. Egli ha donato se stesso per creare una nuova citta. Egli ha donato la sua vita agli uomini e alle donne perché potessero essere felici. La felicità dell’essere umano sta nella sua scelta di stare dalla parte in cui la giustizia di Dio regna. Noi siamo qui per accogliere il nostro re.

Ogni domenica riceviamo in dono il pane cioè le parole che dona vita, un pezzo alla volta perché ne comprendiamo e ne portiamo con noi nell’arco della settimana. Purtroppo, capita molto spesso che non siamo come vorremmo essere, persone mature capaci di vincere le tentazioni che ci avvolgono e ci incatenano in questo mondo, ma per questo siamo qui, per ricevere le parole di grazia del Signore per una nuova umanità che aveva inaugurato al suo arrivo e per farne parte nella sua edificazione.

Da che parte vogliamo stare allora? Cominciamo a deporre le nostre armi e le nostre spade che fanno male e che creano divisioni e conflitti. Gesù ha donato la  pace come egli disse: “Vi lascio pace; vi do la mia pace, non vi do come il mondo dà cioè non ve la do come il mondo la dà”cfr Gv.14,27.

Gesù, il Re che gli evangelisti avevano parlato e il Messia che i profeti avevano annunciato,  è venuto per invitarci a scegliere di stare dalla parte dove c’è la vita.

Questo egli sa, a questo guarda, e lo afferma accettando il saluto dei pellegrini: «Osanna al Figlio di Davide! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Osanna nei luoghi altissimi!».

Oggi, come possiamo accogliere Gesù?

Il primo modo è ricordare che Egli è il benedetto, non perché riceve il bene, ma perché Egli lo dona. Cerchiamo di considerare che, per accogliere Gesù, dobbiamo sempre venire al culto come una comunità di principianti (as always a comunity of beginners). Possiamo così in questa maniera ricevere sempre la capacità rinnovata di osannare il suo Santo nome.

Il secondo modo è tener presente che egli viene:

Anche se nel tempo che viviamo sembra crescere sempre di più il buio che la luce, è giusto lodarlo, è giusto celebrare il culto con gioia, perché Egli ci concede di camminare insieme sotto la sua guida. E quando egli ci guida, la volontà di Dio diventa realtà e il cammino si fa chiaro.

Un anno fa  i cristiani si erano radunati per il culto della Domenica delle Palme a casa o nei luoghi limitati a poche persone. Un anno fa, non ci eravamo riuniti in questo tempio. Non avevamo i rami di olivo vicino al tavolo per la santa cena come abbiamo avuto per anni. Oggi è una benedizione essere qui insieme.  Intravediamo già la vita in mezzo alla morte. Qualche giorno fa, io e il nostro fratello Italo Grassi ci siamo sentiti per uno stesso motivo.

Ho pensato che, se non fosse venuto in chiesa a portare i rami di ulivo, sarebbero bastate poche foto di lui con loro sulle nostre slides. Noi stiamo continuando ad andare avanti, sperando che questo tempo di pandemia finisca. Noi supereremo tutto con l’aiuto del nostro Signore che sta operando nei scienziati, nell’agire dei vaccini, per salvare questa umanità.

Care sorelle e cari fratelli nel Signore, chi di voi legge ogni giorno(o spesso) il nostro libretto “un giorno una parola” si accorge che per oggi avrei dovuto condividere una riflessione sulla lettera agli Ebrei. E’ stata una mia scelta di prendere in considerazione il vangelo di Matteo per evidenziare l’occasione di questa domenica delle Palme e il significato per noi come una comunità di fedeli credenti, e anche per recuperare il vero senso della fede cui riponiamo in Dio sin dall’ora della fondazione del mondo. Ci tengo a ribadire che la nostra fede ha un fondamento in ciò che ha compiuto per molti di noi. In Eb.12,2-3: Gesù, colui che crea la fede e la rende perfetta. Per la gioia che gli era posta dinanzi egli sopportò la croce, disprezzando l’infamia, e si è seduto alla destra del trono di Dio. 3 Considerate perciò colui che ha sopportato una simile ostilità contro la sua persona da parte dei peccatori, affinché non vi stanchiate perdendovi d’animo.”

La fede è avventura di una vita consapevole di essere guidata dal Signore come fu per Abramo. Leggiamo al cap. 11:1-2: “Or la fede è certezza di cose che si sperano, dimostrazione di realtà che non si vedono. 2 Infatti, per essa fu resa buona testimonianza agli antichi.”

Il professore Corsani commenta  questi passi affermando che la fede è più che certezza o fiducia. Nella fede, già si realizza appieno la realtà, la sostanza stessa delle promesse, per l’assoluta certezza che il credente ha nella realizzazione delle promesse divine: in Cristo infatti questa realizzazione è già iniziata. La fede non ha bisogno di dimostrazioni o di prove: è essa stessa già radicata com’è in Cristo, la prova sufficiente, sicura per il credente.

I profeti hanno parlato del Messia, del Salvatore di Dio. E mise in atto il suo piano affinché il suo popolo fosse consolato e avesse la pace nei cuori. Purtroppo il cuore dell’uomo è incredulo. Il suo cuore non ha potuto accogliere pienamente questo dono. Dio ha donato un figlio di nome ‘il profeta dell’Altissimo’ perché preparasse le sue vie. Dobbiamo continuare a sperare in lui perché ogni giorno rinnovi questo insegnamento.

