L’intervento tenuto da Franco Chiarini all’incontro ecumenico sul Rinnovamento del patto, presso la parrocchia di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri a Roma, il 28 novembre scorso.


Il metodismo sorse in Inghilterra nella metà del Settecento come movimento di risveglio religioso all’interno della Chiesa anglicana.

Il suo promotore fu il ministro anglicano John Wesley (1703-1791), che a seguito dei contatti con i Fratelli Moravi ed il pensiero pietista, dopo aver vissuto l’esperienza personale della conversione e della <> mediante l’opera salvifica di Gesù Cristo cui seguiva il cammino della perfezione cristiana e la santificazione del credente, rivolse la propria predicazione <> specialmente a quegli operai, minatori e contadini inglesi che maggiormente risentivano dei profondi e drammatici mutamenti sociali che la Rivoluzione industriale di quei decenni li faceva oggetto.

La predicazione metodista – laddove, giova ricordarlo, questo aggettivo metodista fu coniato in senso dispregiativo per l’intento di Wesley e dei suoi compagni di studiare “metodicamente” la Bibbia e la spiritualità cristiana – raggiungeva la gente nei luoghi di lavoro soprattutto tramite la figura del predicatore laico, svincolato dalla Chiesa ufficiale che cominciava a vedere con crescente ostilità i sistemi metodisti.

Alla fine del Settecento le società metodiste avevano conosciuto in tutta l’Inghilterra un enorme sviluppo, tanto che nel 1795 fu presa la decisione di dare vita alla Wesleyan Methodist Church completamente indipendente dalla Chiesa anglicana.

Venendo all’Italia, la presenza metodista nel nostro paese risale al 1859, quando il pastore William Arthur (1819-1901), segretario della Wesleyan Methodist Missionary Society inglese, vi giunse all’indomani della seconda Guerra d’Indipendenza con il compito di prendere contatti con gli organismi della Chiesa valdese e della Chiesa libera nell’intento di aiutare gli italiani nel risveglio religioso che doveva affiancare e completare il Risorgimento politico finalmente in atto.

A lui subentrò nel 1861 Henry James Piggott (1831-1917), che lungo la linea tracciata da Arthur iniziò a lavorare sostenendo le chiese libere milanesi. Ma dopo alcuni anni di intenso lavoro con risultati non sempre incoraggianti, nel 1866 egli suggerì alla Chiesa metodista inglese di creare un’organizzazione missionaria autonoma. Sorsero così numerose comunità metodiste sia nel nord: Milano, Cremona, Parma, Mezzano Inferiore, Padova, Vicenza, Intra e la zona attorno al Lago Maggiore, Firenze, ed anche nel centro sud: Napoli, L’Aquila, Cosenza, Palermo, Messina, alle quali si affiancavano una nutrita serie di piccole o piccolissime diaspore rurali.

Nel 1868, dunque, durante un solenne incontro a Parma, nasceva la Chiesa Evangelica Metodista in Italia, dipendente dalla Conferenza metodista inglese e divisa in due distretti: quello del nord sotto la responsabilità di Piggott e quello del sud affidata al pastore Thomas Jones (1831-1916), che già da alcuni anni si era unito a Piggott. A quest’ultimo era affidata la direzione dell’intera opera.

Nel 1870 la caduta del potere temporale papale fece sì che alla fine di quell’anno anche il Comitato missionario della Methodist Episcopal Church americana decideva di stabilire una propria missione in Italia. Anche tra le colonie americane, infatti, il metodismo aveva fatto numerosi progressi; ma quando con la Guerra di Indipendenza esse decisero di staccarsi dalla madre patria, nel 1784 anche il metodismo americano si separò da quello inglese, ponendo quali responsabili della nuova Chiesa la figura dei <>, titolo non legato ad alcuna natura sacramentale ma ad un semplice ufficio.

