Domenica 25 agosto è la giornata inaugurale del Sinodo 2019. Ogni Sinodo delle chiese metodiste e valdesi ha inizio con il culto di apertura, culto che è il momento centrale della vita di ogni chiesa evangelica. Nel culto, infatti, si sperimenta, si accoglie il dono del perdono di Dio, il dono della sua immensa grazia, la sua Parola.

Quest’anno il culto ha vissuto la consacrazione di tre nuovi pastori che hanno concluso il loro percorso formativo e superato l’esame di fede ieri.

A condurre il culto di apertura era stata designata la predicatrice locale Erica Sfredda, che ha aperto il corteo con i candidati e, a seguire, tutti i membri sinodali. Poco prima i tre candidati, Sophie Langeneck, Marco Casci e Nicola Tedoldi, avevano firmato, nell’aula sinodale, la Confessione di fede valdese del 1665

É la terza volta che il culto di apertura del Sinodo viene affidato ad un predicatore/predicatrice locale.

Erica Sfredda smuove immediatamente i cuori e le menti di quanti sono raccolti nel tempo valdese di Torre: «Cosa significa, concretamente, credere nella resurrezione dei morti?» partendo dal testo di Paolo Ai Corinzi 15, 12-19.

«Paolo si sta rivolgendo ai Corinzi, una comunità vivace e combattiva, un po’, verrebbe quasi da dire, come questa nostra Chiesa. E sarebbe facile, e anche bello, poter dire, a questo punto, che i Corinzi siamo noi, uomini e donne di chiesa, impegnati nella vita ecclesiastica, pieni di doni e di possibilità, magari un po’ agitati o conflittuali, ma sicuramente vivaci.

Sappiamo che la comunità di Corinto era formata in gran parte da credenti provenienti dal paganesimo, appartenenti a classi sociali ed economiche diverse, un po’ litigiosi e divisi in diverse fazioni. Si trattava di uomini e donne che vivevano con grande intensità la loro fede e che credevano che l’adesione alla Via dovesse concretizzarsi subito, nel qui ed ora, nella quotidianità. Insomma, una comunità ricca, vivace, piena di forza, una comunità che aveva fatto della fede la propria ragione di vita.

Possiamo dire la stessa cosa di noi e delle nostre comunità?»

Quanto anche noi, le nostre comunità vivono, credono, testimoniano nel nostro oggi, la resurrezione e la fede nella resurrezione.

Infondo, consapevoli o no, siamo parte di un ingranaggio all’Interno di un mondo di morte. Ingranaggi di morte, peccato,

Un ingranaggio che ci rende disattenti rispetto ai peccati del nostro mondo in cui siamo coinvolti: le tanti morti in mare, lo sfruttamento dei minori, i femminicidi e le violenze nelle mille declinazioni sulle donne.

Siamo corresponsabilità ciò che accade nel mondo e noi respiriamo continuamente la morte che ci circonda.

«La realtà è che spesso anche noi, membri di una Chiesa “impegnata”, viviamo, come direbbe Primo Levi, nelle nostre tiepide case, dimentichi, se non indifferenti, delle morti nel Mediterraneo, delle atrocità della Libia, delle crudeltà perpetrate nei tanti Paesi coinvolti in conflitti armati, ma anche distratti rispetto alle morti sul lavoro, all’inquinamento crescente, alla distruzione della stessa Terra. Tuttavia, non siamo soli, non siamo abbandonati a noi stessi: il Signore, col Suo Spirito, è al nostro fianco. Restituisce vita e dignità ai corpi martoriati e dona un senso alle nostre esistenze camminando accanto a noi, incontrandoci per strada, con noi attraversando le frontiere, con noi incontrando il dolore. Il Signore è anche la forza del nostro impegno, Colui che sostiene la nostra fragilità, quando più forte i nostri numeri minuscoli e la grandezza del Male ci fanno sentire impotenti.»

Ma dove la morte sembra prevalere e riempire tutti gli spazi della nostra vita, l’amore di Dio sovraabbonda.

La Parola, ci ricorda Sfredda,  «ci chiede di fondare la nostra esistenza terrena sulla resurrezione dei morti, evento incredibile che si pone ai limiti, anzi, oltre i limiti dell’accettabilità per l’umanità piena di buon senso, coi piedi per terra (…). Ci chiede di affidarci con gioia a Lui, l’Unico che può liberarci dal peccato che ci cinge e ci seduce, e che ci impedisce di credere nella resurrezione e dunque nella vita. Perché, ed è questo l’annuncio gioioso di questo pomeriggio, non siamo circondati solo dalla morte, ma anche dalla Vita, che nonostante tutto continua ad agire».