Vogliamo ricordare insieme questo evento, testimoniato nel testo di Matteo proposto per questa domenica delle palme e per la prima domenica di avvento, in modo da poter rinnovare la nostra gioia di ricevere il Santo di Dio, nostro salvatore e redentore, e guaritore delle nostre malattie.

Possa la nostra esaltazione del Suo Nome essere più dalla parte di chi si rende conto della sua mancanza di fede. Noi cristiani dobbiamo essere più consapevoli della nostra piena incapacità di adempiere ogni bene in modo da poter testimoniare che Gesù Cristo è stato donato da Dio ed è attraverso di Lui che siamo redenti dai nostri debiti.Riconosciamo Gesù come Re, in un modo che Gerusalemme non ha saputo fare. Dobbiamo sentirci di continuo mortificati da quelle severe parole che ci ricordano la superficialità dei nostri osanna: “Non chiunque dice: Signore, Signore! entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del padre mio che è nei cieli”. Signore, donaci il coraggio di compiere la tua volontà di amare il nostro prossimo come noi stessi. Così adempiamo tutta la tua legge. Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Amen.

 

Questo è il Re dei Giudei

Luca 23, 33-56

 

L’evangelista ci presenta il supplizio pubblico di Gesù Cristo, consapevole della distanza storica tra il suo scritto e i fatti. Più o meno, la stessa distanza tra noi oggi e la strage di piazza Fontana. Come in una buona trasmissione di RaiStoria, nonostante la distanza di tempo, il brutto fosso della Storia, possiamo ascoltare le voci di due testimoni che erano presenti e che avevano preso parte ai fatti. Il primo è un criminale, uno dei ladroni che sono giustiziati dalla macchina repressiva romana. L’altro è il centurione, cioè il capo del plotone d’esecuzione. Il primo afferma la giustizia di Cristo e il suo regno che viene. Il secondo glorificava Dio e rendeva testimonianza alla giustizia di Gesù Cristo. Questi due, il criminale e il boia, sono i soli che rendono onore alla verità espressa dal cartello sopra la testa di Gesù. Cartello che si può comprendere soltanto spaziando con lo sguardo sull’uomo di dolore che è appeso lì sotto.

QUESTO È IL RE DEI GIUDEI, è l’unica volta in tutta la Bibbia che questo riconoscimento a Gesù è esposto, a caratteri di scatola, alla vista di tutti. Sotto questo cartello c’è la croce, c’è Gesù che muore.

La croce di Cristo ha in sé questa sovversione della rivelazione di Dio e della nostra esistenza, facendoci scontrare con un Dio la cui “sconfitta” vincerà contro la “vittoria” delle potenze del mondo. Dio vince il peccato non facendolo scontare a noi, come sarebbe stato giusto, ma facendolo scontare a suo figlio che è giusto, come testimonia il centurione, che è senza peccato, come testimonia il ladrone, e che va volontariamente a morire. Mentre le forze del male si scatenano contro Gesù e si sentono vittoriose, proprio la morte di Gesù non segna la loro vittoria, ma il loro annientamento. Come un parafulmine, la croce assorbe in sé tutta la carica distruttiva del peccato e ne annulla gli effetti, e mentre il fragore e il bagliore della saetta esplodono con incredibile intensità, proprio in quel momento i loro effetti sono annullati, le unghie del diavolo sono tagliate, il peccato non avrà più l’ultima parola. Le potenze hanno scaricato le loro armi su Cristo crocifisso e per tutti  coloro che sono uniti a Cristo, quelle armi non sono più mortali. Non ci sono i peccatori che pagano e il giusto che giudica, ma Cristo il giusto muore prendendo su di sé i peccati degli altri per donare la sua giustizia ai peccatori.

La croce è sovversione perché Gesù Cristo, il re dei Giudei, non manda gli altri a morire per lui, come fanno tutti i re di questo mondo, ma è lui che va a morire per gli altri. Per tre volte gli dicono: “Salva te stesso!”: prima i magistrati d’Israele, poi i soldati romani e infine uno dei ladroni crocifisso con lui. “Salva te stesso!” Gesù non è venuto al mondo per salvare se stesso, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Perciò Gesù non scende dalla croce, non va a prendersi direttamente la gloria che gli spetta, ma accetta di salvare il mondo prendendo su di sé le colpe del mondo e le condanne che ne derivano. Perciò la legge del re dei cieli contraddice le leggi di questo mondo; il mondo e le sue potenze malvagie se ne accorgono e condannano Gesù alla morte dei sovversivi: la croce, come fu molti anni prima per lo schiavo Spartaco che si era ribellato ai padroni romani andando a liberare gli altri schiavi. E non per niente Gesù viene crocifisso assieme a dei malfattori. Se la croce diventa un simbolo religioso, se diventa un gioiello da portare al collo o una decorazione per marcare confessionalmente un luogo pubblico, allora la croce perde il suo significato di sovversione della legge umana. Allora non si tratta più della croce di Cristo, ma solo di due pezzettini d’oro o di due pezzi di legno.

