Il quinto appuntamento con i Sola della Riforma: Soli Deo Gloria

Video e testo della predicazione della pastora Mirella Manocchio

Filippesi 2,5-11

In questa domenica in cui ricordiamo l’inizio simbolico della Riforma, noi concludiamo il nostro ciclo di culti dedicati ai 5 Sola che sono cardine di questa rivoluzione teologica, spirituale ed ecclesiale: Sola scriptura, solus Christus, sola gratia, sola fide e soli Deo gloria.

In particolare, oggi cercheremo di capire cosa vuol dire per noi che “Solo a Dio va resa gloria”, una frase che si trova anche nelle Istituzioni della Religione Cristiana di Giovanni Calvino ed è centrale nell’impostazione della sua teologia.

Giovanni Calvino, il grande riformatore francese, il 27 maggio 1564 a 55 anni moriva in quella Ginevra in cui a lungo aveva vissuto, scampando alle persecuzioni religiose nel suo paese, rimodellandola secondo le idee della Riforma. La notizia della sua morte si sparse in fretta e molti forestieri, venuti per incontrarlo, avrebbero voluto poterlo vedere per l’ultima volta, ma venne inumato velocemente e sepolto, secondo le sue volontà, nel cimitero di Plainpalais nella fossa comune. Oggi nel parco comunale di Ginevra, per ricordarlo in mancanza di una tomba vera e propria, si trova semi nascosta una piccola lastra di pietra di pochi centimetri con inciso J.C., le iniziali del suo nome.
Forse ad ispirare questa sua scelta era l’idea che la creatura umana è naturalmente idolatra e cerca sempre qualcosa da adorare al posto di Dio, e i morti sono sempre stati oggetto di particolare devozione nelle varie culture, anche in quella italiana se pensiamo alla festa dei morti.

Per Calvino invece, come per tutti i riformatori, la gloria è solo a Dio perché “al SIGNORE appartiene la terra e tutto quel che è in essa, il mondo e i suoi abitanti.” (Salmo 24,1) e quindi la fede cristiana non può che essere dossologica dove “Dossologia”, letteralmente, significa “parola di lode o parola di gloria”.
La Bibbia, infatti, è costellata di dossologie perché è la stessa vita di fede ad esserlo. Il ritmo della vita cristiana è sempre scandito dal principio secondo il quale, allorché si coglie per fede la rivelazione della gloria di Dio, la risposta è rendere a Dio tutta la gloria.
E il mondo, diceva Calvino, è il teatro dove questa gloria si esplica, si realizza.

Questo pensiero in una persona credente può suscitare un senso di stupore immenso e riconoscente perché indica che se il mondo è il luogo, il palco sul quale si mette in scena la gloria di Dio ossia la sua ricchezza interiore, allora vuol dire che Dio è in relazione costante con il mondo e che ciò che accade in esso ha un senso coerente, seppur complesso, di cui Egli solo conosce la logica.
In qualche modo questa è una prospettiva liberante e confortante perché ci fa comprendere che non tutto è solo nelle nostre mani, ma soprattutto che il mondo non è abbandonato a se stesso.

Un secondo pensiero, però, mi sorge ricordando la lapide anonima di Calvino: questa spogliazione così radicale di sé non è al limite del disumano?
Il dare gloria al Signore non implica allora l’annullamento di sé e della propria umanità?
E ciò non conduce ad una religione senza cuore, senza sentimento, rigorosa ma schematica, fredda?
Questa è una delle accuse rivolta nei secoli ai protestanti e ancora oggi tanti nostri concittadini lo pensano. Prima c’è l’essere umano poi Dio, oppure se pensi a Dio non pensi all’essere umani.

E d’altra parte come si può predicare una teologia della spoliazione a uomini e donne che vedono già messa in discussione la loro essenza di umani nell’inattività causata dalla disoccupazione o dal fallimento della propria ditta, nei lavori al limite dello sfruttamento, nei centri di cosiddetta accoglienza, nelle strade dove per sopravvivere devono vendere il loro corpo oppure nel dover cercare qualcosa tra le immondizie per sopravvivere?

Anche Gesù, il Cristo, chiamato da Paolo in questo brano immagine di Dio, passa per una spoliazione, per una sorta di migrazione dall’eternità all’abbassamento, allo svuotamento, fino all’annichilimento nella morte in croce.

L’apostolo ci presenta Gesù come colui che essendo immagine di Dio può svelarne all’essere umano il carattere più intimo.
Ma a differenza degli idoli pagani, rappresentati come severi e onnipotenti sovrani che esercitano il loro potere sovrumano sui sudditi, i quali devono carpirne la benevolenza attraverso sacrifici, il Dio di Gesù non vuole tenere la sua divinità quasi fosse frutto di una rapina, ma spoglia sé stesso, si offre all’umanità per salvarla da se stessa, dai suoi mali.

