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Farsi prossimo

Care sorelle e cari fratelli, dovrete sopportarmi in questi minuti in cui cercherò di riflettere insieme a voi partendo dal nostro servizio e dal brano scelto per oggi.

“Non ho tempo per avere fretta”. Questa la frase di Wesley che campeggia sulle nostre magliette, e che mi sembra adattissima oggi, insieme alla canzone scritta da Giorgio Gaber negli anni 70 “C’e solo la strada”, che recitava che bisogna ritornare nella strada perché in casa ti allontani dalla vita, dalla lotta, dal dolore e dalle bombe.

Tempo Fretta Strada.

Veniamo al nostro brano. Un italiano stava scendendo dalla stazione Termini verso piazza Venezia. Arrivano degli uomini e gli chiedono dei soldi; al diniego lo riempiono di botte e, rubandogli tutto, lo lasciano moribondo sul ciglio di via Nazionale. Passa un sacerdote, un pastore, un rabbino lo vede e passa oltre. Passa una suora, un diacono/a, lo vede e passa oltre. Passa un uomo di colore (un extracomunitario, oppure un rom, un disabile, anche qui mettiamoci la categoria che preferiamo), lo vede, si commuove e si ferma. Ecco una nelle migliaia di possibilità che racconterebbe forse oggi Gesù se camminasse e predicasse nella nostra Roma.

Il nostro brano, che inizia con una discussione teologica molto usuale tra i rabbì del tempo di Gesù, si potrebbe dividere in quattro scene.

“Si alzò” dice Luca. Domanda per avere una risposta o per mettere alla prova Gesù, quasi per sfidarlo? I nostri rapporti, le nostre discussionisono per crescere insieme o solo per mettere in difficoltà l’altro?  Gesù non cade nella trappola e mischia le carte, e distruggendo le certezze della prassi consolidata,  preferendo il piano morale a quello cultuale: alla giustizia della religione antepone un’altra giustizia, quella perla persona.

In alto c’è Gerusalemme, con le sue mura sicure,  la certezza di essere la città di Dio, protetta, bella, dove la presenza di Dio si palpa. Molto più giù c’è Gerico, pensate ad un dislivello di oltre 1000 m, la città dove risiedevano moltissimi sacerdoti. La strada tra le due città è aspra, desertica, piena di imprevisti e pericoli. Un uomo scende…

Scende dalla città di Dio alla città degli uomini. Una strada che da Dio porta lontano da Gerusalemme, porta verso la testimonianza verso l’uomo. L’uomo che scende non ha aggettivi, non è descritto. È un uomo e basta.

Chi era? anzi, chi è? Chi è oggi? Non ha nome, non ha una carta d’identità (tanto meno il samaritano gli chiederà documenti). Non un segno per sapere chi fosse, anzi chi sia, chi è. Poteva essere,  può essere, è un ebreo o un palestinesi; un ragazzo o un vecchio, un ricco o un povero, un onesto o un disonesto; può essere un bianco, un nero, un europeo, un americano, un cinese; può essere un cattolico, un evangelico, un musulmano… Può essere perfino un brigante anche lui; un assassino… Ma è sempre un rischio fermarsi non ad aiutare ma perfino a guardare.

Questo uomo che scende è uno dei tanti compagni di strada del Breakfast Time che dormono nelle vie vicino al nostro tempio.

Di quest’uomo non si sa il nome e il cognome, ma in compenso abbiamo molti particolari; un incalzare di note, una più grave dell’altra: spogliato, percosso, abbandonato, emarginato. È il Vangelo a dire “mezzo morto”, non mezzo vivo: un Vangelo che tende al peggio.

Un uomo: uno dei tanti uomini spogliati, percossi, umiliati, sfruttati, offesi, morenti, abbandonati ai margini della cosiddetta civiltà, ai margini delle grandi arterie della vita, delle organizzazioni criminali dei barconi, dell’industria, del commercio illegale delle nostre vie; abbandonati al limitare del deserto o nei lager libici; o ricacciati indietro verso i loro aguzzini. Un uomo di molti uomini; centinaia di milioni di indiani, di africani, di asiatici, di cinesi.

Il secondo momento è il penoso spettacolo della durezza, della indifferenza del sacerdote e del levita. Che camminano, vedono e passano oltre. Vedono con uno sguardo vuoto, con negligenza. La loro indifferenza è la nostra di fronte a molte situazioni. È la nostra immagine. Vediamo e passiamo oltre. Per rispettare una legge, per la fretta, perché guardiamo senza osservare, perché……

Non osserviamo perché la fretta ci impedisce di osservare.

PIGRIZIA, INCERTEZZA, INERZIA, TIMIDEZZA, PAURA, NEGLIGENZA

Queste sono le parole che fanno da sfondo all’atteggiamento del sacerdote e del levita. Sono le stesse che incontriamo camminando sulle strade della nostra città. Parlando tra noi, alcuni hanno condiviso la stessa preoccupazione: paura ad incontrare i “barboni”. Paura. Io stesso, quando con Luciano abbiamo proposto il servizio, avevo una grandissima paura. L’uomo della strada era stato per me sempre un tabù. Un pericolo, uno da aiutare, ma a debita distanza. Quasi da non toccare, figurare parlarci, fermarsi.

Tra il gesto criminale e l’aiuto del samaritano c’è un intervallo temporale importante: è il momento dell’egoismo del sacerdote e del levita che passano oltre. Questo atteggiamento è di ognuno di noi. Pensiamo a quando incontriamo dei barboni, dei neri, dei rom, delle persone sporche, con malattia della pelle, che puzzano.

Passare oltre:

per indifferenza …. Non mi interessa;

per fretta ….Devo fare cose più importanti;

per paura….. Cosa dirò, cosa farò.

 

Trovare una scusa è la cosa più semplice.

Passare oltre perché tante cose sono più urgenti, importanti. Più importanti di Ivan senza stampelle, dell’americano senza pantaloni, o di Christine senza vocabolario, di Agrid che ti fa un favore a prendere i nostri panini, ed oggi per la prima volta li ha rifiutati.

La fretta della società di oggi è la modalità del non fermarsi. Tutto è già vecchio appena lo leggo o lo scrivo, o lo posto sui social. Tutto vale un attimo sui social o nell’universo web.

E ciò che nella “non fretta” andrebbe coltivato diventa difficile, complesso, da aver paura, compresi i rapporti tra persone che hanno bisogno di tempo, di calma, di vissuti da condividere e sicuramente non di fretta.

E la fretta crea troppe volte rapporti anonimi, lontano dai sentimenti e dai vissuti.

Una delle cose belle del nostro giro è il fermarsi, e dopo alcuni mesi, parlare, chiedere un semplice come stai, è un fidarsi loro di noi e noi di loro. È un non passare oltre al prossimo senza fissa dimora perché ho due-cinque minuti a persona.

Farsi prossimo è creare  relazione. Ma una relazione  necessita di tempo.

Noi non abbiamo fretta, non abbiamo l’orologio che detta e che impone, che ci rende frenetici. Abbiamo tempo per loro, ma soprattutto per noi.

Ancora le frase di Wesley allora: non ho tempo per avere fretta.

Nella fretta del sacerdote e del levita c’è anche un’altra realtà: la paura di impegnare la propria persona.

Come ricordavo prima, la paura anche nel nostro Breakfast Time in molti di noi c’era. Paura nel non sentirsi capaci di relazionarsi con l’altro sconosciuto. Ma abbiamo vinto la paura, le pretese possessive, verso solo ciò che ci piace, che non costa fatica, che impone il fermarsi e sprecare tempo. Paura di impegnarsi in prima persona.

Noi questa paura l’abbiamo vinta. Nella consapevolezza che non puoi risolvere la povertà nel mondo, il problema degli alloggi, del lavoro per tutti ecc. ecc.Possiamo cambiare la vita di queste persone? No, ma possiamo “curare” e far curare. Infatti cerchiamo di indirizzare e dare indicazioni utili. Ma non potremmo mai risolvere. Anche perché molti di loro forse neanche lo vogliono.

Terzo momento: è carico della parola “fu mosso a compassione”. Che letteralmente nel vangelo di Luca indica l’essere preso alle viscere, come un morso, un crampo allo stomaco, uno spasmo, una ribellione, qualcosa che si muove dentro. È il cuore e la pancia. È la com-passione, è la passione con, insieme, è la commozione attiva, è la pietà, non il pietismo, è la Carità, non l’essere caritatevole alla Teresa di Calcutta. Non solo i buoni sentimenti, ma il dinamismo. Il samaritano passa con sguardo attento e risponde con l’azione.

I cammini del sacerdote, del levita e del samaritano sono gli stessi: solo che i due sono in compagnia di loro stessi e di un Dio-legge, l’altro invece è in cammino attento. L’attenzione ci fa aprire a nuove esperienze, ci fa nascere domande. Lui fa esperienza sul valore della persona, e questa esperienza gli dischiude nuove potenzialità relazionali e lo ha spinge a farsi prossimo.

Il samaritano è l’opposto dei due personaggi precedenti. Non va al tempio di Gerusalemme, non può; non ha paura di contaminarsi, perché per un ebreo osservante lui è già immondo in quanto samaritano.

Egli, emarginato religiosamente, non ha preoccupazioni cultuali. È capace di essere umano, di rimanere umano e provare compassione.

Quanto è difficile oggi rimanere umani. Basta guardare quello che accade intorno a noi. Momaude o la ragazza sul treno Milano-Venezia. Non ci indigniamo più neanche. Sommiamo i casi in una assuefazione che ci fa essere meno umani volta per volta.