Un invito quello offerto dalla predicatrice a ritornare al centro, al cuore della fede. Un invito che é un richiamo, un impegno perché solo nel credere e vivere la resurrezione possiamo essere segno e speranza oggi.  Vita che continua ad agire.

Al termine della predicazione, si è svolto il rito della consacrazione dei tre nuovi pastori, culminato con l’imposizione delle mani da parte di tutta l’assemblea.

Hanno animato la liturgia il coro nazionale del Ghana in Italia, insieme alla corale e ai trombettisti della Val Pellice

Il testo della predicazione della predicatrice Erica Sfredda

Il Signore è risorto per ognuno e ognuna di noi

Letture Bibliche: Isaia 25,6-9; I Corinzi 15,12-19; Giovanni 14,15-20

Se non vi è risurrezione dei morti, neppure Cristo è stato risuscitato; e se Cristo non è stato risuscitato, vana dunque è la nostra predicazione e vana pure è la vostra fede(I Cor. 15,13-14)

…E vana pure è la vostra fede.” Parole nette e durissime, che ci lasciano senza fiato.

Ancora di più: Se abbiamo sperato in Cristo per questa vita soltanto, noi siamo i più miseri fra tutti gli uomini. (I Cor. 15,19)

I più miseri…

Ci viene la pelle d’oca. Nonostante il caldo. Paolo afferma che o si crede nell’incredibile, quasi inaccessibile messaggio della resurrezione dei morti o si cade nell’abisso del radicale scetticismo. Non si può essere credenti a metà, dobbiamo scegliere, siamo costretti a rispondere.

Eppure, verrebbe da domandarsi: possiamo mettere tanti fratelli e sorelle con le spalle al muro e affermare che chi non crede nella resurrezione dei morti ha una fede vana? Siamo disposti a rischiare di svuotare le nostre chiese sul tema della resurrezione dei morti? Siamo certi che in questa Europa che con forza si dichiara cristiana, ma che agisce così tanto spesso senza un briciolo di amore, abiti la fede nella resurrezione dei morti?

E cosa significa, concretamente, credere nella resurrezione dei morti?

Paolo si sta rivolgendo ai Corinzi, una comunità vivace e combattiva, un po’, verrebbe quasi da dire, come questa nostra Chiesa. E sarebbe facile, e anche bello, poter dire, a questo punto, che i Corinzi siamo noi, uomini e donne di chiesa, impegnati nella vita ecclesiastica, pieni di doni e di possibilità, magari un po’ agitati o conflittuali, ma sicuramente vivaci.

Sappiamo che la comunità di Corinto era formata in gran parte da credenti provenienti dal paganesimo, appartenenti a classi sociali ed economiche diverse, un po’ litigiosi e divisi in diverse fazioni. Si trattava di uomini e donne che vivevano con grande intensità la loro fede e che credevano che l’adesione alla Via dovesse concretizzarsi subito, nel qui ed ora, nella quotidianità. Insomma, una comunità ricca, vivace, piena di forza, una comunità che aveva fatto della fede la propria ragione di vita.

Possiamo dire la stessa cosa di noi e delle nostre comunità?

Temo che noi non siamo come i Corinzi, nemmeno noi che oggi ci troviamo qui riuniti, in questo caldo pomeriggio d’agosto. E non lo siamo, principalmente perché siamo corresponsabili di ciò che avviene nel mondo.

Siamo  corresponsabili perché la nostra vita quotidiana, il nostro benessere, il nostro stile di vita si nutrono proprio della morte che ci circonda. Dico una banalità se affermo che viviamo nel peccato, ma è davvero una banalità? Quante volte abbiamo il coraggio di usare questo termine, da molti considerato fuori moda, se non durante la confessione di peccato all’interno del culto? Eppure, come ha scritto Dietrich Bonhoeffer:

“se il peccato ha potuto essere vinto solo mediante la morte in croce di Cristo, esso deve essere una faccenda molto seria, anche se noi non ce ne accorgiamo”.

Ed in effetti, spesso, noi non ce ne accorgiamo: quante volte riflettiamo sulle nostre responsabilità? Non parlo delle affermazioni di principio, parlo della nostra vita quotidiana, della nostra vita privata, nella quale abbiamo a disposizione acqua, cibo, comfort. Non voglio apparirvi moralista, ma mi chiedo se riusciamo ad essere davvero consapevoli di essere parte di un ingranaggio all’interno di un mondo di morte. Un mondo che permette che i bambini siano abbandonati, o abusati: costretti a lavorare, a fare i soldati, a prostituirsi, o a diventare organi di ricambio per i ricchi. Un mondo che quotidianamente registra il maltrattamento, quando non l’assassinio, di donne, donne qualsiasi, comuni, che non vivono in Paesi in guerra, ma che sono le nostre vicine, le nostre amiche, le nostre sorelle, quelle che incontriamo quando facciamo la spesa o negli uffici postali, o quelle che non vediamo più, perché sepolte in casa.

