Che cosa lasceremo alle giovani generazioni?

Il futuro della chiesa: serve più attenzione alle persone che al mantenimento delle strutture

di Letizia Tomassone

da Riforma

(Riprendiamo con l’intervento di Letizia Tomassone il dibattito avviatosi sul n. 47/2019 da Davide Rostan, al cui articolo sono seguiti gli interventi di Alessia Passarelli (n. 6), della Ced/I Distretto (n. 7) e del pastore Peter Ciaccio (n. 11). Riportiamo come al solito, qui di seguito, le domande che la Tavola valdese aveva posto come stimolo di discussione alle chiese.
1. Quali sono, nella nostra struttura organizzativa, le maggiori difficoltà da gestire; quali gli elementi di maggiore pesantezza e inefficienza? 2. Quali sono, invece, gli elementi che funzionano meglio o ulteriormente da valorizzare per uno sviluppo positivo? 3. Che cosa si ritiene essenziale preservare come principi fondanti della nostra organizzazione ecclesiastica? 4. Quali mutamenti positivi (opportunità, potenzialità) si registrano, all’interno della Chiesa e della società, rispetto ai quali l’attuale organizzazione ecclesiastica appare non adeguata? 5. Quali elementi dell’organizzazione ecclesiastica andrebbero revisionati, modificati, adattati per potere cogliere al meglio queste opportunità e sviluppare le potenzialità presenti)

In questo periodo di chiusura fisica tutte le chiese hanno espresso notevoli capacità creative nel dare forme nuove ai culti e ai momenti d’incontro. La Parola è tornata di prepotenza al centro delle nostre riflessioni e abbiamo diffuso tra noi e su tutti i social una grande ricchezza di riflessioni, che ci fa capire quanto ancora la Scrittura sia centrale nel guidare la vita dei singoli credenti nel mondo protestante. Ma che ne è delle nostre strutture? Culti e commissioni di ogni tipo si sono trasferite sulla rete. Ma quanto ci mancano, già prima delle loro date, le nostre assemblee regionali e nazionali! Alcune si terranno comunque online, altre sono rinviate al prossimo anno.

Ci manca quella dimensione collettiva della chiesa che è fatta di incontri e dialoghi, di uomini e donne, amici e amiche, persone che stimiamo per quanto fanno e scrivono. È quasi sempre insieme, nel confronto, che facciamo emergere il nostro pensiero teologico e la forma della chiesa. Ci manca la discussione, l’elaborazione comune del pensiero, quel crescere nel dibattito che ci fa arrivare a prese di posizione comune, alla costruzione contrastata e sempre in movimento del nostro essere chiesa.

Ragionare oggi su ciò che ci manca di più ci può aiutare a capire come orientarci e su che cosa dobbiamo investire per il futuro. E ragionare su ciò che ci caratterizza, la lettura attenta della Parola, ci aiuta a capire cosa è essenziale e irrinunciabile della nostra identità oggi. Una identità definita da Cristo, dalla vocazione che riceviamo, dal confronto con una parola altra.

Lasciare a chi viene dopo la passione per la Parola è ciò che mi pare oggi essenziale. Parola ascoltata, letta e riletta. Sfrondata delle sue caratteristiche patriarcali o schiaviste, reinterpretata. Parola con cui scontrarsi per capirne il nocciolo di luce. Però resta che se siamo capaci di dire e ascoltare la Parola, siamo meno efficaci nel trarne le conseguenze dirette per il presente. Siamo timidi o forse mediocri, le fughe in avanti non ci piacciono perché appaiono spesso come estremiste. Abbiamo tra noi voci importanti, a volte profetiche, che si perdono però quando si tratta di decidere e prendere una parte nella società.

Da quando abbiamo imparato a incontrarci online, a rispettare i tempi di parola, a non viaggiare per poter avere una riunione di comitato, abbiamo fatto un grande balzo nella società digitale. Con i viaggi sono venute meno di colpo alcune delle pesantezze della nostra struttura, quella dei tanti Comitati, Consigli e Commissioni. Sono venute meno stanchezze, pesanti impronte ambientali, spese collettive e individuali. Eppure ci resta il disagio non solo di non poterci vedere intorno a un tavolo (con le mascherine non sarebbe meglio, e abbiamo imparato a fare due chiacchiere anche su zoom prima di iniziare le riunioni formali), ma di dipendere da un sistema di rete su cui abbiamo ben poco controllo e che monitora tutti i nostri incontri, non potendo più monitorare i nostri spostamenti. Per non parlare del digital divide che esiste anche fra noi, nelle nostre case, a seconda di dove abitiamo e di quanto potente o debole è il segnale con cui comunichiamo.

Questo lasceremo alle generazioni che vengono? Una dipendenza dai mezzi di comunicazione che farà a meno dei corpi? Non siamo attori, e dunque il fascino dei nostri incontri o culti online dipende molto dal fatto che già ci conosciamo e che ci dà gioia ritrovarci, seppure in video, e riconoscerci. Non le nostre performance ma le relazioni che ci tengono insieme costituiscono la forza maggiore di questo nostro tempo.
Che cosa dunque ci pare così essen

ziale da lasciare a chi viene dopo di noi? E come vorremmo essere ricordati? Come la generazione che ha fatto a meno di un Sinodo annuale? Tante chiese già ora hanno dei Sinodi che durano meno giorni, non hanno cadenza annuale, raccolgono meno deputati. Certo per noi il Sinodo è festa di popolo e occasione di incontro, e siamo campioni nel sostituire ad assemblee decisionali altri appuntamenti meno pesanti ma ugualmente impegnativi. Dunque saremo la generazione che ha cambiato il modo di incontrarsi? Per forza di cose, fino a che la convivenza con il virus continua. Ma anche per passione, se consideriamo ormai matura la riflessione sulle diverse forme del nostro riunirci in assemblea. Le nostre chiese sono tutte organizzate in modo collegiale. E in questo oggi scontano il limite di una certa lentezza nel prendere decisioni e posizione, nel fare dichiarazioni che se tardano a venire diventano ininfluenti nel flusso continuo di comunicazione rumorosa che ci fa da sottofondo.

Credo che dobbiamo lasciarci spingere di più dall’urgenza della condizione delle persone che soffrono, e meno dai vincoli della nostra collegialità. Dobbiamo uscire dal timore di tirare le conseguenze che vediamo della nostra fede, timore spesso dettato dal non voler spaccare la chiesa, ma che finisce per non farla neppure dialogare e confrontarsi.

Viviamo un tempo che necessita decisioni forti. Esprimere posizioni forti permette alla chiesa di discutere, crescere, confrontarsi con un evangelo che si fa vita e anche struttura. La profezia dovrebbe entrare un po’ di più nella nostra chiesa, nella forma di prese di posizione decise a favore degli ultimi, e del pianeta. La profezia e la poesia, come dice Walter Brueggemann, che possono trasformare la realtà.

 

 

 

 

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