Il samaritano nell’incontro e nella cura diventa più umano, anzi resta umano. La società, se ci lasciamo avviluppare, vincere da lei, ci rende meno umani. Pensiamo alle nuove politiche per le migrazioni, pensiamo alla società che sta distruggendo il creato, dono di Dio. Pensiamo alla logica del furbo. Ma soprattutto alla lenta infezione del silenzio di fronte alle piccole o grandi furberie. O ai germi di razzismo che stanno lievitando.

Il samaritano invece si fa prossimo perché si avvicina, si approssima, sana come se fosse se stesso, non bada alla fede, alla nazionalità, allo status sociale.

Quarto momento: il samaritano si prende cura, fascia le ferite nel presente e nel futuro. Non  abbandona il ferito al proprio destino. Prendersi cura è non fermarsi al presente, ma cercare di cambiare il futuro.

Se sono salvato e amato, non posso che vivere questo amore e questo bene, questa salvezza nel mio mondo, nel mio territorio, nelle mie relazioni vicine, prossime.

Se poniamo questo brano in relazione con Mt 25 una cosa che colpisce è che Dio non chiede quanto mi hai amato, quanto hai pregato, ci chiede come il suo amore, la sua salvezza sia stata condivisa con l’uomo e la donna vicino a noi. Non è il quanto che salva, ma il farsi prossimo perché siamo amati e salvati.  Il brano di Luca ci pone non tanto la domanda chi è il mio prossimo, ma chi si è fatto prossimo. Gesù ribalta il tutto in un gioco: certo, il derelitto è il mio prossimo, ma io sono capace di farmi suo prossimo?

E farsi prossimo è avvicinarsi all’uomo e alla donna con la stessa “tenerezza” di Dio, sincera e operosa. Anche piccola all’inizio, perché è un cammino di crescita. Non è che oggi decido di farmi prossimo.

Nel farmi prossimo grido, mi indigno, denuncio, condanno le ingiustizie, le violenze, le povertà, in una parola il non amore.

Una bellissima cosa nel nostro Breakfast Time è l’assenza di delega. Che bravi che siete, continuate anche per noi. Vi deleghiamo, rappresentate la comunità.

Tutto questo non credo che l’abbiamo vissuto o sentito. Almeno io no, anzi ho respirato il contagio continuo di fratelli e sorelle che, anche se non possono venire, si sono interrogati su come essere prossimi insieme a noi. Come farci sentire che ci sono anche loro. E vi confesso che sentiamo che non siamo delegati vostri, ma siamo noi tutti insieme a fare questo. Ognuno con le proprie possibilità.

In un momento in cui il disinteresse per chi è in difficoltà è un leit motiv della nostra società, dove le guerre tra poveri è sono un arma sociale per conquistare visibilità e voti, abbiamo riflettuto che il nostro no era rispondere I care. A non è un mio problema, non possiamo accogliere tutti, non possiamo aiutare chi vive in strada ecc, noi abbiamo cercato di rispondere I care. Mi stai a cuore, è un mio problema perché sei mio fratello e mia sorella. I care è farsi prossimo.

Non chiediamoci quindi chi è il mio prossimo, ma chiediamoci a chi ci approssimiamo. Essere prossimo dipende da noi. Ed essere prossimo di qualcuno ci fa comunicare vita. Nel senso più piccolo: un sorriso, una parola, far sentire l’altro soggetto della mia relazione, non oggetto. Senza chiedere nulla in cambio, senza aspettarsi neanche un grazie, che però viene quasi sempre offerto.

L’incontro tra noi e con loro. Non come slogan bello, ma come vita vissuta. C’è chi non vuole parlare, chi ti vuole raccontare tutta la sua vita in tre minuti. Chi dorme e lasciamo lì e andiamo via. Chi ti guarda con meraviglia. Chi ti benedice non per il sacchetto ma perché vuoi incontrarlo come persona,  perché lo rendi importante e degno di un incontro. O la trans sudamericana che ti chiede un parrucchiere per essere bella per il suo compagno, alcolizzato che vive accanto a lei a cui sistema maglia e capelli e lo bacia teneramente.

E farsi prossimo è creare un rapporto di reciprocità. Perché noi non diamo soltanto, ma anche riceviamo, in termini di doni spirituali:

  • innanzi tutto i nostri amici ci insegnano l’ umiltà.  perché ci dicono dei no: a volte rifiutano il cibo, a volte disprezzano quello che diamo loro, chiedendo qualcosa di diverso, o fanno gli schizzinosi, pregandoci, ad esempio, di non toccare il bicchiere con le nostre mani. Ci rimaniamo male: perché? Perché diamo per scontato che il nostro buonismo deve essere apprezzato, ci sentiamo superiori, ma loro ci riportano su un piano di parità.
  • la solidarietà. Queste persone, che vivono nell’indigenza e hanno bisogno di tutto, hanno un pensiero per gli altri: per la compagna che sta mendicando altrove, per l’amico che si è allontanato. Sono pronti a condividere.Si accontentano di quello che diamo, non si approfittano, non chiedono denaro
  • infine la serenità. Queste persone non sono arrabbiate col mondo, non si lamentano, non piangono, non cercano di impietosire col racconto dei loro guai: sorridono, ringraziano, ci benedicono, ci augurano buona domenica, ci trasmettono una serenità interiore che non ha prezzo.

L’amore di Dio che ci riempie, ci renda disponibili ad imitare, a donare, a testimoniare l’amore scoperto, riconosciuto e vissuto.

Amen

 

Fabio Perroni

Ietro e Mosè

Care sorelle e cari fratelli nel Signore, questa mattina abbiamo letto e ascoltato il racconto del capitolo 18 del libro di Esodo.

Questo capitolo ci ricorda la visita di Ietro a Mosè; lo scopo principale di essa era, in primo luogo, confermare che Dio è il più grande di tutti gli dei, così con un culto di ringraziamento il sacerdote offrì un olocausto, un’espressione di riconoscenza davanti a lui  per tutto quello che ha fatto per Mosè e per il popolo d’Israele a partire dalla sua liberazione dalla mano del faraone e degli egiziani.

In secondo luogo, dargli il consiglio di come doveva procedere nella guida di questo popolo. Mosè da solo, secondo Ietro non doveva amministrare la giustizia al popolo,  per ogni faccenda di ogni singola persona,  ma il suo compito specifico era di insegnare i decreti e le leggi alle persone riconosciuti CAPACI e TIMORATI di Dio, poiché per questo motivo potrà poi resistere, arrivando alla loro destinazione.

Immaginate questo racconto di un popolo nella quale ciascuno doveva cominciare a mettere a posto ogni cosa nella propria vita. Era fondamentale implementare la pratica di ordine a nome della buona convivenza, in rapporto con gli altri e su ogni cosa che poteva causare il disordine.

Dopo che il popolo si mise a camminare e finalmente fu liberato; cominciò ad imparare cosa vuol dire essere tale: “libero seguendo le leggi di Dio”.

Con la visita sacerdotale e il consiglio di Ietro  di Madian, Mosè non dovrà più amministrare la giustizia al popolo ma altri se ne faranno carico a patto che fossero stati capaci e timorati di Dio.

Quindi, sia che doveva amministrare un gruppo grande o uno piccolo, è necessario avere la capacità e il timore del Signore, il Dio più grande.

Qual è la prima cosa che doveva fare Mosè?

Egli doveva insegnare i decreti e le leggi di Dio(i comandamenti) a queste persone e riconoscere in loro la capacità e il timore in Dio prima di governare una migliaia, una centinaia, una cinquantina o una decina di persone. Il consiglio di Ietro era di incominciare a costituire e a informare loro ciò che dovrebbero fare per governare bene un popolo o un’intera nazione. La costituzione dei gruppi dai più numerosi ai più pochi era fondamentale nella pratica dell’ordine di convivenza di un popolo secondo il parere di Ietro, che fu consigliato a Mosè, suo genero.

Questo brano ci insegna che nel governare un popolo è necessario avere delle persone formate che hanno avuto una formazione uguale al primo eletto CAPO di tutti gli eletti come Mosè così che non si possa sbagliare sulle normi e sulle leggi di Dio. Questi eletti devono manifestare anche loro la capacità di giudicare, di risolvere i problemi di ogni singola persona  nella vita quotidiana. Questi uomini eletti da Mosè saranno quelli che dovranno prendere cura e decidere per il bene di ognuno. Le cause difficili devono arrivare al capo di tutti.

Nella lettera di Paolo ai Romani 13,1-7 si allude che loro sono le persone  riconosciute nelle chiese antiche, le  nostre  Autorità superiori, autorizzate ad esercitare un ruolo di giudicare ciò che è bene e ciò che è male. <<Ogni persona sia sottomessa alle autorità superiore, perché non vi è autorità se non da Dio, le autorità che esistono sono stabilite da Dio>>. Romani 13,1

Vorrei  leggere queste parole che ha scritto la nostra sorella Chica Vezzosi, un ordine del giorno appoggiato da tutti al termine della nostra Assemblea di Chiesa, avvenuta la domenica 14 ottobre 2018.

L’assemblea della chiesa metodista di Roma via XX Settembre, riunita il 14 ottobre 2018, rivolge richiesta formale all’OPCEMI, alla Tavola Valdese e alla FCEI di far udire con tutti i mezzi possibili – dalla stampa all’uso dei socials – la nostra voce di condanna assoluta per le gravi situazioni di crescente accanimento xenofobo che si stanno verificando nel nostro paese nei confronti degli immigrati, compresi i bambini (come ad esempio a Lodi e Monfalcone).

Non possiamo far passare sotto silenzio gli atti di discriminazione e di violenza non solo morale che ultimamente si moltiplicano nella nostra casa comune, addirittura fomentati dalle autorità che dovrebbero gestire le cose correttamente.

