Sento tutte le mattine

Sento tutte le mattine il telegiornale – ormai anche io ho perso l’abitudine di leggere le notizie, persa nel disordine delle troppe cose da fare e da pensare – e forse anche per questo, che le notizie ormai si vedono per pochi minuti per poi abbandonarle alla digestione solo nei vari spettacoli di commento, ho spesso l’impressione di vedere un unico, lunghissimo film.
Un film di quelli all’antica: con i buoni che sono buoni ed i cattivi che si riconoscono subito dalla loro stessa faccia, ed ognuna delle due squadre segna punti senza mai arrivare a quello decisivo, tanto che alla fine la domanda che non voglio farmi – la domanda che nessuno di noi può farsi, perché le squadre giovano apposta in modo che non ce la facciamo, è: ma in quale campionato siamo? Quale coppa è in palio? – insomma un film in cui il finale non solo non si può immaginare, ma neppure si è sicuri che ci sia, che davvero ci sarà il fischio che manda tutti sotto la doccia. Insomma un film il cui scopo sembra essere solo quello di farci dimenticare del finale che ci aspetta – un film che alla fine nega il futuro costringendoci continuamente a concentrarci sull’oggi, anzi sull’adesso.
In questo film, la superficialità è quasi un dovere, perché fermarsi a pensare alle conseguenze può farci perdere tempo, ed il tempo è esattamente quello che non abbiamo.
Così, non importa se ci sarà gente che muore, se i porti vengono chiusi o le strade vengono lasciate senza manutenzione, o l’inquinamento consegna il mondo a uragani ed incendi. L’importante è che la squadra di quelli che dicono esattamente le cose che gli altri vogliono ascoltare segni un punto di più – magari convincendoci che a farci perdere il lavoro sono i migranti e non il potere nascosto e per questo inarrestabile che ci condanna a lavori precari pur di riuscire a pagare un’altra rata tra le tante che abbiamo da pagare.
Non importa se i bambini muoiono, fisicamente o nei social che li sfruttano, non importa neppure se ai bambini abbiamo tolto perfino l’infanzia costretti come siamo a proteggerli da tutto e a farne piccoli dèi cui nascondere il più a lungo possibile le difficoltà che dovranno prima o poi affrontare. L’importante è che un punto in più sia segnato dalla squadra di chi vende la consolazione precaria del “meglio che niente”, del “tanto così è e noi non possiamo farci nulla”, dell’ognun per sé e Dio per tutti.
Insomma non solo non pensiamo alle conseguenze di quel che facciamo, dei nostri pensieri, delle nostre parole, dei nostri silenzi, delle nostre opere e delle nostre omissioni (come si diceva un tempo) ma proprio non vogliamo pensarci: illusi forse che in questo modo le conseguenze non ci saranno, in una specie di politica planetaria dello struzzo, se fosse vero che gli struzzi nascondono la testa sotto la sabbia quando si trovano davanti ad un pericolo che immaginano più grande di loro.
Matteo 25, 36-46 ci racconta in maniera immediata e plastica quali sono le conseguenze di quella politica: gesti fatti senza accorgercene che invece sono prove di quel che siamo; azioni magari fatte per sentirci meglio con noi stessi che rivelano la loro inutilità quando è troppo tardi per cambiarne il corso, attenzioni che diamo inutilmente, distrazioni che ci rendono irrimediabilmente colpevoli di un egoismo che si rivela la nostra carta di identità.
Romani 8 e Apocalisse 2 ci dicono invece che, semplicemente, vivere come se il domani non ci fosse è sbagliato, perché il domani c’è, ed è di Dio: quel che aspettiamo non è una coppa, ma la corona della vita conquistata dal sangue di Cristo ma resa visibile solo con la perseveranza; ciò che ci attende, dice Paolo in Romani, ciò che dobbiamo riuscire a partorire nonostante i gemiti e il travaglio, nonostante tutto il dolore, la paura e la voglia di lasciar perdere, è la redenzione di ciò che siamo – ossia la vita che si può finalmente vivere libera dai giochi che illudendoci di farci vincere la paura di morire ci impediscono di accorgerci che la morte, in Cristo, non esiste più.