La realtà è che spesso anche noi, membri di una Chiesa “impegnata”, viviamo, come direbbe Primo Levi, nelle nostre tiepide case, dimentichi, se non indifferenti, delle morti nel Mediterraneo, delle atrocità della Libia, delle crudeltà perpetrate nei tanti Paesi coinvolti in conflitti armati, ma anche distratti rispetto alle morti sul lavoro, all’inquinamento crescente, alla distruzione della stessa Terra. Tuttavia, non siamo soli, non siamo abbandonati a noi stessi: il Signore, col Suo Spirito, è al nostro fianco. Restituisce vita e dignità ai corpi martoriati e dona un senso alle nostre esistenze camminando accanto a noi, incontrandoci per strada, con noi attraversando le frontiere, con noi incontrando il dolore. Il Signore è anche la forza del nostro impegno, Colui che sostiene la nostra fragilità, quando più forte i nostri numeri minuscoli e la grandezza del Male ci fanno sentire impotenti.

Perché è vero che molti di noi non hanno dimenticato e non dimenticano la sofferenza che ci circonda. E’ vero che molti di noi sono impegnati a testimoniare la presenza di Dio nel mondo attraverso chiese e comunità che conservano con cura l’ambiente e il suo equilibrio, vivendo un’esistenza sobria, che cerca di tenere conto dell’esiguità delle risorse naturali e di rispettare le vite umane che ci circondano. E’ vero che la testimonianza come Chiesa, ma anche, spesso, come singoli, è vissuta attraverso progetti come Mediterranean Hope  o i Corridoi Umanitarie lavorando in prima fila in tante campagne per la salvaguardia dei diritti di quelle persone, di quei popoli, di quei territori che sono deboli, fragili, minoritari, maltrattati e depredati. È vero che abbiamo fatto spesso delle scelte coraggiose e controcorrente, così come è vero che in molte delle nostre chiese abbiamo la possibilità di vivere la benedizione di ECI, la benedizione di Essere Chiesa Insieme a uomini e donne che portano una storia e una cultura diversa da quella italiana, ma che hanno saputo arricchire le nostre comunità col dono delle loro specificità, la loro ricchezza umana e spirituale. È vero, dunque, che noi ci proviamo, e seriamente, a vivere una nuova esistenza, un’esistenza in cui sia evidente che è Dio che ci ha donato la vita. Un’esistenza nella quale la presenza dello Spirito Santo è tangibile, con la ricchezza dei Suoi doni e della Sua forza.

Ma lo stesso Paolo, poco più avanti, al versetto 32, ci ammonisce e ci mette in guardia dal facile senso di appagamento che possiamo sentire dentro di noi:

Se soltanto per fini umani ho lottato con le belve a Efeso, che utile ne ho? Se i morti non risuscitano, «mangiamo e beviamo, perché domani morremo».

Ci eravamo appena un pochino consolati, quando ecco che Paolo ci ributta nell’inquietudine. Non serve a nulla quello che stiamo facendo. Sì certo abbiamo dato il nostro contributo, abbiamo migliorato un poco l’esistenza di qualcuno, ora ci sentiamo anche noi meglio e più a nostro agio, ma dobbiamo essere consapevoli che se lo abbiamo fatto solo a fini umani è stato del tutto inutile. Paolo ci dice proprio questo: godiamoci la vita, se i morti non resuscitano è del tutto superfluo lottare con le belve in Efeso. Tanto vale mangiare e bere, perché tanto domani morremo.

Cosa vuole dire Paolo?

Vuol dire che non è il nostro entusiasmo, o la nostra capacità di riempire le nostre chiese, e neppure la nostra carica umanitaria a fare la differenza. Tutto questo è importante, anzi vorrei dire che è fondamentale, ma nasce dallo Spirito Santo e si nutre di una fede che è radicata nella morte e resurrezione di Gesù. Paolo afferma che possiamo creare un’associazione, un team, un gruppo che si impegna sui temi della salvaguardia delle persone e del creato, ma, se non crediamo nella resurrezione dei morti, non siamo una Chiesa, perché il cuore, il fondamento della nostra fede è che Cristo sia resuscitato dai morti. Se non crediamo in questo, allora la nostra fede è vana e non può resistere alle temperie in cui viviamo: un messaggio scomodo, faticoso da accogliere, difficile da accettare, ma l’unico necessario, ci dice Paolo.