Infine, la croce è sovversione perché ci svela il Vangelo, la notizia del perdono di Dio. In tutta la Storia dell’umanità le esecuzioni pubbliche delle condanne a morte sono servite soprattutto a mostrare la potenza del sovrano o dello Stato che emetteva ed eseguiva la sentenza. La forza del diritto, troppo spesso unita al diritto della forza, stava dalla parte del giudice e non del condannato; il re con il suo potere era sempre dalla parte di chi eseguiva e mai dalla parte di chi subiva. Ma se i re della terra si mettono sempre dalla parte di chi condanna, il re del cielo si mette dalla parte del condannato. Dio sta dalla parte del Cristo crocifisso, Dio non mostra la sua potenza stando dalla parte del vincitore, ma da quella del vinto, dello sconfitto. Il Dio degli eserciti, il Dio che ha guidato il suo popolo fuori dall’Egitto, che ha fatto cadere le mura di Gerico, il Dio potente in battaglia si lascia sconfiggere nella croce di Cristo per vincere noi stessi contro noi stessi, per conquistare non la sua vittoria sul campo di battaglia, ma per far trionfare la sua misericordia per l’eternità. Dio sta dalla parte del crocifisso perché gli effetti della morte di Cristo, il pagamento del prezzo dei peccati e una giustizia perfetta e completa siano per noi. Dio non ha voluto vincere lasciando perdere noi, ma ha voluto stare dalla parte della sconfitta per vincerci ed avvincerci a lui.

Ancora oggi il mondo e anche la chiesa si confrontano con la scritta della croce: QUESTO È IL RE DEI GIUDEI. Quest’uomo torturato e crocifisso è il re dei Giudei. Questa è la chiara indicazione di dove è Dio oggi. Tutti quelli che si domandano dov’è Dio nella tragedia, nella pandemia (perché quando tutto va bene nessuno lo cerca), e tutti i sentenziatori sulla giustizia di Dio trovano la risposta alla loro domanda nella scritta della croce: QUESTO È IL RE DEI GIUDEI. Dov’è Dio? Da che parte è Dio? Dio è con Gesù crocifisso; Dio è dalla parte dei crocifissi di ieri e di oggi. Il mondo cerca ancora la manifestazione della potenza divina (salva te stesso!) invece Dio si fa trovare nell’uomo agonizzante sulla croce. Dov’è Dio nella pandemia? Abbiamo sentito molte risposte, anche di cristiani, su questa domanda. La scritta di Pilato ci dà la risposta. Nella pandemia il Dio di Gesù Cristo è dalla parte delle vittime, è stato ed è con chi ha lottato per la propria vita e ha perso, con chi si è prodigato per gli altri, con chi ha pianto, con chi è diventato povero, con chi ha visto i propri figli avere problemi, con chi oggi dice a Dio “Salva, guarisci, aiuta!” sapendo che da questo dipende la vita sua e dei suoi cari. La scritta della croce: QUESTO È IL RE DEI GIUDEI appesa sopra la testa dell’uomo torturato ci dà la posizione di Dio in questo mondo: con gli ultimi, con i deboli, con i prossimi. La scritta di Pilato è la pretesa della maestà di Dio di avere posto nella storia dell’umanità, ma di avere posto nell’umanità debole e sofferente, nell’umanità incarnata, amata e redenta dal Signore Gesù Cristo. La scritta della croce risponde a tantissime domande della nostra fede e lei, questa scritta, si permette di porgerci una domanda sola: “credi tu questo?”

Nel giorno della morte di Gesù a questa domanda rispondono in due: il ladrone e il centurione. Il crocifisso con lui e il capo dei torturatori. Il criminale e il boia. Questi due e solo questi due hanno risposto alla domanda della croce e della scritta di Pilato. C’è bisogno che qualcuno continui a rispondere; c’è bisogno che voi continuiate a rispondere fino al momento in cui la potenza di Dio, nascosta nell’umiltà, sarà esaltata nella gloria. In quel momento tutti scopriranno che nell’uomo disprezzato e crocifisso, Dio ha aperto le porte del suo Regno.

 

past. Emanuele Fiume

Giobbe solo contro tutti, anche Dio. Tutti contro Giobbe, anche Dio.

In una invettiva contro i suoi amici, che lo accusano e gli fanno la lezione, anziché consolarlo, Giobbe passa in rassegna gli aspetti del suo isolamento. Il primo accusato è Dio (vv. 7-13): non ascolta le sue preghiere; mette ostacoli sul suo cammino; lo ha spogliato del suo onore; gli ha tolto ogni speranza; lo tratta come un nemico, anzi lo assale come un esercito.

A Giobbe viene deliberatamente negato il conforto della famiglia e della sua rete di relazioni (vv. 13-18): fratelli, famigliari, congiunti, ospiti della sua ricca casa lo evitano, neppure i domestici gli obbediscono più; appare repellente anche a sua moglie, persino i ragazzini lo disprezzano.

La cerchia delle sue relazioni lo aborre, gli voltano le spalle persino gli amici più intimi (v. 19).

Questo l’isolamento di Giobbe. Non una misura cautelativa o terapeutica, ma una reazione di giudizio e di condanna. L’ostilità di chi vuole avere ragione, di chi pensa di tenere le parti di Dio contro di lui che lo interpella, anzi lo contesta.  Intorno a Giobbe c’è solo chi lo respinge e sentenzia.