La Chiesa metodista americana aveva dato incarico a Leroy Monroe Vernon (1838-1896) di iniziare un’opera missionaria in Italia, e di lì a qualche anno sorsero comunità soprattutto nelle grandi centri urbani come Milano, Venezia, Bologna, Modena, Firenze, Terni, Perugia, Roma, Napoli, Bari, Foggia, Palermo, finché nel 1874 fu costituita la Chiesa Metodista Episcopale d’Italia.

Sotto il profilo della composizione sociale si può notare che le due Chiese metodiste italiane di quei decenni non facevano eccezione rispetto alle altre chiese evangeliche, laddove le comunità wesleyane erano composte in maggioranza da contadini, operai, artigiani ed alcuni impiegati e piccoli commercianti, mentre quelle metodiste episcopali, presenti come s’è detto soprattutto nei centri urbani, erano formate per lo più da impiegati, insegnanti, professionisti.

Il corpo pastorale era formato in gran parte da ex preti o ex frati che sugli entusiasmi del Risorgimento avevano abbandonato il papato, ed in minor misura anche di provenienza valdese,  tutti comunque accomunati da un severo biblicismo risvegliato, un forte radicalismo democratico e anticlericale e spiccate simpatie – che tra gli episcopali si tradussero in adesioni anche ad alti livelli – alla massoneria, con la quale condividevano i valori risorgimentali per il rinnovamento spirituale del popolo italiano, gli ideali di laicità dello Stato, di tolleranza religiosa, di solidarietà e di uguaglianza.

Accanto all’annuncio dell’evangelo le chiese metodiste italiane avevano dato vita anche a numerose attività di carattere assistenziale ed educativo: al fianco delle “Società di mutuo soccorso” e le scuole annesse alle piccole comunità di provincia ricordiamo gli orfanotrofi di Intra e Firenze, l’istituto industriale di Venezia, l’istituto d’istruzione di Padova, il collegio a Roma con l’asilo Clark e l’istituto internazionale Crandon. A Portici, vicino Napoli, dal 1905 iniziava <> a favore di bambini orfani, tuttora esistente.

Nel 1905 le due chiese metodiste si adoperarono per salvare la Chiesa Cristiana Libera, in profonda crisi già da alcuni decenni, il cui patrimonio di fede si riversò nei due rami wesleyano ed episcopale accogliendo sia le comunità che i rispettivi pastori, gli evangelisti, gli emeriti e le vedove.

Alla data del 1915 le due Chiese metodiste avevano stabilito una rete di comunità piuttosto estesa: quella wesleyana contava circa 2.300 membri, mentre quella episcopale 3.200 comprendendo anche la dozzina di comunità del distretto svizzero che ammontavano intorno a 320 membri.

La dislocazione geografica accentuava la fragilità di quelle comunità e soprattutto dei numerosi gruppi della diaspora, mentre in genere le comunità urbane risultavano più resistenti all’usura del tempo e meno esposte al dramma dell’emigrazione, trovandosi anzi avvantaggiate dal fenomeno dell’urbanizzazione.

La prima Guerra Mondiale portò anche ai metodisti italiani dure sofferenze, ed il dubbio che quel conflitto in cui i tedeschi combattevano contro gli inglesi e poi gli americani fosse in realtà una guerra tra nazioni protestanti da cui la <> sarebbe uscita a pezzi.

Seguirono gli anni difficili del dopoguerra e l’avvento del fascismo che adottò nei confronti degli evangelici misure sempre più restrittive.

Il 1929, anno della firma del Concordato tra l’Italia e la Santa Sede, fu anche l’anno della crisi economica di Wall Street: subito la Chiesa metodista degli Stati Uniti decise il taglio di ogni sostegno finanziario alla missione italiana. L’ingrato compito di salvare il salvabile toccò al sovrintendente Carlo Maria Ferreri, che dovette procedere a un doloroso ridimensionamento dell’opera in circostanze economiche sfavorevoli.

Anche l’altro ramo del metodismo italiano si trovò in situazione molto difficile, e il sovrintendente Emanuele Sbaffi dimostrò i quei decenni notevole coraggio per far fronte ai molti problemi sopraggiunti.