 

Noi abbiamo ricevuto le norme, le prescrizioni e le leggi di Dio. Noi siamo credenti in Dio, abbiamo il dovere di volgere verso di lui. La nostra coscienza non ci lascia tacere. Ci sentiamo un’enorme inquietudine quando si trascura l’insegnamento dell’amore verso il nostro prossimo. Quell’amore che sappia riconoscere che ogni  persona è da rispettare, dando il nostro sostegno per poter vivere in questo mondo, un compito di accogliere e di ospitare.

Ora le nostre autorità superiori in Italia rifiutano e limitano l’accoglienza agli immigrati, ai rifugiati e non solo. Questo forse avverte la loro incapacità di giudicare e la mancanza di timore a Dio?Se Dio ha creato il mondo, la terra è per tutti e non per un solo popolo.Forse ciò che ci manca ora è quell’insegnamento base che gli israeliti di allora, come popolo, ricevettero dal consiglio del sacerdote Ietro.I decreti e le leggi di Dio sono tutto in un quadro cioè è per tutto il mondo, valido per ogni nazione, così l’Italia, che è un paese come tutti gli altri, ogni uomo è libero di lavorare e di stabilirsi.

Certamente, ci vuole una formazione continua di ogni singolo individuo, di ogni categoria(classe, genere, ordine, tipologia).  Dobbiamo accettare e riconoscere che non siamo tutti uguali. Questo fatto ci mette in difficoltà ed è la crisi che stiamo affrontando.

Il popolo di Israele fu sottomesso e soggiogato dal popolo egiziano, ebbe una storia di cammino per lunghi anni nel deserto con esperienze di dura prova.Aveva avuto questo ricordo/memoria in passato perciò era raccomandato di non trattare male lo straniero, l’altro, il suo prossimo. <<Amate lo straniero anche voi foste straniero nel paese di Egitto>> Dt. 10,19 Le nostre autorità superiori, quelle che governano l’Italia ora, sono giovani(immaturi), non hanno avuto queste esperienze di difficoltà, non vi sono paragoni a quell’esperienza del popolo d’Israele nel mettere in ordine ogni cosa e ogni bisogno partiva dalla richiesta del sostegno materiale come acqua e/o cibo. La mancanza dell’insegnamento a causa dalle poche esperienze non fa crescere una persona, perché nella vita, è nell’incontro con le persone che si impara molto, soprattutto dalle esperienze dure e difficoltà nel risolvere i problemi legati alle situazioni concrete di tutti noi. Cittadini italiani, stranieri, immigrati, rifugiati ecc. ora si sono mescolati tutto in Italia perciò abbiamo una grande crisi da affrontare con coraggio e speriamo che il Signore Dio ci aiuti.

Ho sentito molto dire dagli italiani anziani che si erano dati da fare, avevano imboccato le maniche per avere tutto questo benessere di oggi, e le autorità superiori ora vogliono dire al suo popolo, ai suoi compatrioti che non c’è posto per l’accoglienza agli immigrati.Esercitare l’ospitalità per noi credenti in Dio a chiunque è fondamentale, noi crediamo che siamo tutti figli di Dio sparsi nel mondo.E’ difficile affrontare la nostra situazione di oggi in Italia perché c’è una scarsa conoscenza delle leggi di Dio e nella sua pratica, quello che aveva voluto che si facesse  per tutta l’umanità.L’Italia è solo una porzione di terra nel mondo così come tutti i paesi e vuole amministrare la sua giustizia in questo modo, tralasciando il compito, il dovere di tutelare e proteggere tutti i diritti umani.

Ieri sera abbiamo ricordato Martin Luther King, il suo pensiero d’uguaglianza degli uomini e delle donne come medesimi figli quindi fratelli nel Signore, ci accompagna tutt’ora.  Sono passati ormai 50 anni dalla la sua morte e noi vediamo o scorgiamo che nella nostra convivenza con gli altri siamo ancora in cammino a un altro tipo di percorso nel deserto.

Siamo chiamati ora a superare le nostre difficoltà di mettere in ordine o di trovare un modo di mettere in ordine il nostro vivere pregando Dio che è l’ autorità suprema, la nostra guida sicura.

Come chiesa evangelica metodista di via XX settembre dobbiamo fare la nostra parte.Che cosa? Dovremo impegnarci a trovare il modo giusto di affrontare l’argomento dell’essere chiesa insieme. Come vedete, con questa comunità rappresentiamo un elemento di questo paese e nel nostro interno abbiamo eletto degli uomini e delle donne capaci e timorati di Dio per governare la  chiesa del Signore.

Quest’assemblea di ottobre è un momento /un tempo dedicato per provare a individuare le piste da  seguire.In qual è  direzione vogliamo andare? Cercando sempre di trovare i modi e mezzi per arrivare ad un punto di traguardo.Nel discutere l’aspetto della vita della chiesa nel nostro chiamato “essere chiesa insieme” si è tentato di risolvere e di dissolvere nel nostro linguaggio le parole che ci portano a dividerci e distinguerci. Vogliamo essere chiamati la chiesa evangelica metodista di via XX settembre punto, basta.La nostra  comunità è una chiesa, ma per descriverla poi è inevitabile dire che ci sono i gruppi: dei filippini, degli italiani, dei cinesi, qualche fratello malgascio, coreano e altri che compongono ad essa.Nel nostro parlare, nel nostro linguaggio riferito all’essere chiesa insieme, è inevitabile l’uso di parole che ci distinguono e ci accomunano ma ricordiamo che la nostra comunione nella fede in Gesù Cristo è il primo che deve occupare la nostra mente e il nostro cuore quindi il nostro essere chiesa.Il nostro essere chiesa insiemeva vissuto mettendo e disponendo insieme i nostri talenti e doni spirituali.

Voglia il Signore benedire la nostra testimonianza di fede, di speranza  e d’amore. Amen.

 

past. Joylin Galapon

Confessate i vostri peccati

Care sorelle e cari fratelli nel Signore, domenica scorsa abbiamo rinnovato la nostra consapevolezza sull’esortazione / ammonizione dell’apostolo Giacomo ai fratelli di fede nel Signore(alla comunità di credenti d’allora)  di  essere immune dai favoritismi cioè di non avere un atteggiamento di riguardo personale nella comunità bensì di praticare e  di vivere il dono della  fede confessata in Cristo Gesù perennemente.

E oggi vorrei proporvi un altro brano che ha scritto lo stesso apostolo che penso sia utile per noi credenti nella vera pratica d’accoglienza e di fede per il loro legame stretto nel nome del Signore capo della chiesa.

La chiesa di Cristo Gesù, paragonata come un corpo umano dall’apostolo Paolo nella sua lettera ai Corinzi fu purificata, santificata e salvata per mezzo del figlio di Dio da ogni peccato per poi portare ed essere un mezzo di guarigione nel suo interno. La profezia del profeta Isaia si è avverata in Gesù il Cristo, il servo di Dio. Il capo è Gesù Cristo, il suo corpo è la chiesa con i suoi membri che siamo noi.

Nella lettera di Giacomo al cap. 5 versetti  da 13 al 16 il credente membro, appartiene al corpo, vive per esso, si alimenta/si nutre dai suoi simili è in perfetto collegamento da tutti.».Quando il corpo non viene alimentato bene si indebolisce, si amala perciò ogni membro del corpo deve avere la cura necessaria, il prendersi cura è il compito principale di tutti. Il suo alimento è fornito da tutti gli altri, e una volta che si scopre ciò che si fa star male, che lo rende debole, trova guarigione da un’altra parte del unico corpo.  Il pensiero di Giacomo qui sembra dirci che il membro malato, che fa parte del corpo, trova negli altri membri il modo di guarire per mezzo della preghiera e confessione dei suoi peccati. Fuori da Cristo Gesù e da questo corpo non c’è guarigione.  Nello stesso corpo che è di Cristo Gesù si trova la guarigione di tutti i membri. Perciò non è un membro solo, autonomo, non può essere solo nel portare la sua malattia, altri saranno presenti per essere di aiuto, di sostegno per rendere il corpo di Cristo Gesù sano. Questa è la chiesa.Nella profezia nel libro di Isaia al 53,da 1 a 5 troviamo la risposta del nostro capo espiatore, di colui che ha fatto tutto, che ha condiviso e compreso pienamente con noi ogni esperienza di dolore, di sofferenza e di peccato.

Se l’apostolo Paolo ha paragonato la chiesa come un corpo umano, le membra di questo corpo sono chiamate  con i loro proprio nomi(occhio, mano, piedi, orecchi..ecc. come Anna,Barbara,Catirina,Daniela cioè noi come membri di chiesa), con funzioni differenti per poter stare bene e dare una ragione e uno scopo di essere.

Per l’apostolo Giacomo diversamente e parallelamente ci porta allo scoperto profondo del nostro benestare essendoci l’uno per altro nella nostra vita spirituale.

Lui pone delle domande:

 C’è tra voi qualcuno che soffre? Preghi.

In altre parole si può dire: Chi soffre prega, sapete chi sta soffrendo nella comunità? Così, quando ti trovi nella situazione di dolore e in pena devi pregare in mezzo ai fratelli di fede. Altri possono pregare per te perché sono dati da Dio a tua disposizione.Voi fratelli e sorelle pregate per lui o per lei. Non dovete sentirvi da soli perché avete l’uno l’altro essendovi parte di un unico corpo.

C’è qualcuno di animo lieto? Canti degli inni.

In altre parole si può dire: Chi è felice canta, sapete chi è felice nella comunità? Lo è colei che canta inni di lode al Signore che lo appartiene.  Non solo canta un canto di lode, ma anche di lamento per essere guarito.