Giobbe vede la causa ultima di tutto questo in un ingiusto accanimento di Dio, con il quale vuole arrivare a discutere.  Il suo isolamento è emarginazione. È “appeso a un filo” (questo forse il senso dell’espressione “non m’è rimasta che la pelle dei denti”, v. 20).

È giunto al punto che implora gli amici di avere almeno pietà: “Pietà, pietà di me, voi, amici miei, poiché la mano di Dio mi ha colpito.  Perché perseguitarmi come fa Dio? Perché non siete mai sazi della mia carne?” (vv. 21-22)

Evidentemente Giobbe dubita che il suo accorato appello venga accolto.

Pensa perciò che la giustizia che egli rivendica possa, eventualmente, essere solo postuma. La sua causa può essere affidata soltanto a una memoria scritta, forse non su papiro o pergamena, ma incisa su un rotolo metallico, perché duri più a lungo. O scolpita nella pietra col bulino, versando piombo fuso nelle incisioni, per rallentarne l’erosione.

Anche la nostra storia è piena di riabilitazioni postume; non è una grande consolazione.

Dio contro Dio, davanti a Dio.

Dio contro Dio, per l’uomo.

A questo punto Giobbe parla dal suo completo isolamento, e dice qualcosa ex abundantia cordis. “Io so che il mio Redentore vive e che alla fine si alzerà sulla polvere.”  (Nuova Riveduta) Quanto a me, per parte mia, – è detto con enfasi, “io, proprio io so” –  io so che il mio redentore – colui che può difendere la mia causa, prendere le mie parti – vive, è vivo, qui dove io sono appeso a un filo, a un passo dalla morte, senza nessuno dalla mia parte, neanche Dio …

Io non avrei messo, a Redentore, la maiuscola nella traduzione della Bibbia, ma quasi certamente qui Giobbe parla di Dio e non di una figura umana o celeste (cfr. invece 9,33 dove lamentava che non ci fosse un “mediatore” nella causa tra lui e Dio o 16,19 dove si diceva convinto di avere in cielo un testimone che prendesse in alto le sue difese), ma ha in mente proprio Dio.

Il redentore si ergerà non tanto “alla fine”, ma come “l’ultimo”, come “colui che è ultimo” come anche è “primo”, cioè colui che sovrasta la creazione e la storia: lo dice Isaia 44,6 “Così dice Yhwh, re d’Israele e suo redentore: «Io sono il primo e io sono l’ultimo e oltre a me non c’è Dio.»” Lui sorgerà, lui si ergerà, estremo redentore.

Il v. 26 è complicato. La nostra traduzione: “E quando, dopo la mia pelle, sarà distrutto questo corpo, senza la mia carne, vedrò Dio” è troppo libera e presuppone che Giobbe dia un annuncio diretto della resurrezione dei morti ad opera del Messia (cfr. la nota di Diodati 1641). Letteralmente sarebbe così: “Anche dopo che avranno lacerato la mia pelle, dalla mia carne io contemplerò Dio”.  Giobbe non sa come ciò avverrà – nella sua vita, per la sua persona oltre la sua vita – ma sa che sarà.

Lo ribadisce al v. 27:  “Io lo vedrò [“a me favorevole” è un’aggiunta dei revisori della Nuova Riveduta]; lo contempleranno i miei occhi, non quelli d’un altro;  Le reni [= la vitalità il desiderio] si consumao in me [scil. per l’impazienza].” Nell’abisso, Giobbe è preso dall’ansia dell’incontro.

La situazione di Giobbe, al fondo dell’abisso – e le sue parole –  so che è vivo chi può essere per me anche se lo vedo contro di me, so che finirò eppure so che ci aspetta ancora un incontro personale, tu ed io, non qualcun altro – creano un paradossale campo di tensione.

Ed è in quel campo di tensione che, alla fine del libro, Giobbe potrà dire: “Avevo sentito dire di te, ma ora i miei occhi ti hanno visto.” (42,6)

Forse la cosa più bella che potrebbe esser data anche a noi in questi tempi bui è quella è di saper stare accanto a Giobbe, senza proclami, senza spiegazioni, ma presi nello stesso campo di tensione e sorretti dalla stessa attesa.

