La memoria e l’indifferenza

Nei giorni appena trascorsi, in corrispondenza con la giornata della memoria, mi è capitato di rivedere una bella quanto inquietante puntata di Ulisse, la trasmissione di Alberto Angela.

In quella trasmissione viene raccontata, tra l’altro, la storia di quello che è stato chiamato il Binario 21 della stazione Centrale di Milano – un binario che in realtà non fu considerato all’epoca delle deportazioni neppure degno di un numero – forse perché il suo uso faceva troppo orrore per volerlo identificare, forse perché era meglio dimenticarlo, far finta che non esistesse.

Un binario che anche oggi non ha un nome né un numero, perché Binario 21 alla Stazione Centrale di Milano vuol dire solo, e maledettamente, il posto sotterraneo da dove gli Ebrei rastrellati da tutta Italia venivano fatti partire verso la loro morte, ed il loro sperato sterminio.

In quel luogo, il memoriale è stato affidato, tra l’altro, ad una parola scritta in rilievo, a caratteri cubitali, su tutta la parete – quella parole è “indifferenza”.

Ed in effetti, l’indifferenza – ossia la mancanza di reazione ad un evento – è ciò che ha segnato la condanna di molti, durante quei terribili avvenimenti storici: lo dimostrano le tante storie, fortunatamente, grazie a Dio, tante storie in cui coloro che non sono rimasti indifferenti a quel che stava accadendo hanno salvato le vite di molti.

Dell’indifferenza tra noi esseri umani hanno parlato molti: da anton Cechov, che la definì “la paralisi dell’anima e la morte prematura” a David Grossman, lo scrittore ebreo, che ne parlò definendolo “il male dell’epoca” e ne diede una spiegazione – non certo una giustificazione, credo – notando che “è difficile scegliere di soffrire”.

In realtà, anche senza bisogno di disturbare i letterati, tutti noi sappiamo che cosa è l’indifferenza; ma c’è ancora una cosa che, al riguardo, dobbiamo tenere presente, e cioè che l’indifferenza, per sua natura, non è mai “per caso.

Per rimanere indifferente verso qualcosa, devo necessariamente, almeno per una volta, almeno superficialmente, pensarci – per decidere che non mi interessa, cioè che non è qualcosa che riguarda me, che tocca me.

Per questo l’indifferenza fa così male – perché è la conseguenza di un giudizio, un giudizio di svalutazione.

Per questo l’indifferenza di Madre Natura – ossia dell’Essere Supremo – è così tremenda, così disperante, in quel dialogo di Leopardi che tutti abbiamo studiato a scuola, il dialogo tra la Natura e un islandese, che racconta le domande che l’essere umano fa a chi riconosce rivestito di potere – e delle risposte, anzi della risposta: quando io vi faccio del male, risponde la dea terribile, io neanche me ne accorgo, come non mi accorgo se vi faccio del bene, o del male.

Questo atteggiamento è esattamente il contrario di quel che la Bbbia ci mostra e ci dice di Dio- un Dio che non è il parto della fantasia di uno scrittore, ma è qualcosa di diverso da noi e con il quale interagiamo – quando decidiamo di non restare indifferenti a lui – che stende tutto il giorno le braccia verso di noi, come dice Isaia al capitolo 65 – ho steso tutto il giorno le mie mani verso un popolo ribelle, noi, che camminiamo per una via non buona, seguendo i nostri pensieri. Un popolo che rimane indifferente verso di me, il Signore, dicono di noi queste parole, e questo è poi in fondo – e neppure tanto – la fonte di tutti i problemi che abbiamo, potremmo dire “la madre” di ogni nostro guaio: la misura di quanto riusciamo a restare indifferenti a Dio.

Però, prima di vedere – contemplare, e ringraziare per – la reazione di Dio a quel che avviene a noi, vorrei che pensassimo insieme ancora un po’ a tutti i modi in cui riusciamo ad essere spaventosamente indifferenti gli uni agli altri.

Certo la mente corre subito a discorsi che siamo costretti a sorbirci tutti i giorni e che avnno dall’”aiutiamoli a casa loro” al “questa è una guerra, e in guerra i morti ci sono, non c’è nulla da fare, è la vita, bellezza”; alle donne uccise due giorni dopo che hanno sporto denuncia contro il loro persecutore che ha deciso di amarle troppo per lasciarle andare; ai morti sul lavoro per mancanza di sicurezza; alle violenze in famiglia, di cui nessuno si accorge mai, finché non ci scappa il morto.

Ma in realtà le facce dell’indifferenza sono infinite – magari non tutte mortali, per la vita fisica di chi ne subisce lo sguardo sinistro – ma quasi sempre devastanti per le vite che ammorbano.

Siamo indifferenti quando pretendiamo qualcosa, e non vediamo gli sforzi che sono stati fatti per noi, solo perché non vediamo il risultato che speravamo.

Siamo indifferenti quando non vogliamo accettare, come risposta, null’altro che un sì.

Siamo indifferenti quando allontaniamo ciò che non capiamo, invece che cercare di intenderne le ragioni e le possibili soluzioni.

