Solo due versetti che insegnano la fiducia e la preghiera

29 gennaio 2017

Matteo 14,22-23

Due versetti, solo due versetti tra due racconti importanti e famosi della vita e del ministero di Gesù: la moltiplicazione dei pani, da una parte, e Gesù che cammina sulla acque, dall’altra.

Come una sorta di parentesi introduttiva e poco influente a situazioni e azioni ben più rilevanti, ecco l’impressione che possono offrici questi due versetti del vangelo di Matteo.

Forse troppo poco per farne un sermone!

In fin de conti come non convogliare la nostra attenzione sul miracolo che segue questi due versetti e che ci parla di questo gruppo di discepoli che si ritrova scosso e spaurito nella tempesta e non sa cosa fare e come uscirne?

Solo l’intervento di Gesù, che qui si rivela come il Messia mandato da Dio per donare salvezza e tanto atteso dal popolo d’Israele, risolve in positivo la situazione che sembra essere senza speranza.

Un brano del vangelo questo che spesso pone problemi a noi cristiani moderni imbevuti di razionalismo illuminista perché fa sospendere le leggi naturali da un intervento soprannaturale.

Eppure non è forse vero che anche noi – tanto razionalisti, tanto legati alla scienza e alla tecnologia più sofisticate – in molte situazioni della vita vorremmo che un evento soprannaturale intervenisse a bloccare tragedie e disastri opera della natura o dell’essere umano?

Ammettiamolo!

E in effetti Gesù, che qui incarna veramente il Dio

salvatore, interviene in soccorso a coloro che sono sulla barca placando il vento.

Ma nella nostra vita non sempre questo miracolo accade o forse non accade nel modo in cui noi ci aspetteremmo…

Ora quale può essere la relazione tra questo racconto di miracolo e i due versetti che sono il centro di questa riflessione? A prima vista forse poca…

Abbiamo un Gesù che dopo l’altro miracolo, quello della moltiplicazione dei pani, obbliga i suoi discepoli a prendere il largo su una barca, mentre lui – dopo che la folla è andata via satolla di cibo materiale, ma anche di quello spirituale della sua Parola – si ritira in disparte a pregare…

Ma perchè pregare? Perché occupare questo tempo nella preghiera invece di aiutare i suoi che sono in balìa del vento?

Perché pregare?

Qualcuno ha scritto che la preghiera è come il respirare quasi che sia un atto spontaneo, ma in realtà non è così. Pregare è una scelta, è la conseguenza di un incontro e di una relazione – per quanto conflittuale e sfilacciata essa sia – con il nostro Dio che continuiamo a sentire come un Padre, e al quale ci rivolgiamo perché nel nostro profondo sappiamo che le nostre parole, rotte, povere, colme di gioia e gratitudine oppure di tristezza e di rabbia, in qualche modo verranno ascoltate: non cadranno nel vuoto!

Ma se di nuovo leggiamo il vangelo di Matteo al capitolo sesto proprio quando parla della preghiera per eccellenza, il Padre Nostro, e insegna alla moltitudine come pregare sembrerebbe chiaro che Dio sa ciò di cui abbiamo bisogno per cui non è necessario usare molte parole…

Ma allora perché pregare?

In uno dei due gruppi di studio biblico che ora stanno studiando il Padre Nostro la domanda è stata posta e un nostro fratello ha risposto che pregare è un po’ come iniziare una conversazione telefonica tra amici: c’è bisogno che tu chiami l’altro perché questo possa risponderti anche se magari già sa di cosa vorrai parlargli.

Mi sembra un bel paragone!

Ma c’è anche chi, come il teologo e filosofo Soren Kierkegaard sosteneva che: “Non preghiamo per spiegare a Dio quel di cui abbiamo bisogno – Egli già lo sa – ma perché pregando finiamo col comprendere noi ciò di cui abbiamo veramente bisogno”.

Eppure ciò che caratterizza quei due versetti è che è Gesù che prega: egli in realtà lo fa in più occasioni e spesso in disparte, da solo in relazione con suo Padre. Spesse volte questi momenti precedono o seguono eventi di cruciale importanza per la vita e il ministero di Gesù, proprio come in questo caso.

Sembrerebbe che Egli senta il bisogno di entrare in dialogo e in relazione stretta con Dio per dare senso a quanto accaduto e per trovare forza e ragione in ciò che lo attende!

Credo che anche noi abbiamo fatto un’esperienza simile a Gesù. Egli anche in questo è davvero il nostro fratello maggiore che ci precede e guida verso il Padre.

E in effetti se ripensiamo al passo della II Corinzi che abbiamo ascoltato salta agli occhi come le comunità in un tempo di difficoltà siano invitate dall’apostolo a cooperare con la preghiera per alleviare le sue sofferenze e rivolgere ringraziamento a Dio che lo ha liberato e lo libererà ancora da un pericolo di morte.

Sorelle fratelli continuiamo a pregare: Padre Nostro liberaci dal male” sembrerebbe scrivere Paolo.

E Lutero la pensava come lui quando nel Grande Catechismo scriveva: “Sappiamo che la nostra difesa è esclusivamente nella preghiera. Teniamo salde le armi del cristiano: esse ci rendono capaci di combattere il diavolo. Che cosa ha riportato queste grandi vittorie sulle imprese dei nostri nemici che il diavolo ha utilizzato per asservirci, se non le preghiere di alcune persone che si sono erette come una muraglia di bronzo per proteggerci?

Ma spesse volte il male di cui si parla non viene dall’esterno.

Pure di questo l’apostolo ne è cosciente quando afferma che avevano loro stessi pronunciato la loro sentenza di morte così da non mettere “la nostra fiducia in noi stessi, ma in Dio che risuscita i morti.” (II Co. 1,9b)

Troppo spesso è la fiducia nelle nostre sole forze, nel poter fare tranquillamente a meno di Dio che tanto i miracoli dei vangeli non li fa più – se mai li ha fatti – che decreta in un certo senso la nostra sconfitta e la nostra morte.

Ecco cosa ci mostrano i discepoli sulla barca, o meglio tutti coloro che si trovano nei marosi della vita, e non sanno a chi affidarsi una volta che le proprie risorse e forze sono venute meno.

È pur vero che Gesù placherà il vento e la barca sarà in salvo, ma nel momento in cui egli si avvicina a Pietro e lo invita a scendere da quella barca per camminare con lui il mare è ancora in tempesta, il vento soffia ancora forte…

È questo il senso della preghiera e dell’affidamento a Dio.

Un atto di fede nella relazione con un Dio che libera, con un Dio che salva attraverso strade a noi sconosciute e misteriose, ma che ci chiede di affidarci a Lui e di abbandonare il dubbio che pure ci attanaglia in favore di una speranza più certa.

Eppure il Signore nostro Padre sa che questo per noi è tutto tranne che facile.

La nostra vita di credenti è tutta fatta di fede mista a dubbio e che soltanto per grazia è possibile che il dubbio sia messo in sott’ordine.

Come il padre del piccolo epilettico nel vangelo di Marco, quasi in un grido prega: “Io credo! Vieni in aiuto alla mia incredulità!” (Mc. 9,24) anche noi ci rivolgiamo a Dio così.

Ed è proprio tra il dubbio e la fede che si apre lo spazio per la preghiera: “Io credo Signore! Vieni in aiuto alla mia incredulità!”.

Amen

past. Mirella Manocchio

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