prof- Daniele Garrone

Là dove è Gesù

Giovanni 12,20-26
Chi sono questi “Greci”, che chiedono a Filippo di vedere Gesù? Visto che sono diretti a Gerusalemme per la festa, si tratta di simpatizzanti o convertiti all’ebraismo, oppure, semplicemente, di ebrei di lingua greca. Hanno sentito parlare del grande personaggio, vorrebbero saperne di più; anzi, vorrebbero vederlo, magari ascoltare la sua predicazione potente o, meglio ancora, assistere a qualche miracolo.
A volte capita anche a noi che ci chiedano di Gesù. Non di vederlo, naturalmente, ma di saperne qualcosa. Tu che vai in chiesa, e in una chiesa un po’ strana; o nel mio caso, tu che sei pastore, che mi dici di Gesù? In fondo, è una curiosità che fa piacere. Una volta si diceva: è un’occasione di testimonianza, che permette di dire qualcosa e chissà, magari di avvicinare qualcuna o qualcuno al messaggio di Cristo e alla chiesa evangelica. Filippo parla con Andrea ed entrambi vanno da Gesù. C’è interesse, gli dicono, nei nostri confronti, abbiamo una certa “visibilità”. Nel versetto che precede immediatamente il nostro brano, i farisei si lamentano, dicendo che “tutto il mondo gli va dietro”. Quando Gesù, in qualche modo, “fa notizia”, i suoi discepoli, di ieri e di oggi, sono contenti. Hai visto mai, magari da questo interesse esce qualcosa di buono.
Il versetto successivo inizia così: “Gesù rispose loro”. In realtà, non c’è nessuna risposta. Gesù parla di tutt’altro. Parla anzitutto della sua morte. L’ora è venuta nella quale il Figlio dell’uomo dev’essere glorificato: ma nell’evangelo di Giovanni glorificato vuol dire: ucciso. Il tempo in cui si accorreva a vedere i miracoli, ma anche il tempo delle discussioni e delle polemiche, sta per finire. Non si tratta di cercare visibilità, come oggi si dice, per Gesù e per il suo messaggio. Il Signore è completamente concentrato sullla sua missione e sul suo futuro: il rapporto con Gesù non passa attraverso un “primo contatto” (“vediamo un po’ se è interessante”), ma ormai passa attraverso la croce. Chi vuole conoscere Gesù, dece fare i conti con la sua morte.
Nella prospettiva di Giovanni, la morte di Gesù non è una sconfitta: l’abbiamo già visto, si tratta della sua “glorificazione”; altrove si dice: del suo “innalzamento”. Tale morte è come quella del seme, che rimarrebbe solo, se continuasse ad essere seme, mentre morendo porta molto frutto. Ma resta morte, resta la porta stretta dalla quale la fede è chiamata a passare. Altro che vedere Gesù! Altro che coltivare la speranza in una popolarità del Signore, dell’evangelo o della chiesa! Colui che i Greci, ma anche gli ebrei, ma anche noi, vedranno, colui con il quale dovranno, dobbiamo, confrontarci, è l’uomo ucciso sul Calvario, il Crocifisso che dice di essere la rivelazione di Dio. A chi vuole vedere un uomo religiosamente interessante, viene offerto il messaggio della croce, il messaggio di un Dio diverso.
Attenzione però. Nessuno creda che al desiderio dei Greci di vedere si sostituisca qualche riflessione teologica un po’ complicata sull’identità di Dio. Ho voluto includere nel testo della predicazione i versetti 25 e 26, non previsti dal lezionario, perché sono essi a spiegare di che si tratta concretamente. Non di vedere Gesù, non di partecipare a un evento religioso interessante e nemmeno a una lezione di teologia. Si tratta di servire il Signore, cioè di essere là dove egli è. E dov’è il Signore? E’ là dove risuona la predicazione, dove lo si loda nel culto, dove si celebra la cena, dove la chiesa si riunisce, fisicamente o anche per via telematica. L’abitudine di molto protestantesimo, da secoli, di snobbare il culto è un’offesa a Gesù. Per essere altrove, rispetto a dove Cristo si rende presente, devi avere motivi talmente drammatici da essere anche, di fatto, del tutto eccezionali.
Inoltre, Cristo è là dove donne e uomini soffrono; è là dove c’è solitudine; è là dove non c’è nulla di bello da vedere, perché anche le persone diventano invisibili. Là è Cristo, e là sono il discepolo e la discepola. Quando “l’ora è venuta”, non c’è più spazio, accanto a Gesù, per quelli che “ci devono pensare”; per quelli che, poverini, sono tormentati dai dubbi, vorrei, ma non sono sicuro, vorrei, ma devo vedere (appunto!). La croce non è un club di discussione, nemmeno di discussione biblica o teologica. La croce è il luogo dove si decide chi sta con Gesù e chi ha altro da fare. Magari discutere di religione, o dei suoi problemi esistenziali, o di quello che vorrebbe per sé e per la propria vita.
Già, la propria vita. Chi la ama la perde, dice Gesù, e chi la odia la trova, addirittura in dimensione eterna: che non vuol dire in paradiso, ma vuol dire: la trova pienamente, la trova in tutta la sua ricchezza, la trova in abbondanza. L’”odio” del quale qui si parla consiste semplicemente (semplicemente?!) nel rinunciare a mettere al centro se stessi, i propri problemi e le propie domande. Nessuna domanda è veramente importante tranne una: dovè Gesù, dove si rende presente questo Figlio di Dio che va verso la croce? Ancora una volta, non la domanda teorica, che si rompe la testa alla ricerca di chissà quale segno della presenza del Dio nascosto, bensì la domanda semplicissima e del tutto pratica: dove la parola di Dio è predicata? Dove sono le persone dimenticate e invisibili, presso le quali Cristo si rende presente? Voglio sapere dove sono, perché quello è il mio posto, il posto dove finoisce una vita tutta centrata su se stessa e sulle proprie paturnie, e comincia la vita eterna, quella con Gesù.
Amen
prof. Fulvio Ferrario

La vigna

Isaia 5,1-7

Immaginiamo la scena. Un giorno di mercato, la piazza affollata. Uno comincia a parlare. Annuncia che canterà … La gente si ferma intorno a lui … anticipa il tema della canzone: il canto di un suo amico per la sua vigna. Ma, come canta la ragazza del Cantico dei cantici, la vigna può rappresentare il corpo di una donna. O come dice il salmo 128,3: “Tua moglie sarà come vigna fruttifera, nell’ intimità della tua casa; i tuoi figli come piante d’ olivo intorno alla tua tavola” dice il Salmo 128 (3).

