La vigna, le vigne

Isaia 5,1-7

Vi è mai capitato di partecipare ad una vendemmia?
A me sì, giù in Sicilia, attorno ai primi di Ottobre, nel palermitano.

Ricordo che tra zii, amici e persone incontrate per la prima volta, l’atmosfera era quella di chi, gioioso, raccoglieva il frutto di lavoro ed aspettative. Sì, perché non è per nulla scontato raccogliere dei buoni grappoli d’uva: basta una grandinata, un’alluvione o, per contro, un periodo di siccità, oppure anche degli invisibili parassiti a far andare tutto a male! Per questi motivi, la vendemmia è spesso accolta con canti di gioia. Ne ricordo ancora uno, che provo a tradurvi: “Il pero disse all’uva: povera disgraziata, tu verrai calpestata; l’uva rispose: ma a l’uomo che mi calpesta, gli farò girar la testa!”.

Il testo biblico di oggi sembra sia stato scritto in occasione della festa ebraica dei Tabernacoli, coincidente con il tempo della Vendemmia.

Immaginate, adesso, un uomo, un profeta, al quale era stato detto da Dio di annunziare una parola al popolo. Provate a pensare a quest’uomo mentre, di campagna in campagna, vede gente festeggiare una buona vendemmia. L’odore d’uva, probabilmente, riempiva i polmoni ed i canti le orecchie dei passanti. Profumi e canti improvvisati e tradizionali accompagnavano i passi del profeta fino in prossimità del Tempio, dove probabilmente alcuni si erano riuniti per aspettare il momento dei riti cultuali e cerimoniali.

In quel periodo, però, non doveva esserci molto di cui gioire: il regno di Israele era parzialmente conquistato ed il regno di Giuda era anch’esso sotto il pericolo dell’occupazione militare assira. C’era, probabilmente, chi si ricordava del suo tempo di catechismo, nel quale gli era stato insegnato che il re che lo governava, Ezechia, proveniente dalla stirpe del celebre re Davide, era destinato ad un aiuto incondizionato da Dio.

“Dio è con noi”. Uno dei ritornelli più famosi ed utilizzati nella storia.

Il profeta, però, non condivideva né la gioia del popolo in mezzo al quale viveva, né il ritornello “Dio è con noi”. Lui aveva in cuore altro. Il profeta ricordava che nei testi biblici la fedeltà di Dio al popolo che era chiamato a servirlo, non era slegata dalla sua giustizia.

Per paura, desiderio di potere o semplice imitazione dei popoli vicini, sempre più ingiustizia e sangue veniva versato sulla terra promessa che gli era stata data come segno di libertà. Ingiustizia sociale e morti che Dio non tollera, al punto da scegliere un uomo proprio fra quegli uomini e mettergli in bocca un canto “diverso”.

Adesso pensate a quell’uomo mandato da Dio che si avvicina agli altri, cantando un canto non suo: il “canto del suo amico”. Il canto ha per oggetto una vigna per la quale il suo amico ha speso tutte le energie e le cure necessarie affinché portasse buon frutto. Anche il Cielo era stato benevolo: nessuna grandinata, alluvione, siccità o parassita aveva compromesso il suo lavoro. A questo punto, però, il canto comincia a presentare la prima nota stonata: nonostante le cure e il tempo clemente, l’uva prodotta è acerba, immangiabile e impossibile anche da trasformare in vino. Coinvolgendo la gente attorno a lui, quindi, il profeta chiede: «voi con una vigna così, che fareste?». La gente, impulsivamente, risponde – cantando – che una vigna così non merita il tempo e le cure spese. Alcuni, forse, propongono di venderla a qualche pastore di pecore; altri, probabilmente, avranno proposto di abbandonarla.

Il ritornello, però, non era ancora arrivato.

Ad un tratto il tono del cantante cambia e diventa più serio: «Ebbene, ora vi farò conoscere
ciò che sto per fare alla mia vigna: le toglierò la siepe e vi pascoleranno le bestie; abbatterò il suo muro di cinta e sarà calpestata. Ne farò un deserto; non sarà più né potata né zappata, vi cresceranno i rovi e le spine; darò ordine alle nuvole che non vi lascino cadere pioggia. Infatti la vigna del SIGNORE degli eserciti è la casa d’Israele, e gli uomini di Giuda sono la sua piantagione prediletta; egli si aspettava rettitudine, ed ecco spargimento di sangue; giustizia, ed ecco grida d’angoscia!».

Il significato della canzone era svelato: le tribù di schiavi che Dio aveva chiamato ad essere un popolo libero, avevano usato quella possibilità per opprimere i più deboli e usare ingiustizia e violenza. Anche gli amministratori politici ed i capi religiosi approfittavano della situazione sociale per nutrire la loro sete di potere. Molti sembravano aver dimenticato quel Dio che li aveva chiamati a vivere liberi, amando il loro prossimo dell’amore del quale erano stati amati dal Dio liberatore.

Ma Dio non è cieco o sordo come una statua, Lui è Spirito, ed è potente da correggere il popolo che Lui ha scelto.

Nel canto messo in bocca al profeta si parla di “deserto”: come in un deserto, questo popolo che pensava di utilizzare il nome potente di Dio per legittimare le proprie azioni malvagie viene lasciato a se stesso, solo. Dio si ritrae, si allontana da loro, facendo sperimentare le conseguenze che una politica corrotta e iniqua e una religiosità ebbra del vino del potere e della visibilità può comportare.