L’apostolo Paolo non si sofferma tanto sulla natura di Cristo, cioè sulla sua identità se sia umana o divina o entrambe, quanto sul suo modo di vivere la sua identità. Gesù, infatti, invece di cercare il potere o il successo – valori che vanno per la maggiore in tutte le epoche e a tutte le latitudini – volle esprimere la sua essenza nell’amore.

Questo sentimento di Gesù serve a Paolo per esortare tutte le sorelle e i fratelli in Cristo all’amore reciproco e ad abbandonare la faziosità, ad essere uniti intorno alla figura di Cristo.
L’esortazione dell’apostolo ai credenti non è quella di comportarsi come Cristo visto quale modello etico esemplare.
Semmai egli si richiama all’azione salvifica di Dio che attraverso Gesù ha spalancato l’orizzonte di una nuova epoca per l’umanità, e per ogni credente una nuova vita che comporta una prassi conseguente e coerente: “… andate d’accordo – dice Paolo- abbiate lo stesso amore, un’anima sola, uno stesso sentire…” anche se tra voi ci sono grosse diversità di nazione, lingua, cultura e ceto sociale – aggiungo io.

La nostra liberazione, ci vuol dire Paolo, avviene quando lasciamo che lo Spirito di Dio ci converta da una mentalità di potere ad una mentalità di amore, che ci converta da un atteggiamento di orgogliosa superiorità e di giudizio del prossimo ad uno contraddistinto dalla umiltà e dalla volontà di condivisione.
Questo è il sentire a cui richiama la comunità di Filippi, questo è il richiamo che giunge anche a noi…e non è poca cosa se pensiamo che mettere in atto già in seno alle comunità dei credenti dinamiche che spezzano le catene dell’egoismo e del giudizio, può essere un primo passo perché queste si ripercuotano nelle nostre società dove l’aggrapparsi al proprio io, alla propria identità anche di fede, diventa muro di separazione per l’altro. Alle comunità e ai singoli credenti, a noi tutti, è chiesto di non cadere in logiche di esclusione e di attaccamento a identità chiuse, perché finirebbero col rafforzare quei “poteri” contro cui Gesù si scagliò in vita e a causa dei quali fu condotto alla croce.
Le comunità e i singoli credenti, se seguono il monito di Cristo a farsi sale per la pietanza e non tengono per loro stessi gelosamente i doni della grazia, ma li condividono, li spargono per condire il cibo dato a tutti, allora potranno forse percepire cosa significa davvero che a Dio solo è la gloria.

E non a caso, sorelle e fratelli, la celebrazione nazionale per i 500 anni della Riforma che si è svolta ieri a Roma aveva un motto che si richiamava al testo di Galati 5,13: “Liberi per amare e per servire”.
Ecco il compito che ci è stato dato, ecco come l’abbiamo compreso.
E perché noi dovremmo farlo?

L’apostolo Paolo ci ricorda la consapevolezza cui siamo giunti: noi dobbiamo la nostra nuova vita, una vita libera dalla schiavitù del peccato, non ai nostri meriti, ma a un dono di amore fatto da Dio per tutti, e quindi per tutti noi.
Ma questa vita nuova non si configura come un dato acquisito, semmai come una destinazione: noi siamo da lui chiamati e destinati a rispondere della sua grazia nel mondo. Noi abbiamo un compito nella raffigurazione della gloria di Dio che, però, dobbiamo scoprire autonomamente.
Pertanto, la destinazione da parte di Dio e la nostra autodeterminazione sono strettamente legate.
“Siete stati chiamati a libertà, soltanto non fate della libertà un’occasione per vivere secondo la carne, ma per mezzo dell’amore servite gli uni gli altri” (Gal.5,13) L’autodeterminazione, quindi, risponde sempre ad un qualcosa da cui veniamo.

Perciò la nostra libertà e la nostra autodeterminazione sono la risposta alla deliberazione di Dio.
La fede di Gesù Cristo, che l’apostolo ci invita ad assumere come nostra, non ci farà vivere tutto ciò come una spoliazione, un abbassamento o una disumanizzazione di noi stessi, semmai in questo troveremo il senso più profondo del nostro essere sulla terra per noi e per gli altri.

Ecco quindi l’annuncio di Gesù: la grazia di Dio diventa per noi credenti felicità che mobilita, la felicità di sperimentare Dio all’opera nel mondo e di entrare nella sua opera!

Ecco perché con i serafini anche noi possiamo ripetere “santo, santo, santo è il Signore, tutta la terra è piena della sua gloria”.
Amen

Past. Mirella Manocchio Presidente Cp-Opcemi