La gente si avvicina, le canzoni sugli amori – tanto più se infelici o pruriginosi –  attirano sempre …

La prima frase del canto sembra assecondare le attese dell’uditorio: “Il mio amico aveva una vigna …” La parola ebraica per l’amico richiamo anche l’amore, le carezze … La ragazza del Cantico (8) risponde impertinente ai fratelli che la volevano controllare:

Salomone aveva una vigna  … egli affidò la vigna a dei guardiani …  La mia vigna, che è mia, la guardo da me …!

Forse anche oggi sentiremo una storia succosa … Che cosa sarà successo tra l’amico del cantore e la sua vigna? …

Molto bella, e curata, la vigna dell’amico. Ben esposta al sole, terra ubertosa e accuratamente privata di pietre. Recintata, come si usava, per tener lontani animali e malintenzionati. Con il suo pigiatoio, per una festosa e ricca vendemmia. Una torre al centro … vitigni di qualità, il meglio in ogni cosa …

Tanta cura, tante attese … mal risposte, però. Alla fine, l’amico non ne ha ricavato succosi grappoli, ma un marciume. Non un’altra uva, come suggerisce la nostra traduzione, ma quella, solo inutilizzabile e maleodorante.

Gli uditori, che forse si aspettavano una storia pruriginosa, hanno capito: si tratta di un’impresa agricola finita male.

Ora gli uditori vengono apostrofati, quasi fossero la corte di un tribunale: “Giudicate tra me e la mia vigna …” Tutto molto strano: allora la vigna non è dell’amico del cantore, è la sua … La richiesta non è quella di un consiglio: “che cosa posso aver sbagliato? Che cosa può essere successo?” Non si rivolge ad altri viticoltori, ma agli abitanti di Giuda e Gerusalemme. Vuole un  giudizio che richiede una sentenza: io ho fatto di tutto e di più, eppure così è andata … così sono stato trattato, quasi la vigna fosse un soggetto responsabile. Ha già deciso: distruzione della vigna! Via il muro di cinta, il terreno sia pure calpestato e desertificato. Nessuna cura,  né per il terreno (zappare) né per le piante (potare). Come non essere d’accordo?

Le stranezze non sono ancora finite … l’ultima frase dell’arringa lascia sgomenti: “darò ordine alle nuvole che non vi lascino cadere pioggia.” Né l’amico né il cantore possono parlare così, a meno che siano usciti di senno … un’iperbole … il divagare immaginifico di una canzone, che può ignorare ogni limite in cerca di immagini struggenti? Il delirio di qualcuno a cui la delusione ha fatto troppo male? Oppure è Dio che parla? In effetti, a pensarci bene, la vigna non è solo il bene prezioso dell’agricoltore, non è solo un’immagine della donna … nella Bibbia, anche in Isaia, è una metafora per il popolo di Dio.

Così, ad esempio, al capitolo 27 di Isaia, Dio parla così del suo popolo: “La vigna dal vino vermiglio …  Io, il Signore, la custodisco, l’ annaffio ad ogni istante, la custodisco notte e giorno, perché nessuno la danneggi … Il Salmo 80 parla di Israele come di un vite che Dio ha portato dall’Egitto per trapiantarla; ma questa vigna è ora devastata dal cinghiale del bosco e solo Dio può liberarla …

Gli  uditori  cominciano a sospettare che quella che sembrava una canzone potrebbe essere un sermone, e un duro sermone … all’inizio avranno pensato di ascoltare qualcosa di divertente … poi si sono sentiti apostrofati come giudici in tribunale o come “opinionisti” … ora tira un’altra aria … il cantore toglie ogni dubbio: la vigna sono loro, il popolo che Dio ha curato con tanta dedizione e affetto, come sanno Isaia 27 e il Salmo 80 … tanta cura, tante attese … e marciume per risultato.

Qui c’è un’altra sorpresa. Seguendo il filo della metafora ci si aspetterebbe che il criterio del ripudio della vigna sia che non c’è stato buon vino per il padrone. Voleva del barolo, non dell’etanolo … Fuor di metafora, a causare il giudizio di Dio non è ciò che il suo popolo non ha fatto per lui, ma ciò che ha fatto al prossimo. Non carenze nel culto e nella ritualità, ma assenza di diritto e giustizia all’interno del popolo. Non il  gusto del buon vino viene dalla vigna, ma le grida di aiuto delle vittime di soprusi e ingiustizia. Lo aveva già detto il cap. 3,14: “Il Signore entra in giudizio con gli anziani, del suo popolo e con i suoi principi: «Siete voi che avete divorato la vigna; le spoglie del povero si trovano nelle vostre case».” Dio giudica la sua vigna non perché non gli abbia fornito le attese prestazioni nei suoi confronti, ma perché ha disatteso la giustizia nei confronti degli altri. Come se la cosa più importante per Dio fosse non ciò che facciamo per lui, ma ciò che facciamo tra di noi.