C’è qualcuno che è malato?Chiama gli anziani della chiesa che preghino per lui, ungendolo d’olio nel nome del Signore.In altre parole si può dire: Chi sta male fra voi?  sapete chi sta male in mezzo a voi fratelli e sorelle? Ci sono i fratelli nella comunità che devono pregare  Dio, ci sono i fratelli che invocano il nome di Dio per intercedere affinché sia guarito dalla sua malattia.

L’esempio del racconto dell’uomo paralitico che abbiamo ascoltato nella quale  4 uomini, forse erano i suoi amici, lo portarono a Gesù per essere guarito. Quanto è importante la preghiera di intercessione che rivolgiamo al Signore in questo senso.

Nella comunità di credenti c’è la soprabbondanza di benedizione perché ciascuno possiede il dono della guarigione. Ciascuno  ha avuto il dono della fede per risanare quel membro malato del corpo.E’ fondamentale che uno sappia anche dire o nominare la propria malattia senza nasconderla per non essere o non rimanere da solo a portarla.Per Giacomo dunque è fondamentale ricordare chi siamo noi per l’altro o per l’altra. La nostra confessione di fede qui sta nel nostro affermare che la nostra condizione di essere umana è tale e quale. Siamo tutti uguali e pari davanti al nostro Dio. Quando le nostre malattie sono confessate in maniera reciproca ci sentiamo sollevate, la esperienza di sofferenza e il dolore sono meno gravi, avviando così la guarigione perché non ci sentiamo più soli, non siamo più soli a portare il peso della colpa e del peccato, ma insieme nel portare quel peso di malattia che ci aveva tormentato continuamente. La preghiera della fede salverà il malato e il Signore lo ristabilirà; se egli ha commesso dei peccati, gli saranno perdonati.

L’apostolo Giacomo sembrava dicendo lo stesso che se dovessimo trovare in questa situazione di parlarne agli altri. Siate confessanti, fiduciosi perché ci sono i nostri fratelli simili a noi che comprendono, che esperimentano o che forse hanno già passato la stessa situazione; per sentirvi liberati, dite che cosa vi sentite, dite entrambi dove vi sentite manchevoli perché parlandone potete avere tra di voi delle risposte che porta al ristabilimento del vostro corpo. Non dimenticate che siete tutti nella stessa condizione ma nel tempo delle prove svariate vengono inaspettate,  preparative perché  questa è la vostra vita, è il peso da portare ogni giorno.

Quando uno/a si sente che ha peccato, che confessi per acquisire la guarigione.

Ogni preghiera, ogni richiesta di guarigione è esaudita in nome della fede confessata in Cristo Gesù.La fede vissuta in comunione con gli altri è la vita eterna che ha promesso il Padre del cielo e della terra, ridona la salute perché è la medicina(cura) di ogni malattia spirituale come di un animo turbato, di un senso di colpa, di un senso di imperfezione. La nostra fede in Dio è comunitaria perché si concretizza nel nostro stare bene insieme di fronte a Lui che si fa trovare sempre quando ci sentiamo di essere bisognosi di guarigione.

Nella liturgia domenicale, la parte dell’ordine del nostro culto, in cui c’è la nostra confessione di peccato comunitaria e pubblica, è necessaria per farci rendere conto che siamo tutti uguali peccatori davanti al nostro Dio e al nostro prossimo. Così anche l’annuncio del perdono è comunitario e pubblico, è necessaria per farci rendere conto che siamo tutti uguali peccatori perdonati,  graziati davanti al nostro Dio e al nostro prossimo.

I credenti nella liturgia domenicale condividono e riconoscono il peso da portare di quell’inadempienza, l’uno per l’altro, oppure la coppia dell’altro, poi entrambi sono uno e diventano perfetti perché appartengono al signore Gesù Cristo il loro redentore che li ha resi perfetti.Questo è l’evangelo per noi che abbiamo udito la voce del Signore e ci siamo ritrovati qui in questo tempio del nostro Signore. Confessate dunque i vostri peccati gli uni agli altri, pregate gli uni per gli altri affinché siate guariti; la preghiera del giusto ha grande efficacia.

Quando l’apostolo ha posto le domande ai credenti, egli sapeva che rischiavano di trascurare questo aspetto di essere confessanti peccatori perché avevano dimenticato del loro essere peccatori ma resi giusti. Così, essi potevano avere delle difficoltà di ammettere tali che in qualsiasi momento anche se erano forti nella fede la tentazione opera dello spirito maligno è altrettanto forte che entra in gioco come era stato nella vita di Giobbe.

Questi versetti della lettera di Giacomo, mi hanno fatto riflettere a lungo soprattutto è una benedizione per noi da ricercare perché  così possiamo esserci di aiuto uno con l’altro,

nella preghiera,

nella confessione

e nella remissione dei nostri peccati.

«Confessate dunque i vostri peccati gli uni agli altri »Secondo quello che dice la lettera di Giacomo, dovremmo essere in grado di confessarci a vicenda. Il vero senso di:«confessare i propri peccati » vuol dire non solo ammettere il peccato ma assumersi la piena responsabilità per il peccato commesso. Questo dato di fatto è illustrato molto bene nelle pagine della Bibbia dove c’è la descrizione del primo «peccato »dell’umanità: quando Dio chiede ad Adamo se avesse mangiato il frutto proibito, egli, invece di rispondere assumendo le sue responsabilità, dà la colpa alla donna e dice«la donna che tu hai messo accanto, è lei che mi ha dato del frutto….»Gen.3,12 e quando Dio pone la stessa domanda alla donna, lei dà la colpa al serpente e dice«il serpente mi ha ingannata e io ne ho mangiato…»Gen. 3,13. La colpa è sempre di un altro.

Spesso anche noi, facciamo cosìcome loro, riconosciamo di essere peccatori, ma la piena colpa è (la responsabilità) per quello che si è commesso non la vogliamo ammettere ci si scusa sempre con tanti ragionamenti e troviamo mille motivazioni per renderci meno colpevoli di quello che si è fatto in realtà. Ma confessando con consapevolezza e pentimento a Dio e al prossimo Dio perdona.

Questo significa che Dio perdona chi confessa umilmente i suoi peccati «Se egli ha commesso dei peccati, gli saranno perdonati »e di confessare i peccati l’uno all’altro, pregando l’uno per l’altro affinché siamo guariti.

Il peccato ci allontana da Dio ma Gesù come ha profetizzato Isaia è il nostro servo del Signore si è caricato le nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori e con la sua passione cancellerà tutti i nostri peccati tutto questo ha fatto per amore al fine di ottenere la nostra riconciliazione, il perdono e la salvezza. Gesù ci purifica con la sua misericordia infinita e ci restituisce alla comunione con il Padre e con i fratelli ci dona il suo amore, la sua gioia e la sua pace. Amen.

past. Joylin Galapon

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La fede e l’accoglienza

Giacomo 2,1-13

Care sorelle e cari fratelli nel Signore, oggi il lezionario  ci propone un brano che l’apostolo Giacomo ha voluto trattare nella comunità di credenti d’allora. Il brano mette in evidenza il pericolo del giudizio basandosi all’apparenza. Giudicare secondo ciò che si vede e ciò che si vuol far apparire è un peccato contro tutta la legge di Dio.

Si dice l’apparenza inganna per cui  ciò che si vede con gli occhi, bello e brutto non può essere un giudizio giusto per parlare della verità. Ai credenti di allora erano stati ammoniti di essere immuni da favoritismi così sia per noi oggi secondo l’insegnamento dell’apostolo.  Significa che i fratelli credenti in Gesù Cristo devono stare attenti a non farsi influenzare dal modo di giudicare in base all’aspetto esteriore che rischia di avere  un riguardo personale.

Quando meditavo su questo brano mi è venuta in mente questo discorso di mia madre, noi figli, quando eravamo piccoli ci diceva spesso che quando si va in chiesa si deve vestire bene. Uno/a deve indossare il vestito più bello che ha. Un vestito nuovo si deve indossare prima in chiesa. Addirittura, ci sono i vestiti per la chiesa separati da quelli per tutti i giorni. Questo è vero tra alcuni filippini, ancora adesso sento  parlare di vestiti fatto apposta per la domenica, per il culto(Sunday dress), per il semplice motivo che è necessario presentarsi a Dio, al fratello e alla sorella con un aspetto presentabile, dignitoso, pulito, decente per sentirsi gradito. Tutti i membri della comunità devono  in un certo senso trovarsi e ritrovarsi in questo ordine e comprendere che questo fatto è la manifestazione della buona accoglienza.

Quindi, bisogna essere in ordine quando si va in chiesa. Lo stesso per il discorso sull’arredo del tempio in cui viene considerato come le panche devono essere tutte uguali, non devono mancare i fiori da mettere sul tavolo per la santa cena ogni domenica.

A me piace questa idea dell’essere in ordine, di sentirsi proprio in ordine per se stessa e poi per l’altra persona, di trovarsi tutto a posto nei luoghi di adunanza.

Lo stare insieme la cosiddetta ‘fellowship’  è un incontro in chiesa gradevole e piacevole nel vero senso della parola quando si vive con sincerità e autenticità.

E’ necessario dare il nostro meglio avendo questa coscienza e consapevolezza possiamo sentire un’atmosfera d’armonia. Questa è la vera bellezza che si ha in comunione con gli altri fratelli e sorelle in Cristo Gesù. Questo è quello che chiamiamo in una parola ACCOGLIENZA.

Una buona accoglienza ha un effetto molto positivo nel vivere la fede di ciascuno di noi  perciò cerchiamo di rinnovare questa nostra consapevolezza insieme, approfittando, questo momento,  per capire meglio l’insegnamento dell’apostolo Giacomo, rammentandoci(rievocandoci)  di non confondere,  e di distinguere con il proprio significato la fede,  e l’accoglienza, nonostante si intrecciano tra di loro. Perciò le piccole regolette che per me sono diventate abitudini, mi piacciono praticarle in nome di una buona accoglienza, facendomi riflettere e spingendomi di rivedere come ci comporteremo adesso con altro membro della chiesa.