Certo non mancarono neppure tra i metodisti le ferite dovute ai diversi atteggiamenti nei confronti del regime, né possiamo dimenticare le sincere preoccupazioni dei pastori di non compromettere le comunità con le proprie scelte personali, come quando in pieno fascismo Emanuele Sbaffi chiamò ad insegnare presso la Scuola teologica metodista Ernesto Buonaiuti, scomunicato dalla Chiesa cattolica perché modernista e cacciato dall’Università di Roma perché aveva rifiutato di giurare fedeltà al regime; oppure l’ex deputato socialista ed ebreo Ugo Della Seta, nascosto presso i locali della chiesa di Roma.

Anche il pastore Anselmo Ammenti accolse presso la sua abitazione numerosi rifugiati, ebrei e gruppi di pentecostali il cui culto era stato vietato dalla famigerata circolare ministeriale Buffarini-Guidi fin dall’aprile 1935.

I metodisti accolsero anche personaggi scomodi come l’ex deputato socialista Dante Argentieri che divenne pastore e l’ex segretario del Partito Repubblicano di Carrara Jacopo Lombardini, predicatore locale tra i cavatori di marmo delle Apuane.

Con l’entrata dell’Italia nella seconda Guerra Mondiale il legame dei metodisti italiani con l’Inghilterra e gli Stati Uniti divenne un crimine: i loro possedimenti furono dichiarati proprietà nemica e come tali sequestrati. Seguirono anni dolorosi. Jacopo Lombardini si unì alla Resistenza nelle Valli valdesi, fu catturato, torturato e mandato in un campo di sterminio dove morì.

All’indomani della Liberazione iniziò un processo di ricostruzione dell’opera metodista in Italia che teneva conto delle nuove prospettive che nel Paese si aprivano con l’avvento della democrazia. Il primo passo fu nel 1946 la confluenza della missione americana e di quella inglese in un’unica Chiesa Evangelica Metodista d’Italia, che faceva parte della Conferenza metodista britannica dalla quale diventerà completamente indipendente nel 1962.

In quegli anni i metodisti italiani si impegnarono attivamente in molte iniziative comuni ad altri evangelici, la più importante delle quali fu nel 1967 la costituzione della Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, il cui primo presidente fu il pastore metodista Mario Sbaffi, e dove la componente metodista offrì costantemente il proprio contributo nei campi più diversi.

La Federazione fu il primo passo, al quale seguì l’avvio di quel processo che portò all’integrazione tra i metodisti e valdesi, approvata nel 1975 e resa operativa nel 1977. In base al Patto di Integrazione le comunità metodiste conservano la loro identità ed i loro legami con il metodismo internazionale, partecipando assieme ai valdesi ad un’unica assemblea sinodale. Il Sinodo così costituito esprime un organo esecutivo che conserva il nome di Tavola valdese, del quale fanno parte anche due membri metodisti.

Inoltre si dovette anche all’impegno dei metodisti l’esito positivo che nel 1983 condusse lo Stato italiano e la Tavola valdese alla stipula delle intese in attuazione dell’art. 8 della Costituzione, dal contenuto così innovativo da ricevere consensi da una vasta cerchia dell’opinione pubblica.

Negli ultimi decenni, infine, l’Italia da paese di emigranti è divenuta terra di immigrazione crescente, soprattutto dall’Estremo oriente e dall’Africa. Molti degli immigrati sono evangelici, e pertanto accanto ad iniziative di soccorso ed assistenza le comunità metodiste hanno attuato anche forme concrete di condivisione dell’evangelo e di comunione fraterna, tanto che in diverse comunità vi sono state vere trasformazioni date dalla presenza di sorelle e fratelli immigrati.

Questo, è ovvio, pone il metodismo italiano di fronte a nuovi scenari, ma allo stesso tempo lo inserisce anche in un cammino di nuova speranza.

Franco Chiarini