Dio parla anche alle persone senza volto

2 aprile 2017

Genesi 3,1-21

Spesse volte mi è capitato di parlare con persone che di recente si erano avvicinate alle nostre chiese o con amici cattolici, critici nei confronti di manifestazioni e dettami della loro propria ecclesiologia.

Il discorso scivolava facilmente sulle ragioni del loro avvicinamento al protestantesimo e la risposta più frequente era che nelle nostre chiese si respira un’aria di maggiore libertà, un’assenza di costrizioni, intendendo non la mancanza di una chiara visione di fede e il cedimento al libertinismo godereccio, ma invece l’assenza di un atteggiamento dogmatico, vincolante il pensiero e la coscienza.

Certamente, care sorelle e cari fratelli, un bell’apprezzamento per le nostre comunità, figlie di quella Riforma che aveva visto nel ritorno alla parola dell’Evangelo, della Scrittura, il centro della sua predicazione.

La Riforma che, mettendosi sulla scia di quanto predicato dall’apostolo Paolo, ha voluto aiutare uomini e donne a divenire adulti, a divenire persone mature, autonome, capaci di libere scelte perché da Dio stesso chiamate a libertà.

Un discorso quello di Paolo e della Riforma non facile da portare avanti soprattutto nell’odierna società italiana in cui due fronti, uno esterno –potremmo dire- e uno interno al protestantesimo, sottolineano con forza la medesima tendenza: porre i credenti nuovamente sotto il vincolo della legge.

Da una parte, è la chiesa cattolica che propone i suoi dogmi etici su problemi di scottante attualità, come i matrimoni omosessuali, la procreazione assistita, l’eutanasia, cercando come sempre di costringere il nostro paese, laico per costituzione, a farne leggi dello stato, vincolanti per tutti i cittadini.

Dall’altra, vi sono le chiese evangelicali, pentecostali e carismatiche, in genere molto conservatrici che insistono sull’osservanza di prescrizioni relative al fumo, alla sessualità, all’abbigliamento come lasciapassare per l’appartenenza a queste comunità di credenti.

Paolo sottolinea però con forza che non è certo ridurre il Vangelo di grazia ad una nuova legge che farà di noi veri figli e figlie di Dio. Infatti, “Cristo ci ha liberati, perché fossimo liberi”; ma nemmeno il lasciarsi vivere permettendo che nelle nostre comunità e nel mondo si creino situazioni di ingiustizia che finiscano con il ledere la libertà stessa. Non è facile portare avanti la propria vocazione di credenti senza cadere in questi due estremi, mantenendo alto il valore della libertà, del rispetto e dell’amore per tutti. Lutero ci ha dato una splendida sintesi di questa visione di vita nel suo scritto del 1520 ‘La libertà del cristiano’:

«Un cristiano è un libero signore sopra ogni cosa, e non è sottoposto a nessuno.
Un cristiano è un servo volenteroso in ogni cosa, e sottoposto ad ognuno»

Questa è quella che paradossalmente Paolo chiama nel capitolo sesto della lettera ai Galati, la legge di Cristo: essa non è un peso gettato dal più forte sulle spalle del più debole e non è nemmeno un giogo che il Signore ci chiede di portare da soli. È, invece, l’ascolto condiviso della Parola di Dio, la ricerca comune e comunitaria di uomini e donne che riconoscono in Cristo il loro Signore e liberatore, colui che ha fatto di ognuno di noi figli di Dio, eredi per grazia. Entra qui in gioco allora, come l’altra faccia della medaglia libertà, la responsabilità.

Rispondere di sé e delle proprie azioni è proprio la libertà più difficile.
Credo che il testo di Genesi mostri in tal senso proprio la nostra difficoltà umana nel recepire questo senso più profondo della libertà come responsabilità.

Questo testo è quel che gli esegeti chiamano un racconto eziologico, un racconto cioè che spiega l’origine di eventi e situazioni che ogni persona ha sotto gli occhi.
In esso si rispecchia l’enigmaticità dell’esistenza umana che diventa comprensibile solo attraverso la polarità tra nascita e morte, tra gioia e dolore, tra vetta ed abisso.

Qui è messa in scena l’enigmatica forza della tentazione e della seduzione che appartiene all’essere umano, indica insomma un limite dell’uomo.
Di tutto il lungo racconto di Genesi vorrei soffermarmi su una scena in particolare: quando Dio sul far della sera cammina nel giardino dell’Eden e con voce sommessa chiama Adamo chiedendogli “Dove sei?”.

Ogni volta che leggo questo testo, mi sembra di vedere la reazione che tutti i bambini hanno dopo aver commesso una marachella alquanto grossa. Anche a me è successo di fare qualcosa che non dovevo mentre i miei erano assenti. Tipo bisticciare con mio fratello, oppure rompere il vaso preferito da mia madre che centomila volte mi aveva detto di non toccare, di non prendere dalla mensola nel salotto perché fragile. Mi ricordo benissimo che la prima cosa che ho fatto, sentendo la voce dei miei genitori che rientravano a casa, è stata quella di nascondermi e poi, sapendo che non avevo dove scappare, di cercare una qualche giustificazione alla mia malefatta.

Adamo ed Eva si comportano esattamente come dei bambini: cercano di nascondersi, ma scoperti cercano una giustificazione alla loro azione.
È proprio in questo preciso istante che il vaso – diciamo così – va in frantumi: Dio sa benissimo cosa è accaduto, ma non punta l’indice accusatore contro la coppia primigenia, piuttosto offre loro la possibilità di spiegarsi, di ammettere l’errore.

Adamo invece di accettare lo sbaglio accusa Eva, “la donna che tu mi hai messa accanto” rimbrotta a Dio.

Il vaso comincia a frantumarsi, l’equilibrio si sta rompendo: la donna che prima era per l’uomo, “ossa delle mie ossa e carne della mia carne”, la compagna ideale, diviene nemica, e sottilmente Adamo accusa Dio di questo, poiché è lui che le ha posto accanto la donna che l’ha spinto verso la trasgressione. Eva a sua volta incolperà il serpente.

Ecco andato in frantumi l’idilliaco rapporto tra uomo e donna, tra la creatura umana e il suo Creatore, tra gli esseri umani e la natura.
Dio ha offerto all’umanità uno spazio di libertà nel quale accettare le proprie responsabilità, ma Adamo ed Eva hanno preferito rimanere bambini, non divenire adulti.

E Dio li ha accettati per quello che erano: ha fatto per loro delle tuniche di pelle, ben più solide delle foglie di vite, affinché si potessero proteggere dalle difficoltà della vita. Allo stesso modo, Dio ha continuato ad occuparsi di tutta l’umanità: ci ha dato Gesù Cristo, suo figlio affinché potessimo finalmente divenire liberi, liberi da noi stessi, dal nostro farci bambini ed accettare anche la responsabilità che questa nostra libertà comporta. Non come un peso, ma come atto liberatorio: “si, sono stato io!”

Care sorelle e fratelli,

mi fermo qui.
Ognuno può e deve fare le sue riflessioni su cosa significa essere figli e figlie di Dio, eredi della grazia, chiamati a libertà.
Cosa significa essere membri di una comunità dove insieme si ricerca la volontà di Dio, si discutono i problemi e infine si rispettano, senza giudizi e senza scomuniche, le decisioni che ciascuno si assume in libertà e responsabilità.
Cosa significa essere credenti che vivono come cittadini di un mondo in cui la libertà e il rispetto di ogni singola persona sono troppe volte messe sotto i piedi, sono atterrate dal nostro non voler vivere la nostra responsabilità.
Amen

past. Mirella Manocchio

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