Quella generazione, ubriacata dall’illusione della propria apparente potenza e dedita alla strumentalizzazione del nome di Dio, subirà le conseguenze del proprio peccato.

La presenza di Dio non è qualcosa da dare per scontato. Egli è dotato di una sua volontà, che ha anche rivelato nei suoi comandamenti. Non è mai per capriccio che Dio si allontana, nei racconti biblici. In questo caso, ad esempio, si parla di spargimento di sangue: non è cosa da poco!

Nel canto si parla di uva acerba, simile nell’aspetto a quella selvatica, ma impossibile da mangiare o da ricavarne del vino. Nel canto, al verso 7, si parla ancora del significato di questo essere “selvatica”: i regni di Israele e Giuda, a quanto pare, si comportavano similmente ai regni che li circondavano, commettendo le stesse ingiustizie e imitandoli, nell’uso e l’abuso del potere politico e religioso. Quelle tribù, un tempo schiave e perseguitate, hanno barattato la loro memoria e la loro vocazione per costruirsi un presente simile a quello dei popoli vicini: un presente di giochi di potere ed ingiustizie.

La storia ce lo insegna: anche lo spargimento di sangue, un assassinio, un’uccisione, può essere tollerata, se autorizzata da una legge e confinata ad una certa categoria di persone. Chi è al potere, quindi, si arroga il diritto di considerare alcune vite meritevoli di subire discriminazioni, violenze ed uccisioni. In questo modo, l’uccisione, le discriminazioni, le ingiustizie sociali, sono autorizzate dall’autorità politica e religiosa di turno, a volte anche per “legge”. Ma il fatto che un potere politico o religioso, una legge, proclami un atto dagli effetti dannosi o mortali come “giusto”, cambia la natura di quell’atto? Per le società sì, per Dio no. L’uva acerba e quella buona, spesso non si distinguono dall’apparenza, ma dal sapore, dagli effetti sulla lingua e sul corpo.

E Dio, contrario alle ingiustizie e allo spargimento di sangue, dopo aver ripreso una generazione, decise di allontanarsi da essa.

A volte, essere privati di qualcosa o qualcuno, è l’unico modo per farci comprendere cosa vale davvero nella vita.

Dio, nel testo biblico, si sottrae alla presenza di quella generazione e loro se ne accorgeranno presto!

Forse, gli ultimi ad accorgersene saranno i sacerdoti e la gente religiosa, che tendeva, allora come oggi, a riempire i silenzi e le assenze di Dio con le loro azioni, le loro chiacchiere e la loro presenza.

Come la presenza, anche l’assenza di Dio va riconosciuta e temuta.

Quando ci è donata la ragione della sua assenza, siamo chiamati a tornare sui nostri passi e a cambiare direzione alla nostra vita, convertendoci.

Quando questa ragione non ci è donata, dobbiamo aspettarlo. La ragione, in quei momenti, sta in Dio stesso, nel suo cuore. In quei tempi, la memoria di ciò che è stato e la speranza nel Dio che viene, possono essere l’unica cosa che ci è data vivere.

Ma in questo caso, la generazione di cui Isaia parla e da cui Dio si allontana, non sembra convertirsi dal male, smettendo di uccidere, come Dio aveva loro ordinato.

Ma quel Dio del quale il profeta cantava il canto, è il medesimo che ricordava di non punire i figli per la colpa dei padri (Deut 24,16).

Qualche capitolo più avanti, si parla di un’altra generazione alla quale Dio concede di imparare dagli errori dei padri e delle madri. Una generazione alla quale si rivela nuovamente, con pazienza rinnovata. Uomini e donne come chi li ha preceduti, che però scelgono di vivere quella vita che Dio mostra come possibile e che fa bene non solo a chi la vive, ma anche a chi sta vicino.

Dio non chiede altro all’essere umano, che resti umano!

Né Dio, né verme. Solo e semplicemente umano.

Non si allontana da quella generazione perché poco “santa”, ma perché uccidevano delle persone. E, come spesso accade, la violenza genera altra violenza. L’ingiustizia altra ingiustizia. E Dio non tollera né sangue, né ingiustizia, né la strumentalizzazione del suo Nome per far fare festa al popolo quando ci sarebbe prima da convertirsi.

Fermiamoci un attimo, quindi, e facciamo memoria di ciò che la storia delle generazioni che ci hanno preceduto ci può insegnare, nel bene e nel male. Facciamo memoria, perché solo da una elaborazione critica del passato, possiamo iniziare a lavorare su noi stessi, sostenuti dalle promesse del Dio che viene.

Pensate agli eventi di questi giorni: cosa abbiamo imparato da venti anni di dittatura fascista? Cosa abbiamo imparato da decenni di corruzione? Cosa abbiamo imparato dalla storia di chiese che, per paura di perdere potere e visibilità, si schierano sempre dalla parte della moda religiosa o politica di turno?

Chiediamo a Dio la nostra conversione. Chiediamo a Lui che la sua presenza torni a regnare nelle nostre vite, nelle nostre relazioni e che, con Lui, possiamo tornare a portare frutto, e frutto in abbondanza.

Perché senza di Lui, senza la sua presenza, non possiamo essere nulla e non possiamo far nulla.

Amen

Marco Emanuele Casci
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