Insomma, rimango al parere che per gli africani e i filippini, questo significa in fondo manifestare riverenza, rispetto e gratitudine per chi ci sta davanti: a Dio il Signore e anche per il fratello, la sorella che frequenta la stessa chiesa.

Leggendo questo brano di Giacomo credo che lui abbia veramente ragione quando lui avverte i credenti di separare o distinguere la fede e l’accoglienza per non avere il rischio di cadere(per non rischiare di cadere) nel dare dei valori nel vivere la fede.

Il pericolo che vedo in queste regole è quando gli altri non sanno bene perché alcune persone lo fanno e perché si fa così.  Quando ci sono i nuovi credenti che si sono avvicinati da poco nella chiesa potrebbe confonderli tutto questo che danno un significato come un modo di vivere la fede così potranno anche pensare di contribuire nella pratica della fede contando l’aspetto esteriore. L’immagine che si costruisce è ad esempio per far apparire qualcosa di attraente, che suscita gelosia o un riguardo o più un interesse personale.

Giacomo tratta il pericolo del giudicare l’apparenza della persona, dell’aspetto esteriore, (come Paolo che ha fatto a un accenno  sui cibi dei Romani parlando di credenti deboli e forti, ciò che abbiamo anche letto e ascoltato.)  Per noi è fondamentale rivedere questo concetto di essere per l’altro, come l’aspetto esteriore può influenzare la convivenza nella chiesa per evitare il pericolo che potrà accadere in comunità. Perciò il pericolo che affrontiamo in comunità è quando diamo più peso o priorità alla  accoglienza e viene scavalcata la fede nel Signore, ma se c’è una gestione equilibrata di entrambe può produrre una cosa buona nella convivenza, altrimenti possono emergere delle questioni di conflitto.

Ricordiamoci dunque che tutto quello che riguarda soltanto l’accoglienza buona, giusta e gradita a tutti è un fatto esteriore e estetico che quando è bello aiuta molto a creare l’atmosfera, o la condizione reciproca per far star bene.

Così ci chiarisce l’esortazione dell’apostolo Giacomo nella quale ci invita a riflettere oggi.  Egli dice «1 Fratelli miei, la vostra fede nel nostro Signore Gesù Cristo, il Signore della gloria, sia immune(privo, esente) da favoritismi ». Con  l’esempio del ricco e quello povero che entravano nell’adunanza (si potrebbe dire nel nostro tempio) è semplicemente per darci l’idea che la fede non deve essere provocata dal giudizio. E’ fondamentale allora fare distinzione nella nostra comprensione tra l’accoglienza che riguarda puramente l’aspetto esteriore e la fede nel Signore che riguarda l’aspetto interiore. Consapevoli di questa  distinzione del limite potremo passare(proseguire) alla fase successiva che sta a cuore a Paolo. Egli invita tutti i lettori, che più meno tutti i credenti, di interessarsi all’aspetto interiore della fede nel Signore che deve produrre l’agire o far scaturire nel loro agire la giustizia, la pace e la gioia che aiutano a sostenere tutti gli altri credenti che compongono la comunità per la reciproca edificazione.

Ecco perché dice alla comunità di Roma «perché il regno di Dio non consiste in vivanda né in bevanda, ma è giustizia, pace, e gioia nello Spirito Santo. Poiché chi serve Cristo in questo, è gradito a Dio e approvato dagli uomini. Cerchiamo dunque di conseguire le cose che contribuiscono alla pace e alla reciproca edificazione». Romani 14,17-19

I pensieri degli apostoli  Paolo e Giacomo sono interessanti nel fare un confronto e trovare un collegamento tra di essi per educarsi alla giusta sensibilità nei confronti delle persone, dei fratelli e delle sorelle nella fede  in Cristo Gesù, a quelli che arrivano da un altro paese o di altri luoghi che sono portatori di costume, usanza o cultura differente dalla propria.

Gli stranieri credenti, che godono l’ospitalità da parte degli italiani in termine di tempo e spazio condividendo il luogo di culto, hanno cambiato molto l’aspetto della chiesa. Le comunità italiane ora sono cambiate, nel senso che fanno dei percorsi comuni, si sono avvicinati, si sono scambiate delle idee, si sono arricchiti attraverso la condivisione di vivere la fede. Perciò bisogna continuare a fare un percorso di conoscenza reciproca utilizzando i mezzi di comunicazione come: la lingua, la fiducia, la sensibilità e la buona volontà di ascoltare l’uno l’altro.

Nel tempo odierno, secondo la mia osservazione, le nostre chiese stanno anche riscontrando delle difficoltà proprio nella gestione dell’accoglienza a causa della scarsa formazione sulla fede e della non adeguata gestione dell’accoglienza. Quando l’accoglienza e fede sono considerate, ponderate e chiarite bene nel credente i loro significati profondi sono davvero in perfetta sintonia. L’apostolo Giacomo dice che i credenti devono essere immune da favoritismi.  Che cosa vuol dire immune? Priva, avere quella sostanza come l’anticorpo per contrastare(ostacolare) o per non essere attaccato dalla malattia di favoritismi?

La parola “immune” è molto importante per noi oggi perché secondo il pensiero di Giacomo ci avverte per non cadere alla tentazione del giudicare attraverso l’apparenza, per non commettere il peccato contro la legge di Dio che è l’amore per lui e per il prossimo. Il vero problema è quando uno vuole far apparire ciò che non lo è,  e quindi si è avvolto con ipocrisia o menzogna. Questo è contro la legge di Dio. Per Giacomo è un peccato avere atteggiamento di riguardo personale poiché è un atteggiamento che giudica, che  porta a trattare le persone in maniera differente, provocando di conseguenza soltanto l’ira, la gelosia, la rivalità, causando, poi, tristezza a chi lo subisce. Così reca divisione o conflitti in tutta la comunità.

Il credente che ricerca la pace e reciproca edificazione nel suo agire può produrre un bene comune per tutti i credenti. Quando uno è forte nella fede, e si dà la priorità di non  essere oggetto di inciampo al fratello/alla sorella che ha la fede debole, tutto diventa possibile e facile nella vita comune della chiesa. I problemi si affrontano con franchezza/autenticità/sincerità.

Si dice che l’apparenza inganna. Perciò nella comunità il credente deve combattere in sé tutto ciò che non è, e tutto ciò che suscita un giudizio negativo nei suoi confronti e simili. Gesù aveva condannato gli scribi e i farisei per l’atteggiamento/il comportamento personale che manifestavano, distinguendosi dagli altri come parlavano. Essi insegnavano gli altri la legge ma non agivano come dovrebbero essere. Gesù li ha rimproverati perché non erano coerenti al loro insegnamento. Gli scribi erano i dottori della legge, insegnavano bene i comandamenti di Dio, ma di amore per lui e per il prossimo non erano in grado di compiere perché non sapevano praticare la misericordia che Gesù aveva rivelato ai suoi discepoli.

L’apparenza non è una giustificazione valida dell’essere di una persona, come l’aspetto esteriore non può essere sufficiente per definire la bellezza di una persona.

In questo modo che Giacomo ci ammonisce ora dal pericolo di inganno, e i danni  che potremmo recare nella comunità e nella nostra comunione fraterna quando si giudica. Far apparire di essere ciò che in realtà non lo è, è contro la legge di Dio perché non è un segno d’amore, non aiuta alla crescita della comunità, non facendo bene al corpo ecclesiastico.

Leggiamo le esortazioni finali dell’apostolo Paolo ai Tessalonicesi al cap. 5 , versetti da 12 a 28:«12 Vi preghiamo poi, fratelli, di aver riguardo per quelli che faticano tra di voi, che vi sono preposti nel Signore e vi ammoniscono; 13 trattateli con molto rispetto e carità, a motivo del loro lavoro. Vivete in pace tra voi. 14 Vi esortiamo, fratelli: correggete gli indisciplinati, confortate i pusillanimi, sostenete i deboli, siate pazienti con tutti. 15 Guardatevi dal rendere male per male ad alcuno; ma cercate sempre il bene tra voi e con tutti. 16 State sempre lieti, 17 pregate incessantemente, 18 in ogni cosa rendete grazie; questa è infatti la volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi. 19 Non spegnete lo Spirito, 20 non disprezzate le profezie; 21 esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono. 22 Astenetevi da ogni specie di male.
23 Il Dio della pace vi santifichi fino alla perfezione, e tutto quello che è vostro, spirito, anima e corpo, si conservi irreprensibile per la venuta del Signore nostro Gesù Cristo. 24 Colui che vi chiama è fedele e farà tutto questo! 25 Fratelli, pregate anche per noi. 26 Salutate tutti i fratelli con il bacio santo. 27 Vi scongiuro, per il Signore, che si legga questa lettera a tutti i fratelli. 28 La grazia del Signore nostro Gesù Cristo sia con voi.

Galati 6,10: «facciamo del bene a tutti e specialmente ai fratelli in fede» e leggiamo nella  lettera agli Ebrei cap 12,1-3« Anche noi, dunque poiché siamo circondati da una così grande schiera di testimoni, deponiamo ogni peso e il peccato che così facilmente ci avvolge, e corriamo con perseveranza la gara che ci proposta, fissando lo sguardo su Gesù, colui che CREA la fede e la Rende perfetta.

 

Tutto questo significa che Dio ci ha dati quest’occasione di partecipare alla sua gloria. Amen.