Per questo il nostro testo è stato scelto per la domenica di oggi, tempo della passione, intitolata da tempi antichi con la parola latina “reminiscere”, cioè “ricordati o Dio della tua misericordia” e dedicata al rapporto tra uomini e Dio. La vite portata dall’Egitto e piantata in un buon terreno e curata amorevolmente è chiamata a produrre buona uva per fare del buon vino, non per la mensa di Dio, ma per la giustizia e l’equità nel suo popolo. Chi è stato liberato non può vivere la sua libertà in modo tale che altri debbano gridare aiuto a causa delle sue azioni.

Tu che ascolti oggi il duro canto della vigna finita male, ma anche la promessa della cura e della misericordia che Dio ha della sua vigna,  guarda al prossimo intorno a te e ricordati che è per il debito di amore che hai nei suoi confronti che Dio ti chiama in causa. Amen

Prof. Daniele Garrone

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Tre anni di Breakfast Time

Giovanni 13, 1-17

Care sorelle, cari fratelli, care Francesca, Gladys ,Maria e Tatiana
Gesù prende un asciugamano se lo avvolge intorno alla vita, poi versa l’acqua in un catino ed inizia a lavare i piedi. E’ una immagine molto bella, molto forte.

Mi viene in mente l’immagine che ha girato sui social della giovane infermiera che aveva i segni sul volto per aver tenuto la mascherina tante ore di seguito. Per aver assistito tante persone ammalate di Covid, per aver assistito fino all’ultimo i pazienti magari con una videochiamata ai parenti affinché vedessero per l’ultima volta i loro cari. Mi fa ritornare in mente l’immagine di Salvo il ragazzo della guardia costiera che sorrideva con il bimbo africano in braccio appena tratto in salvo dalle acque del mar Mediterraneo. Due esempi di grande servizio e solidarietà per noi tutti.

La Pasqua è vicina, l’ultima cena si è conclusa ed il suo racconto è noto dalla descrizione che Matteo, Marco e Luca ne fanno, così come anche noi lo conosciamo e lo ricordiamo nelle nostre liturgie. Giovanni ci racconta qualcosa di più. Gesù si alza dalla tavola per lavare i piedi ai suoi discepoli. Il loro maestro vuole lavare i piedi a loro stessi. Il maestro, il re dei re, diventa l’umile (l’ultimo) servitore. Non è un gesto che ci è familiare, nella consuetudine dell’epoca erano le donne o gli schiavi che facevano la lavanda dei piedi nei confronti di chi entrava in casa, come segno di accoglienza e di riverenza. Immaginiamo l’invisibile servitore a cui difficilmente si presta attenzione mentre accoglie l’ospite all’ingresso e lo solleva dal peso del viaggio.

Quando viene il momento di Pietro di ricevere la lavanda, lui rimane interdetto, si rifiuta, potremmo dire con indignazione. Si starà chiedendo, perché il mio Signore si inchina a me?

Non capisce il motivo di questo gesto, di questo umile servizio reso proprio a lui dal suo stesso maestro. Ma Gesù gli dice:

“Se io non ti lavassi, non avresti nulla in comune con me”

Ossia non hai capito il mio messaggio, ovvero non hai parte nella salvezza che da   Dio viene per mezzo di me.

Gesù ancora dice ai suoi discepoli, parla a loro, ma parla pure a noi, che a lui rivolgiamo la nostra fede,

“Chi si è lavato, non ha bisogno di lavarsi se non i piedi ed è tutto pulito”

Cioè anche se siamo stati lavati completamente, con l’acqua, con la stessa acqua del nostro battesimo, avremo sempre e comunque la necessità che i nostri piedi siano lavati da Gesù. 

Ci manca qualcosa, c’è una parte del nostro essere discepoli che abbiamo bisogno che sia completata, la realtà è che abbiamo bisogno di ricevere il gesto di Gesù, abbiamo bisogno del suo servizio.

Se abbiamo accettato di ricevere il battesimo, di essere rinnovati in Cristo, dobbiamo ugualmente accettare che il Signore si faccia servo. Battesimo e servizio si intrecciano.

Care Francesca, Gladys, Maria e Tatiana, nel battesimo che avete ricevuto confessate la vostra fede in Cristo. Siete arrivate in questa chiesa da percorsi differenti, da quattro differenti storie di fede, ma tutte quante siete accumunate dal battesimo che oggi riconfermate ed in virtù del quale questa Chiesa vi accoglie. Il servizio nasce dalla fede che confessiamo, dal dono di Dio che abbiamo ricevuto, dal dono della grazia.

Infatti Gesù ci esorta a seguire l’esempio che da lui ci viene, a farci a nostra volta servitori.

“Se dunque io, il Signore e il Maestro, vi ho lavato i piedi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Vi ho dato infatti un esempio, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi”

Non c’è una fede senza servizio. Se tu credi veramente, se hai capito e ami Dio, il servizio è il modo in cui declini la tua fede. E nel servizio non ci sono più gerarchie,

“Uno schiavo non è più grande del suo signore, né un inviato più grande di chi lo ha mandato”.

Pur dovendo esistere gerarchie nei ruoli e nelle funzioni, non c’è una gerarchia di potere, non c’è un maggiore ed un minore nella fede. Gesù chiede di accettare di spezzare la gerarchia, chiede di sottometterci reciprocamente luno allaltro. Ci vuole umiltà nel lavare i piedi e nel farseli lavare.