Siamo indifferenti quando non cerchiamo soluzioni, ma solo modi per limitare i danni, in nome di una forzata sopportazione – quella che si chiamava un tempo “cristiana rassegnazione “.

E quando siamo indifferenti diamo origine a conseguenze. Magari anche piccole, sull’oggetto della nostra indifferenza, perché la dose di potere umano di cui ci è capitato di poter fruire è piccola. Ma sicuramente – fatalmente, disperatamente – quando restiamo indifferenti noi usciamo dalla sfera restando nella quale ci è concesso di dare testimonianza, di essere davvero a immagine e somiglianza di Dio: usciamo, infatti dalla sua presenza.

Nei mille discorsi che sentiamo tutti i giorni raramente, rarissimamente, capita di riconoscere l’esistenza, in chi parla o peggio bercia, dell’opzione “Dio”.

C’è chi usa l’Evangelo per tirare l’acqua al suo mulino (il Libro degli Atti insegna quel che accade a chi usa la Parola di Dio per il proprio tornaconto); c’è chi si schiera tra i buoni probabilmente un po’ cretini e chi si dedica a trovare tutti i possibili interessi personali che sporcano, o potrebbero/dovrebbero sporcare, l’azione dei suddetti buoni che, da “un po’ cretini”, diventano “molto corrotti”.

Chi non ha sentito, in occasione della chiusura del CARA di Castelnuovo del Porto, la litania dei costi che quella struttura aveva, e di come quei costi escono dalle nostre tasche (come se uscissero da altre tasche i costi della politica, di gran parte dell’informazione, delle infrastrutture con i ponti che cadono)?

La maschera del dio denaro ha nascosto, sotterrato, ammazzato a bastonate, il pensiero che nessuno, o quasi ha espresso, e che pochissimi hanno condiviso quando lo hannp scoltato: che aldi là dei costi e della eventuale corruzione di questa ed altre strutture, questa ed altre strutture sono il solo modo per non restare indifferenti alla sofferenza, alla debolezza, alla umanità di chi ci vive, o ci viveva dentro.

Dal punto di vista umano, si potrebbe dire che se la corruzione è la malattia, di solito la cura migliore non è ammazzare il malato.

Ma noi siamo qui, in una chiesa, perché crediamo in Dio. Perché Dio è il nostro Signore. Per noi il problema inaccettabile, disperante, è constatare che l’opzione “umanità” ha seguito l’opzione “Dio”, nel cestino della spazzatura.

I discepoli sono raccolti in una barca che, di notte, solca il mare di Galilea, il Lago di Tiberiade.

Il posto è pericoloso: il lago conosce improvvise tempeste, e la barca è poco più che un guscio di noce.

Nello stesso modo, la comunità dei santi, la chiesa dei credenti, naviga in un mondo in cui le tempeste che potrebbero inghiottirla possono venire da qualunque direzione.

La bufera si alza, infatti.

Le onde sono altissime e già riempiono la barca, che è in procinto di affondare.

A bordo, Gesù dorme.

Sembra impossibile, in quel caos spaventato e illuminato dalla luce livida dei lampi – guerre, uccisioni, fame, malattie – ma lui, dorme.

I discepoli vorrebbero che Gesù arrivasse come un supereroe e risolvesse la situazione. Forse vorrebbero convincersi che la sua sola presenza sulla barca sia sufficiente per preservarsi dalla tempesta.

Invece, lui dorme. E loro devono chiamarlo, pregarlo, invocarlo, ma non ti importa che noi moriamo?

Gesù, ossia la Parola di Dio, a quel punto interviene.

Come già all’inizio dei secoli, mette ordine e rimanda acque e venti là dove loro compete.

Poi, fa la domanda: ed è la domanda che rivolge a tutti noi, qui, stamattina: perché siete così paurosi? Non avete ancora fede?

Perché siamo così paurosi? Perché non abbiamo il coraggio di vivere ogni momento della nostra vita a partire dal criterio che ci è stato dato, quel giorno cge Dio ci ha chiamato per nome, e ci ha versato in grembo una misura scossa e ben pigiata, frlls fede in lui, da cui ha origine la nostra testimonianza?

Perché siamo umani, viene da dire.

Eppure questo lato oscuro della nostra umanità, è esattamente quello che Cristo ha reso cancellabile, superabile, con la sua morte in Croce per noi, e la sua Resurrezione come primizia di quella vita nuova che ha seminato nei nostri cuori e nei nostri cervelli.

Per vincere l’indifferenza del mondo una sola arma: vincere la nostra personale indifferenza.

Per vincere la nostra personale indifferenza, il Signore, quello stesso Signore che non è mai rimasto indifferente al nostro grido d’aiuto, ci ha dato un’arma potente: la nostra fede in lui.

Più forte – perché in realtà non è nostra, ma sua – di ogni tempesta.

Sia dunque , sorelle e fratelli, la fede nel Dio onnipotente, nel Dio mai indifferente, ciò che costituisce il punto di partenza di ogni nostro pensiero, di ogni nostra decisione.

Così gli saremo testimoni, fino al giorno benedetto e speriamo vicino, in cui tornerà per stabilire definitivamente il Suo Regno tra noi.

Amen.

past. Giovanna Vernarecci

 

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