 

past. Joylin Galapon

 

C’è una nuova vita

Marco 9: 14-29

È difficile tornare nella realtà dopo una bella esperienza. È bello avere dei momenti che incoraggiano, ma poi bisogna mettere in pratica ciò che si è vissuto e per lo più questo risulta una delusione. Dopo le vacanze uno deve ricominciare con la vita di ogni giorno e subito si deve confrontare con le difficoltà di sempre, con nuove forze, ma le difficoltà sono quelle di sempre e hanno il potere di scoraggiare, di togliere la nuova linfa. Così anche Gesù, che ha vissuto un momento intenso sul monte della trasfigurazione, quando scende si deve subito confrontare con la realtà di ogni giorno. Difficile non pensare ad un’altra discesa dopo un incontro con Dio, che risultò anche esso essere una constatazione deludente dell’incredulità crescente, Mosè che scende dal Sinai e trova il popolo intorno al vitello d’oro.

Subito dopo la discesa del monte della trasfigurazione Gesù si trova in mezzo alla folla, dove i suoi discepoli hanno vissuto un momento umiliante, non erano stati capaci di scacciare lo spirito immondo dal ragazzo. In più Gesù si rivolge a loro dicendo: o generazione incredula, forse lo dice anche al popolo, almeno la parola generazione lo fa supporre. Generazione incredula! Due volte uno schiaffo in faccia ai discepoli, prima perché non erano in grado di scacciare lo spirito immondo, poi questo rimprovero da parte di Gesù. Un chiaro monito a noi che ci chiamiamo cristiani. La nostra fede è racchiusa in non so quanti libri, ma siamo una generazione incredula. Non capaci di scacciare le potenze del male che ci assalgono, non capaci di spezzare il potere delle potenze negative che regnano in questo mondo.

In questo testo non si tratta dei dubbi della fede (anche se spesso e volentieri si parla dei dubbi della fede in relazione con questo testo). E poi i dubbi non fanno sempre male. I dubbi talvolta possono essere sani, in quanto ci portano ad approfondire le questioni della fede, a confrontarci con esse, e quindi possono anche contribuire a una crescita della fede. In più il contrario della fede non è l’incredulità, un non credere in certi concetti. Fede ha a che fare con la fiducia. L’incredulità è la mancanza di fiducia. Credere non è sapere a memoria delle regole, ma è avere fiducia nelle promesse di Dio. La fiducia è minata dalla paura, la paura non si fida di ciò che sta intorno a qualcuno. Basta pensare all’epoca in cui viviamo, piena di paure. I dati dicono che non c’è un’invasione di immigrati, infatti nei primi mesi di quest’anno sono arrivati molti meno immigrati, i dati dicono che non c’è un’invasione di musulmani, infatti il 53% degli immigrati in Italia sono cristiani, ma la paura c’è. Non ci si fida. Questo concetto della paura che è il contrario della fede, è reso vivo da un versetto della 1 Giovanni 4: Nell’amore non c’è paura; anzi, l’amore perfetto caccia via la paura, perché chi ha paurateme un castigo. Quindi chi ha pauranon è perfetto nell’amore (vs 18). Vi invito a leggere al posto della parola ‘amore’ la parola ‘fede’: Nella fede non c’è paura; anzi, la fede perfetta caccia via la paura, perché chi ha paurateme un castigo. Quindi chi ha pauranon è perfetto nella fede. Fa riflettere …

Nel brano che abbiamo sentito c’è un ragazzo che è dominato da uno spirito. Sono stati scritti tanti saggi sulla malattia di questo ragazzo. Posso sbagliarmi, ma secondo me è chiaro che si tratta di epilessia. Infatti leggiamo prima: uno spirito muto lo fa cadere a terra; egli schiuma, stride i denti e rimane rigido,e dopo ancora: lo spirito cominciò a contorcere il ragazzo con le convulsioni; e, caduto a terra, si rotolava schiumando. L’evangelista Marco di solito non è così dettagliato (è l’evangelo più breve), quindi qui non vuole lasciare dubbi. In quell’epoca questa malattia era conosciuta. Marco vuole sottolineare un aspetto particolare di questa malattia, l’aspetto demoniaco. Per lui non è una semplice malattia. C’è di più. Molto di più.

Pare che lo spirito ha preso talmente possesso del ragazzo che non si distinguono più le azioni del giovane e di questo spirito. Il giovane non è più capace di vivere la sua vita. Quando finalmente questo spirito si arrende, il ragazzo è come morto per terra, ma dopo ha di nuovo la sua autonomia, è di nuovo padrone dei suoi movimenti e delle sue azioni e parole. Qui traspare una prima risposta alla domanda che i discepoli si erano posti sul significato della risurrezione dei morti, quando dopo il ritorno dal monte della trasfigurazione Gesù accenna alla risurrezione dei morti.  Una prima risposta: c’è una nuova vita, senza spiriti maligni.

La preghiera per la fiducia o la fede è la chiave che conduce allo spezzare del potere di questo spirito. Il potere di ciò che distrugge un essere umano è spezzato da Dio, che agisce qui in e per mezzo di Gesù. Si assiste qui a una anticipazione di ciò che più tardi succederà con la resurrezione di Gesù: Nuova vita! Ecco perché si può dire che con questo racconto si ha una prima risposta alla domanda dei discepoli, chesignifica quel resuscitare dei morti?

Quindi è chiaro. Qui non si tratta di una guarigione miracolosa, come anche forse tutte le altre storie di guarigioni non sono delle semplici guarigioni. Qui si tratta dello spezzare, della frantumazione del potere di ciò che rende un essere umano meno di un essere umano.

E si spezza questo potere, sentite, sentite, con la preghiera! La preghiera è una forza. Dico spesso che la rivoluzione comincia con la preghiera. Cioè se una persona crede veramente in ciò che prega, sarà la prima a non intralciare la realizzazione della sua preghiera. Cioè, se una persona prega per la pace (e non dimentichiamo che l’altro giorno, il 21 settembre era la giornata internazionale della pace), sarà forse non proprio la prima persona ad impegnarsi concretamente per la pace (ma perché no), comunque non intraprenderà niente che possa contrastare la pace, non mette il bastone fra le ruote della realizzazione della pace, almeno così dovrebbe essere, quindi forse dobbiamo credere di più nelle nostre preghiere. Se viviamo le nostre giornate senza preghiera e senza letture bibliche, le nostre giornate scorrono lo stesso, si arriva ugualmente alla fine della giornata, ma in questo modo i giorni si vivono perlopiù come una ripetizione. Se invece si comincia la giornata con una preghiera, con una lettura biblica, la giornata acquista un altro senso, si vivono le cose che succedono in un altro modo, e si faranno altre scelte, la vita quotidiana acquista così un significato più profondo e non è più vissuta come un’eterna ripetizione. La preghiera è una cosa fondamentale, che non si può sottovalutare. Nella preghiera viviamo la promessa di Dio, nostra fonte di vita e speranza, unica vera fonte di vita e speranza.

Niente sarà impossibile per noi, se viviamo in questa potenza della preghiera. In questo modo, cioè con la preghiera, possiamo inserirci in una nuova stagione, la stagione delle promesse di Dio. È così che possiamo vivere insieme la fede, la chiesa. In questo ambito (della fede, della chiesa) ci dedichiamo alla bontà e alla grazia di Dio. Una pianta assorbe la luce del sole e dà ossigeno. Noi assorbiamo la bontà e la grazia da Dio e sperimentiamo insieme fede, speranza e amore, che pregando e agendo trasmettiamo al mondo. Senza fede c’è oscurità, senza fede ci facciamo abbattere dalle situazioni negative e dalle paure che viviamo attualmente, perché non viviamo una situazione rosea, tutt’altro. Ma quella oscurità non avrà mai l’ultima parola. Tocca a noi tenere accesa questa speranza, questo fuoco, non più il fuoco che distrugge, ma quel fuoco che infiamma i nostri cuori con le promesse e parole di Dio, quel fuoco che caccia via la paura, il nostro nemico in questi tempi, scaccia la paura, il demone del nostro tempo. La preghiera caccia via questa paura e apre i nostri cuori a una nuova vita. Amen.

pred. Greetje van der Veer

Il gesto di generosità della povera vedova

Sermone : Marco 12,41-44
Care sorelle e cari fratelli nel Signore,
il vangelo di oggi ci incoraggia a dare tutto quello che possiamo, come ha fatto la povera vedova. Il Signore ci rincuora/incoraggia di donare quello che abbiamo e di mettere a servizio degli altri, quello che c’è, quello che ci è stato dato.
Gesù, in questo racconto dell’evangelista Marco, richiama l’attenzione dei suoi discepoli per la generosa offerta data da una povera vedova.
Con le parole, che il Vangelo riserva, per gli insegnamenti importanti: <<In verità vi dico…. Gesù invita i suoi discepoli a confrontarsi e a riconoscersi nel gesto generoso della vedova che non ha dato il superfluo ma << tutto quello che aveva per vivere/tutta la sua vita>>.

Il gesto della donna viene messo in risalto da Gesù, non tanto perché dona, due monetine di rame(due spiccioli che fanno un quarto di soldo cioè un quadrante), ai poveri più poveri di lei, ma, perché ha investito tutto quello che possiede ( denaro e amore) in ciò che crede.

Con la sua offerta, dimostra di amare Dio con tutta sé stessa e il suo prossimo nella stessa misura in cui, avrebbe usato quei due spiccioli, per comprarsi da mangiare.
Con il suo sacrificio silenzioso, completo e spontaneo rinuncia a tutte le sue sicurezze per affidarsi interamente alla misericordia di Dio perché con lui e in lui realizza una comunione totale dei beni.
Così il Signore ha detto: <<Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date >> (Mt. 10,8)

È nostra consuetudine dire che, molti problemi sociali, familiari o di salute, si risolvono con il denaro, allora, pensiamo che per fare la carità, occorrono molti soldi dei ricchi e non i pochi centesimi dei poveri.