Spezzare la gerarchia non vuol dire che non debbano esistere più organizzazione, compiti e responsabilità, ad esempio, nella nostra chiesa non significa che non ci siano più ministeri o ruoli definiti, ma semplicemente che questi siano vissuti come servizio verso gli altri e non come posizioni di privilegio.

Tutti siamo chiamati al servizio reciproco.

Il buon cristiano non fa questo solo perché è un dovere, al contrario il servizio reciproco, la solidarietà fraterna non può che essere una nostra intima necessità.

Gesù ci ha dato l’esempio, ci ha lavato con l’acqua del battesimo, ci ha legato a lui, si è reso nostro servitore, in lui abbiamo la salvezza. Quale gioia più grande possiamo avere? Ricevendo un servizio, non possiamo che renderlo, restituirlo con allegrezza e gratitudine. E’ una necessità, è la nostra urgenza. Come quando una bella notizia ci coinvolge e non possiamo trattenerci dal raccontarla a tutti, come possiamo restare inerti di fronte alla salvezza che da Cristo ci viene?

Seguiamo l’esempio di Gesù, facciamoci servitori gli uni degli altri.

Questo tempo ci offre molti modi per esprimere il nostro servizio.

Pensiamo ovviamente alla pandemia, che è entrata nel nostro quotidiano, ed alle difficoltà che ci sta mettendo davanti, alla crisi economica e sociale che ne stanno derivando. Alla povertà che sta aumentando, a tutte le situazioni di bisogno, sia fisico che psicologico. Ai medici e infermieri che si mettono al servizio dei loro pazienti, ma in realtà di noi tutti, più di quanto un contratto di lavoro possa esprimere.

Pensiamo all’aumento in Italia e nella vicina Europa dell’intolleranza verso i migranti e le minoranze, pensiamo a quello che possiamo fare per accogliere fratelli e sorelle in cerca di rifugio, che in fuga abbandonano le loro stesse case e lasciano indietro tutto quello che possiedono.

Pensiamo anche alle nostre comunità, al servizio che possiamo ricevere e dare gli uni agli altri.

Oggi ricorrono i 3 anni di attività del Breakfast Time, l’esperienza che porta la nostra comunità sulle strade della nostra città per offrire un aiuto, piccolo per le dimensioni delle nostre possibilità, grande per chi lo riceve.

Il breakfast time ci dà la possibilità di vivere concretamente la nostra fede. Ogni persona che offre il proprio servizio al Breakfast Time lo fa con il suo dono personale: chi ha tanta cura nel preparare la colazione con i panini assortiti per soddisfare le varie esigenze delle persone che andiamo ad incontrare, chi si cura di preparare il latte ed il caffè e di lavare accuratamente tutte le pentole, di preparare il vestiario da distribuire, chi si occupa dell’organizzazione dei turni, chi ci incoraggia con parole di entusiasmo e chi dà un contributo economico.

Nella comunità, nella Chiesa ognuno trova un luogo per esprimere il proprio servizio.

Care Francesca, Gladys, Maria, Tatiana, oggi entrate a far parte di questa stessa comunità, essa si fonda sulla testimonianza di tutti i suoi membri ed anche della vostra. E reciprocamente questa comunità ha la responsabilità di accogliervi, perché è la Chiesa che avete scelto per esprimere il vostro servizio, in cui avete scelto di vivere e testimoniare la vostra fede. Noi tutti siamo qui oggi per il servizio che ci è stato reso, nel battesimo, nella lavanda dei piedi, nei fratelli e sorelle che ci hanno accolto.

Matteo 20, v26-28.

“Non sarà così tra voi, ma chi tra voi vuole diventare grande sarà vostro servitore e chi tra voi vuole esser primo sarà vostro servo. Perché il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti”

Gesù dice ai discepoli, a tutti noi, c’è un modo per fare la volontà di Dio, nella pienezza della nostra umanità, una modalità che tutti possono mettere in pratica, che apparentemente va contro le logiche umane, dove la vittoria non è nel successo, ma nel servizio vissuto con amore e assunto come stile di vita, sull’esempio di Gesù che si è fatto servitore. E’ un capovolgimento di prospettiva, in cui la grandezza dell’uomo si misura su parametri completamente diversi dalla logica corrente: sulla gratuità, il dono di sé, l’ascolto, il servizio, la generosità condivisa con i fratelli, con la premura per coloro che sono in condizioni di difficoltà. Questa è anche una via che porta alla serenità del cuore, il potere dell’amore verso il prossimo, la solidarietà verso i più deboli. Un cuore che ama e che vive il servizio verso gli altri è un cuore libero che sa gioire di ogni  più piccola cosa.

Per concludere mi piace pensare alla reazione di Pietro. Era riluttante ad accettare il servizio di Gesù,

“Non mi laverai mai i piedi!”

ma nel momento stesso in cui ha capito che farsi lavare i piedi da Gesù era l’unico modo per comprendere e seguire realmente il suo Maestro, a lui risponde con entusiasmo,

“Signore, non solo i piedi, ma anche le mani ed il capo”, dice, cioè tutto quanto, completamente.

Preghiamo il Signore affinché anche noi, insieme alle nostre sorelle Francesca, Gladys, Maria e Tatiana, possiamo esprimere nel nostro servizio lo stesso entusiasmo, rendendoci servitori gli uni agli altri.