E la seconda Corinzi ci ricorda, come regola per la nostra partita, che certo, il domani esiste ed è messo al sicuro dalla Croce di Cristo; ma anche il giudizio c’è, ed è oggi: “Siamo dunque sempre pieni di fiducia, e sappiamo che mentre abitiamo nel corpo siamo assenti dal Signore (poiché camminiamo per fede e non per visione); ma siamo pieni di fiducia e preferiamo partire dal corpo e abitare con il Signore. Per questo ci sforziamo di essergli graditi, sia che abitiamo nel corpo, sia che ne partiamo. Noi tutti infatti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, affinché ciascuno riceva la retribuzione di ciò che ha fatto quando era nel corpo, sia in bene sia in male”.
Certo è un testo difficile – perché a prima vista sembra dire esattamente il contrario di quel che siamo abituati a sentire, e cioè che siamo salvati per fede, e che le opere non hanno alcuna utilità.
Ma quel che in realtà ci dicono queste parole è che, se possiamo ed anzi dobbiamo avere piena fiducia nella misericordia di un giudice che è Dio, ed è quel Dio che ha tanto amato il mondo da venire a vivere in mezzo a noi ed a morire sulla croce affinché credendo in lui potessimo essere salvati, ciò non di meno ciò che facciamo, le nostre opere, hanno un’importanza enorme: perché è con quelle che dimostriamo, prima di tutto a noi stessi, che siamo di Cristo; ed è dunque con le nostre opere – ossia con quel che facciamo o non facciamo – che ubbidiamo, o non ubbidiamo, al mandato che Cristo ci ha affidato, di annunciare la sua salvezza a questo mondo in cui viviamo.
In altri termini, certo il nostro peccato è stato perdonato, in Cristo e per Cristo. Ma il modo come viviamo questo perdono, su questa terra, è la cifra che ci separa dall’inferno o dal paradiso, su questa terra – dalla superficialità che porta ineluttabilmente alla assenza di speranza, oppure dalla piena coscienza della presenza di Dio nella nostra vita, che è la fonte di una speranza che non può venire meno.
Se tutto questo ci sembra un po’ troppo astratto per noi, pensiamo a quando Paolo scrisse queste parole, alla situazione in cui si trovava. La seconda ai Corinzi, c’è chi la vede come una lunga lettera unitaria, ma probabilmente è invece una specie di mosaico, le cui tessere sono state messe vicine ma non sono nate nello stesso momento.
La comunità di Corinto, la conosciamo per queste due lettere: una chiesa entusiasta nata dalla predicazione di Paolo, sicuramente innamorata di Cristo, sicuramente desiderosa di seguire Cristo. Ma umana. E forse anche un po’ immatura. Alcuni avevano preso fischi per fiaschi, e si erano convinti che al perdono di Cristo seguisse non la libertà, ma il libertinaggio, l’assenza di responsabilità. Altri avevano delegato la comunione in Cristo al futuro nel Regno dei Cieli, e preferivano, su questa terra, starsene per conto loro portandosi il pranzo da casa invece che prendere la stessa Cena e tutti insieme. Molti, se non tutti, erano ancora preda del demonio del giudizio: giudicavano i fratelli e le sorelle, lo stesso Paolo, giudicavano tutti tranne sé stessi. Insomma c’era del buono, ma era ben nascosto.
Vi ricorda qualcosa? Noi siamo così diversi?
Io non lo so. E non lo posso sapere, a che punto stiamo nel cammino della santificazione che ci è richiesta, non lo posso sapere neppure di me stessa – tra l’altro non è affar mio, perché il giudizio ed il domani, il futuro, sono solo di Dio.
Ma, dico a me stessa, e a chi vorrà ragionarci un po’ su, che dovunque io sia, è la mia vita – ossia quel che penso, faccio, dico o meglio ancora: quel che mi permetto di pensare, di fare e di dire – che segna dove sto. E poiché il futuro – ossia il domani, ed il giudizio, il tribunale di Cristo – arrivano, personalmente voglio che nel momento in cui tutto questo arriverà, io possa essere trovata occupata a vivere – pensare dire e fare – nel modo che piace a Cristo: occupata a ricercare la purezza del cuore, la mansuetudine, la misericordia; affamata ed assetata di giustizia desiderosa di portare la pace.
Lo desidero per me, lo desidero per ciascuno di voi, lo desidero per la chiesa in cui servo e per tutti coloro che amo.
Non perché io abbia paura di quel Tribunale, in cui so che abbiamo il migliore degli avvocati, Gesù. Ma perché sono consapevole che è solo vivendo come lui vuole, che potrò rendermi conto che le porte dell’inferno non prevarranno.
Che il Signore ci benedica, permettendoci di vivere la nostra vita – di fare, dire e pensare – secondo la sua santa volontà.
Amén.

Past. Giovanna Vernarecci

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