Ma Gesù ha criteri diversi dai nostri e ci richiama all’attenzione dicendo che è importante condividere quel che serve e che abbiamo. Il Signore non guarda la quantità della sostanza ma la qualità; vede e legge nel cuore dove c’è la vera generosità.

Quando ci sentiamo poveri, poveri in tutti i sensi, è perché siamo poveri di speranza, di gioia, di volontà, di fedeltà, di pazienza, di capacità, in queste condizioni è difficile essere generosi perché si è tentati di pensare che non si vale niente e non vale niente, anche, quello che facciamo.
Invece il Signore ci dice che vale. Che vale tutto quello che possiamo dare con amore, perché siamo uniti a Lui e facciamo grandi cose.
Sento spesso fare questa osservazione:<< chi è povero è più propenso a dare tutto, proprio perché non ha niente da perdere, invece, chi è ricco, ha paura di perdere la sua comodità (prosperità).

Infatti ora che viviamo nell’abbondanza non condividiamo più il cibo o le cose con gli altri, invece, quando ero piccola e vivevo in campagna, tra gente povera, ci si aiutava e c’era sempre qualche pezzo di pane, o un pugno di riso, da dare a chi bussava alla porta.

La carità, generosità e condivisione, significa che, se si ha ad esempio una bella e buona torta non si deve mangiarla da soli ma con gioia va divisa con gli altri.

Gesù in questo breve episodio mette in evidenza “lo stile di vita” del regno di Dio che è quello di dare tutto sé stessi, disinteressatamente, senza riserve, con il cuore in mano, verso Dio e verso gli altri <<Vi esorto fratelli a presentare i vostri corpi in sacrificio vivente>>Rom 12,1.

Seek ye first the kingdom of God and all the others shall be added unto you/<<Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in più >> Matteo 6,33

Chi appartiene al Signore, ama Dio, e questo significa, essere disposti a donare tutto (persino se necessario donare la propria vita) per il bene dell’altro. L ’esempio supremo del sacrificio di sé è quello di Gesù che ha dato la sua vita per la nostra salvezza.

L’amore per Dio e per il nostro prossimo, sono i due comandamenti principali della nostra fede cristiana, vanno sempre insieme e si manifestano concretamente quando si celebra il culto.
Infatti lo scopo della raccolta delle offerte è per aiutare i bisognosi fuori e dentro la comunità.
L’altro suo aspetto fondamentale è quello che i membri sostengono con la colletta la cosiddetta fondo ministerio, le spese dei pastori i quali svolgono i compiti dell’annuncio e dell’insegnamento della Parola.

Lo scopo della colletta come dice l’apostolo Paolo non è quello di ridurci in miseria perché altri stiano bene; la si fa, per raggiungere una certa uguaglianza. Noi, che ora siamo nell’abbondanza, possiamo recare aiuto a coloro che sono nella necessità. (2 Cor. 8, 13-14 )
Gesù ci invita, ad avere il cuore di questa vedova che ama con tutta sé stessa. Lei non ha avuto l’atteggiamento di chi dice :<<Te lo do, tanto io non ne ho bisogno>> ma ha dato quel poco che aveva anche se per lei era di vitale importanza. Lei ha dato tutto a Dio e al prossimo.

La sua totale disponibilità di donare è perché ha fiducia nel Signore, sa che dipende da Lui per tutto quello che ha e che avrà.
La vedova, conosce e mette in pratica la verità che Dio è carità e consegna ogni cosa nelle sue mani misericordiose; non risparmia niente per amore, affida tutto quello che ha al Signore, perché, è sicura che Lui, lo amministrerà con giustizia.
Questa donna ci invita a ritrovare il senso del dono, non è la quantità dei soldi, ma quello che conta è il cuore con il quale ciascuno offre. <<Dov’è il tuo tesoro, lì sarà anche il tuo cuore.>>(Mt.6,21)

Gesù non condanna i ricchi, anzi riconosce il loro dono, ma fa notare( agli apostoli/discepoli) che l’offerta della vedova è grande (eccezionale) perché dona al di sopra delle sue possibilità.
Lei è sicura, non risparmia quello che ha e lo mette nelle mani del Signore perché è certa che lui lo farà fruttare.
Ai poveri è predicato la buona novella, è segno che Cristo è presente e li benedice.(“il sermone sul monte” <<Beati quelli che sono poveri….)
Dio benedice coloro che soccorrono i poveri che purtroppo sono aumentati giorno dopo giorno.
Il metro economico di Gesù non sono i soldi ma la generosità; non guarda alla somma di denaro ma al gesto del cuore e allo sforzo.
Essere discepoli di Cristo vuol dire assumersi la responsabilità che il pane (il bene ) che abbiamo ricevuto non è solo per noi stessi ma va condiviso, e si deve mettere in comunione.
Vorrei concludere la mia riflessione su questo brano, condividendo con voi la mia esperienza in questa settimana. È iniziato così lunedì scorso quando dovevo fare una cosa che ho promesso ai miei due nipoti che studiano a Manila per pagare la loro stanza che è vicino all’università in cui sono iscritti per gli studi che hanno scelto.

Quando ho fatto il controllo a casa del movimento del mio conto corrente ho scoperto due siti Uala e Gruopon che mi stavano defraudando. Sono corsa dalla banca , poi ho chiamato il numero verde per bloccare il bancomat e poi sono andata alla questura per fare la denuncia.

Mentre ero lì che aspettavo il mio turno, siccome la questura è aperta 24 su 24 ore per poter aiutare coloro che subiscono tanti e diversissimi casi di ingiustizia, arriva una telefonata a loro che una macchina è stata rubata e quindi qualcuno/un altro sta venendo a fare una denuncia. Un poliziotto che era lì mi ha detto che dovevo tornare il giorno dopo perché il caso di questa persona è più grave del mio.

Dopo due ore di attesa per me è impossibile tornare a casa, e ho insistito che non sarei tornata a casa perché dovevo concludere tutto in quella serata questa pratica perché dovrei lavorare il giorno dopo. Ho deciso di rimanere lì in silenzio, da sola poi, perché gli altri sono già andati via. Io ho aspettato finché la pratica della denuncia mi ha fatto il responsabile.

Ciò che vi voglio dire da questa esperienza, ho tratto come un insegnamento che serve qualcosa per noi credenti. L’atteggiamento della povera vedova che ha dato poco o quasi niente nella cassa per i poveri in cui la chiesa ha questo scopo e cerca di raccogliere per aiutarli è una buona opera preziosissima. Mi sono immedesimata alla donna vedova che non ha di più da dare, la sua condizione è simile a me , io che avevo solo quello che è fondamentale per me da vivere, era tutto quello che avevo. Invece ho pensato che quello che colui che apparteneva la macchina bella e lussuosa è ricco e ha anche più soldi di me.

così ho capito di più il gesto di generosità di quella donna vedova e povera. Davanti alle persone, davanti alle situazioni che ognuno/a di noi affrontiamo ogni giorno non sappiamo veramente che cosa c’è dietro a ogni storia.

Ho capito ancora di più il valore del fondo ministero per noi pastori. e quanto esso sia importante per me, condividerlo e suddividerlo anche se è poco.

Dio nostro è presente e vivo e ci insegna ogni giorno. Cerchiamoli nella nostra esperienza personale perché ci incoraggia e ci parla per proseguire alle buone opere che noi possiamo fare. I pochi soldi che spediamo per il breakfast danno molto a noi e ad altri. Ci aiutano a manifestare e condividere l’amore che è di Dio.

Vogliate ricevere l’invito del Signore a servirlo e a servire gli altri, quelli che sono meno fortunati di noi. Amen.

1

I ciechi e il muto guariti

Matteo 9,27-34;

Care sorelle e cari fratelli nel Signore,

oggi siamo di nuovo chiamati a riconoscere i vari aspetti significativi che ci fanno ricordare l’importanza degli occhi.

Attraverso l’uso dei  nostri occhi possiamo vedere bene e non possiamo dare per scontato la salute di questa capacità fondamentale  del nostro corpo .

I nostri occhi sono indispensabili perché servono per guidarci e portarci (servono per guidare tutto il corpo e lo rende più autonomo) verso il luogo in cui vogliamo arrivare. Anzi  con i nostri occhi  possiamo già vedere subito da lontano dove vogliamo arrivare. Così ci accorgiamo della sua grande importanza  e della ragione della sua insostituibile funzionalità  come parte integrante del corpo.

Con i nostri occhi vediamo tante cose belle o brutte che dipendono dal nostro modo di vedere e giudicare. <Beauty is in the eyes of the beholder> /<La bellezza si vede da chi la guarda>.

Sapete che ho scoperto nelle Filippine? La lapida del Colosseo nella città di Vigan. Ho letto che da lì fino qui a Roma dista 7,111 miglia. Che bello vedere e scoprire questa cosa nelle filippine!

Ci sono tanti passaggi o brani dalle Sacre Scritture che parlano dell’uso degli occhi per il bene del  corpo  e del nostro rapporto con Dio e con il nostro prossimo, del nostro percorso di  FEDE  che a seconda dello sviluppo di ogni racconto biblico notiamo la sua riflessione  alla nostra vita.  La nostra fede in Dio cresce quando il testo biblico ci parla delle esperienze di vita.

Così con la giusta funzione dei nostri  occhi possiamo avvicinarci alle varie interpretazioni di coloro che hanno avuto la fede.

Un teologo dice che  la fede ci aiuta a comprendere le cose di Dio, di come avere la fede per comprendere.