E allora, che cosa possiamo fare, che cosa dobbiamo fare? Possiamo continuare a soccorrere i malati e gli afflitti. A compiere azioni anche bellissime. Ma con la nostra morte, tutto sarebbe finito. E il nostro premio sarebbe nella gratitudine di chi soccorriamo, nell’approvazione dei nostri amici, e, alla fine, in un bel funerale e in una lapide che ci ricordi ai posteri.

È una possibilità, ma il Vangelo di oggi viene a ricordarci che tutto questo appartiene alla nostra vecchia vita, viene ad annunciarci che il Signore “annienterà per sempre la morte” e che non saremo soli, che quando cadremo saremo soccorsi. Lo Spirito della Verità ci aiuterà a credere in quella che lo stesso Paolo ha definito una follia, perché è qualcosa di incredibile, di inaccettabile per il nostro pragmatico modo di pensare. In effetti, se ci riflettiamo bene, davvero tutta questa storia è una follia: come facciamo a credere che esista un Amore diverso dal nostro? Un amore totale, come quello che Gesù ci ha mostrato? Non ci viene chiesto troppo? Questa umanità di Gesù non è, in fondo in fondo, troppo poco umana per noi?

Ecco il punto: noi vorremmo, come i Corinzi, una fede alla nostra portata. Una fede umana. Noi vorremmo poterci sentire risorti qui, ora, all’interno dei confini che conosciamo, all’interno della concretezza che amiamo. Noi vogliamo un Dio che dopo essersi fatto uomo per tutti e tutte noi, sappia tornare ad essere Dio senza coinvolgerci. Vogliamo appunto un Dio che non ci chieda di uscire dai nostri confini. Un Dio che non ci destabilizzi.

Ma Paolo li  ci  inchioda: se Cristo era uomo, totalmente uomo, la sua resurrezione non è un fatto fuori della storia, non è un simbolo, né un episodio mitologico dell’epoca degli dei, ma una questione che ci riguarda da vicino, che ci riguarda proprio in quanto uomini e donne. Per Paolo, non è sufficiente credere nella resurrezione di Gesù, bisogna accogliere l’idea della nostra  risurrezione: la resurrezione di Cristo non è stato solo un prodigio innaturale, fuori da noi, un evento unico ed irripetibile, ma è l’Evento che irrompe dentro di noi, che segna tutta la nostra esistenza, materiale e spirituale, nei posti di lavoro e nelle nostre case, nei rapporti col mondo e con i nostri amici, nella vita e nella morte, perché Gesù è il primogenito dei risorti, “la primizia di coloro che dormono” (v. 20) e la Sua resurrezione è l’evento a partire dal quale la nostra vita colma di peccato finisce e ci è donata la straordinaria opportunità di rinascere ed essere uomini e donne nuovi. Senza alcun merito, senza alcun ruolo attivo.

E allora, se ci crediamo, dobbiamo tirare fuori dalle nostre confessioni di fede questa realtà che tutto trasforma e tornare a darle significato e concretezza. Perché se resta un’affermazione di principio affermata e non vissuta, sulla quale non abbiamo poggiato il nostro fondamento, la nostra fede è vana, cioè è morta, e quindi inutile.

Il Signore ci chiede di fondare la nostra esistenza terrena sulla resurrezione dei morti, su questo evento incredibile che si pone ai limiti, anzi, oltre  i limiti dell’accettabilità per l’umanità saggia, piena di buon senso, coi piedi per terra, per l’umanità a cui a buon diritto spesso apparteniamo anche noi. Ci chiede di affidarci con gioia a Lui, l’Unico che può liberarci dal peccato che ci cinge e ci seduce, da questa forza che ci accieca e che ci impedisce di credere nella resurrezione e dunque nella Vita, nonostante essa sia qui in mezzo a noi, nel nostro mondo e nelle nostre esistenze quotidiane. Perché, ed è questo l’annuncio gioioso di questo pomeriggio, non siamo circondati solo dalla morte, ma anche dalla Vita, dall’Amore che nonostante tutto continua ad agire.

La resurrezione di Gesù e dei morti non è provata né provabile. La possiamo solo accogliere per fede: ma, Paolo ci dice che essa è il cuore della nostra fede. Ciò che le dà senso e significato. E ci incoraggia ad avere fiducia e ad essere saldi, anzi incrollabili:

Perciò, fratelli miei carissimi, state saldi, incrollabili, sempre abbondanti nell’opera del Signore, sapendo che la vostra fatica non è vana nel Signore.

Amen!