Vanità

ECCLESIASTE 1:1-18

 

ECCLESIASTE  3:1-8

 

Cari fratelli e care sorelle,

oggi mi sarebbe piaciuto avere più tempo per poterci soffermare a leggere l’intero libro dell’Ecclesiaste, anche detto di Qoelet. Come sappiamo infatti si tratta di un piccolo libro biblico fatto di 12 capitoli che personalmente trovo che abbiano un contenuto molto bello e profondo. Purtroppo il tempo manca e alla fine ho scelto di soffermarmi su questi due passi, ma vi vorrei invitare a leggerlo al ritorno alle vostre case.

Qoelet o Ecclesiaste (dal greco) indica un oratore che pronuncia il suo sermone. Un sermone che fondamentalmente punta a cercare il senso della vita e delle fatiche umane. Quelle che ci si pone qui sono domande che ci toccano da vicino,  e penso che l’esperienza sia simile a tutti: prima o poi tutti  ci troviamo a confrontarci con il senso di quello che ci circonda. Nel primo passo che abbiamo letto la routine del mondo viene descritta molto bene, iniziando dal sole che sorge, finendo alle occupazioni quotidiane. Ma il nostro predicatore, parlando in prima persona, termina dicendo che tutto questo è vanità, lo definisce come un correre dietro al vento. E in effetti se ci pensiamo non ha tutti i torti: diversi sono anche gli altri passaggi biblici in cui si parla della precarietà della vita, pensiamo ad esempio a quel ricco epulone che quando ha ottenuto il necessario per poter vivere di rendita viene a mancare oppure ai Salmi in cui spesso si prega di saper contare i propri giorni. Quello che a mio parere salta all’occhio è che l’Ecclesiaste, parlando qui in prima persona, non fa altro che incarnare i dubbi umani.  E’ come se nella vita di tutti i giorni ci illudessimo di avere dei punti di riferimento stabili che poi però vengono meno come tutte le cose umane e solo allora iniziamo a interrogarci sul senso che attribuiamo a tutto questo.  Pensiamo ad esempio a quelle volte in cui abbiamo salutato qualcuno senza sapere che non lo avremmo più rivisto… Ci illudiamo spesso che ci sia una routine che non finisce mai e che le persone non ci lasceranno mai, salvo poi perdere tutte le nostre certezze quando inevitabilmente accade il contrario.

E ad esempio possiamo pensare a questi giorni con questa epidemia di Corona virus dove una nazione che sembra imbattibile d’un tratto si trova messa in ginocchio, oppure agli attacchi terroristici quando persone senza ne arte ne parte possono cancellare le vite di tanti altri esseri umani in pochi secondi. E ancora più in generale, oltre a quando succedono cose inspiegabili, abbiamo sempre davanti agli occhi la certezza di dover morire un giorno, sappiamo che volenti o nolenti il nostro tempo non è eterno.  Potremmo allora chiederci: che senso ha tutto questo?

Il nostro sermone però va poi avanti, questa volta l’oratore non parla in prima persona ma in generale ed elenca i tempi della vita. Ci sono delle antitesi che non pretendono di esaurire le situazioni umane, tuttalpiù di rappresentarle in maggioranza. Proverbiale è quella del vivere e del morire, ma anche rappresentative sono quelle del ridere e del piangere, del gioire e del fare cordoglio. Le altre è come se fossero proiezioni di queste: costruire e demolire, cucire e strappare, abbracciare e astenersi dagli abbracci. In generale, potremmo dire, la vita umana oscilla tra alti e bassi, tra momenti positivi e momenti negativi.

Tra questi due passi mi ha colpito la differenza di tono usata: il primo sembra una riflessione personale, mentre il secondo sembra una predicazione ispirata. E’ come se ci fosse il contrasto tra i nostri pensieri e i pensieri di Dio: da un lato l’uomo che si dispera per l’evidenza delle cose, dall’altro Dio che comunque ci chiama a vivere la vita. E io, fratelli e sorelle, mi sono chiesta come si concilia l’evidente precarietà dell’esistenza con questa chiamata e sono giunta alla conclusione che non dovremmo passare il tempo a disperarci, bensì a cogliere l’occasione che ci viene data: Dio vuole che la nostra vita sia piena, non una vita fiacca e arrendevole con la consapevolezza invalidante del nulla, ma una vita vissuta come protagonisti.  Noi abbiamo tutti una “data di scadenza” ma oggi siamo qui e dovremmo cercare di dare il massimo che possiamo e che ci è stato dato da Dio stesso in termini di risorse. E in particolare vorrei soffermarmi a parlare del nostro lavoro, in ottica prettamente evangelica. Dio chiama tutti noi a vivere e a tutti assegna una vocazione da svolgere per servire la società in cui viviamo. E credo che per rispondere degnamente a questa chiamata tutti noi dovremmo, nei diversi ambiti in cui ci troviamo a stare, fare il massimo, al massimo delle nostre possibilità per svolgerlo al meglio, ammesso che abbiamo avuto la fortuna di trovarlo il nostro posto nel mondo. Sappiamo infatti quanto si fatica oggi per trovarlo e soprattutto per mantenerlo. Comunque oggi  vorrei che ci soffermassimo a riflettere principalmente si questo: quante persone possiamo servire attraverso il nostro lavoro? E, meglio ancora, quante altre persone per colpa della nostra svogliatezza non abbiamo servito e magari hanno perso qualcosa?  Mi vengono in mente quelli che si occupano di pagare i dipendenti di una certa azienda… se loro dovessero scioperare o non aver voglia di lavorare non ne fanno le spese solo i dipendenti ma le intere famiglie e, per via indiretta, anche l’economia del paese. Alcuni di voi sanno che ho iniziato da poco un nuovo lavoro, ora mi occupo di persone che hanno compiuto reati e che sono prive di libertà. Per me è ancora più evidente di prima quanto sia importante anche una semplice telefonata, come si può fare la differenza. E questa è anche l’etica della responsabilità in ambito evangelico, anche se la nostra vita finirà dovremmo agire sempre consapevoli di ciò che deriva dalle nostre azioni. Credo che la volontà di Dio, come diceva anche Calvino, sia che diamo il massimo in esso per esprimere la vocazione che Dio ci ha dato. Questo purtroppo manca nel nostro paese, l’idea che con il nostro lavoro possiamo servire qualcuno, ecco perché le cose funzionano molto male. Se le persone si rendessero conto del bene che possono fare attraverso il loro lavoro, le cose, sono convinta, cambierebbero senz’altro.

Dunque se le nostre vite procedono tra alti e  bassi, tra momenti tristi e momenti più felici noi possiamo sempre essere consapevoli che Dio ci ha chiamati a vivere, ci ha dato una missione ed è con noi e ci accompagna e che dunque non è vano il nostro esistere.

Preghiamo affinchè diveniamo consapevoli della presenza di Dio in tutti i momenti della nostra vita e affinchè impariamo a rispondere responsabilmente alla chiamata che ci viene fatta.  Amen.

Francesca Agrò

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