Come ad esempio Saulo di Tarso ad un certo punto della sua vita perse la vista, poi l’acquisì. Da questa esperienza  nacque una vita nuova perché ebbe avuto gli occhi nuovi per vedere ciò che Dio aveva destinato per lui come progetto di vita stessa.

Dalla sua esperienza  di cecità e dell’acquisizione della sua vista è nato un nuovo essere,  una nuova identità, chiamato Paolo. Saulo che poi era diventato Paolo attraverso il dono della fede aveva compreso tutto, che il suo passato ormai appartiene a quel tempo remoto.

Che cosa ha cambiato la sua vita? Il dono della grazia di Dio per poter vedere.

L’apostolo Paolo prima che diventasse un servitore/schiavo della parola, del vangelo di Gesù Cristo era  cieco.  Non vedeva il Dio di Cristo. Non conosceva la via del Signore. Era il persecutore dei cristiani e non vedeva Gesù come la Via, la verità e la vita. Non vedeva Gesù il Cristo! Era cieco ma Dio ha avuto pietà di lui così ha avuto la grazia di poter vedere il Salvatore.

Nel vangelo secondo Matteo Gesù visitò i due ciechi in casa. I due chiesero a lui di essere guariti dalla loro cecità. Essi riacquisirono la vista prima con la loro confessione di fede poi con il tocco della mano di  Gesù. Il racconto dei due ciechi che hanno ri-avuto la vista ci insegna come vediamo, lasciando il passato, che qualcosa è cambiata dall’intervento di Gesù, il figlio di Davide, l’inviato il portatore di salvezza  di Dio.

E anche l’uomo muto e indemoniato ebbe avuto la guarigione.

Come gli altri racconti di guarigione Gesù proibiva questi ciechi di divulgare ciò che a loro li aveva fatto ma con l’impulso della loro gioia non riuscivano a tacere.

In Marco abbiamo visto che il sordo muto dopo la sua guarigione, divulgò tutto a tutti. Gesù ordinò loro di non parlarne a nessun, ma più lo vietava loro e più lo divulgavano.

Essi dicevano:  « Egli ha fatto ogni cosa bene; i sordi li ha fatto udire, e i muti li ha fatto parlare. Marco 7,36-37. E la folla si meravigliava dicendo: «Non si è mai vista una cosa simile in Israele».  34 Ma i farisei dicevano: «Egli scaccia i demòni con l’aiuto del principe dei demòni».

Le reazioni della folla e dei farisei a ciò che videro/assistettero allora sono per noi fondamentale oggi.

Da chi parte siamo? Diciamo forse dalla folla. Vogliamo vedere il malato guarito.

Vogliamo vedere la guarigione di un malato, vogliamo che ogni malattia sia guarita e per di più vogliamo assistere un uomo o una donna guarire da una malattia incurabile.

La volontà di Gesù di guarire le nostre malattie deve prevalere nei nostri  cuori.

Dobbiamo gridare, invochiamo  il suo AIUTO insieme perché Dio intervenga.

La nostra fede e la nostra fiducia deve muovere il cuore di Gesù perché Dio unisca con la nostra volontà. Questa piccola fiamma di luce /fiducia deve essere visto da Gesù in noi come i due ciechi che hanno dimostrato di avere per poter vedere ancora il bene di questo mondo. Anche se siamo credenti /cristiani non vediamo sempre perché come nella lettera di Giovanni  ci ha insegnato di rivedere il nostro essere, il nostro intimo perché gli occhi che abbiamo possano vedere, e  perché ci accorgiamo anche che a volte ci allontaniamo da colui che ci dona gli occhi per vedere, che fa emergere/apparire ciò che è vero così capiamo che nello stesso tempo non vediamo.

I Farisei che assistettero ai miracoli di Gesù non videro niente di buono così dicevano: «  Egli scaccia i demòni con l’aiuto del principe dei demòni».

L’atteggiamento di disprezzo dei farisei nei confronti di Gesù sulle cose buone che egli faceva  sono esempi per noi ora quanto prevale l’affare dello Spirito  maligno nel mondo.

Perciò nella prima lettera di Giovanni (ciò che abbiamo ascoltato) si nota che il mondo è visto bene o male a partire dal nostro essere, quell’aspetto(quella parte) di noi stessi che ha bisogno di essere purificato.

Gli occhi vedono il male quando nell’essere dell’uomo è assunto dall’oscurità che si è avvolto. Così, si può già dire che ogni singolo o  ogni individuo è un mondo a sé.

Il Signore Gesù Cristo ci ha rivelati questi due mondi: il mondo delle tenebre e quello della luce. Chi non ama odia. Chi odia non ama. Chi nell’oscurità odia e non ama il fratello. Colui che ama non odia il fratello. La prima lettera di Giovanni ci porta a guardare bene la realtà in cui dobbiamo camminare perseverando a perseguire il nostro cammino con la luce che abbiamo e portiamo. Gesù ci ha donato la sua luce per vedere ciò che è amore.   Badiamo a noi stessi e non trascuriamo il dono dell’amore fraterno che è l’affetto che  scaturisce dal profondo del nostro cuore. La vera conversione è quel sentimento che sente di volere il bene dell’altro.

Noi non siamo più ciechi il Signore ci ha donato gli occhi per vedere la realtà donandoci  la fede. Sì, perché ci ha fatto vedere che in lui possiamo riacquisire la nostra vista. I nostri occhi sono rivolti a lui sempre perché ci dia l’illuminazione, la luce che abbiamo bisogno per guardare la realtà.

 

Dio deve intervenire allora per darci oggi dei nuovi occhi per vedere e comprendere pienamente la strada su cui percorrere, sia singolarmente che collettivamente.

Come può cambiare la nostra vita quando acquisiamo i nostri nuovi occhi (gli occhiali della fede)?. Con essi, con l’uso che ne facciamo, possiamo sentirci vivi ed illuminati, sperimentando e possedendo quella luce che diceva Giovanni nella sua lettera.  L’uomo credente , chi  crede nel Signore, può vedere le cose di Dio perché gliele rivela.Saper riconoscere o accorgersi del bisogno dell’altro è un compito prezioso del cristiano.

Sorvegliare /Vedere il bisogno dell’altro e le cose preziose nel mondo da tenere conto per sostenere la continuità della vita è il compito del cristiano. Quanto prezioso per noi oggi questo dono dei nostri occhi per poter vedere bene le cose che dona Dio ogni giorno.

Dobbiamo però invocare gridando di avere pieta di noi perché possiamo vedere la luce.

Amen

past. Joylin Galapon

 

Pietro e lo storpio

Atti 3: 1-10

 

Care sorelle e cari fratelli nel Signore,

Siamo ancora nel tempo della Pentecoste che con la venuta dello Spirito Santo, gli apostoli  erano stati muniti di forza e di potenza che aveva emanato Cristo loro Signore.

Così, oggi, per questa domenica  il nostro lezionario ci ha proposto un brano da meditare tratto dagli atti degli apostoli. Questo brano del terzo capitolo i versetti da 1 a 10 è proprio il primo atto miracoloso che per mezzo della potenza della Parola gli apostoli del Cristo risorto compissero la guarigione.

L’autore del libro degli atti l’ ha inserito tra i due discorsi di Pietro: il primo era il discorso alla Pentecoste e il secondo era quello nel tempio per spiegare al popolo di Israele riuniti ciò che era avvenuto allora. Quindi la guarigione dello storpio, dell’uomo nato zoppo era la dimostrazione che Dio in Cristo Gesù aveva continuato ad operare nel suo Nome, era di questo Nome che aveva depositato tutti e suoi tesori, grazie su grazie.

Come era scritto nel vangelo di Matteo Gesù disse: «Ogni potere mi è stato dato in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate miei discepoli tutti i popoli battezzandoli nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando  loro a osservare tutte quante le cose che vi ho comandate. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine dell’età presente» Matteo 28,17-20

Il racconto della guarigione era preceduto dalla venuta dello Spirito Santo, seguito poi dal  sermone di Pietro. Esso aveva inaugurato la nuova Via, cioè il nuovo insegnamento nel nome di Gesù Cristo,  fatto di annuncio della salvezza, di perdono dei peccati e di guarigione di  molti con l’intervento degli apostoli.  Cristo Gesù ha conferito agli apostoli la forza e la potenza di guarire nel suo Nome.

Ma lo sviluppo di questo racconto  ci porta ad andare più a fondo e ci fa riflettere su come Pietro e Giovanni ebbero agito in modo più giusto, e come deve essere un discepolo di Gesù Cristo.

Pietro disse allo zoppo: «guardaci!».  Come dire noi siamo solo i servitori di questa chiesa e per questo motivo andiamo a pregare perché Dio intervenga.  Non abbiamo niente da darti per farti star bene, non abbiamo soldi da darti perché così non farai più l’elemosina.

Come ha espresso poi «Dell’argento e dell’oro io non ne ho; ma quello che ho, te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, cammina!» Nel nome significa: per la potenza e per la volontà di Gesù’ quindi non si tratta d’un effetto magico.  Pietro stava dicendo che non poteva dargli niente, di cose preziose non ne ha. Egli non ha dei materiali che potrebbero liberarlo dallo schiavitù che placa la sua malattia che gli perseguitava a chiedere elemosina ogni giorno. Infatti, per l’uomo  zoppo, l’elemosinare era diventato il suo mestiere o il suo lavoro.

Chissà se proprio i suoi genitori che gli fecero fare, gli mandassero a fare quello perché anche loro potessero guadagnare il loro vivere e attraverso il loro figlio si guadagnassero  il loro vivere. Nel nostro tempo alcuni genitori se ne approfittano della situazione del loro figlio handicappato. E’ una situazione che ci fanno arrabbiare molte volte perché ci sono i genitori incapaci di fare il loro dovere. Ragionandoci su, ci sentiamo spesso usati come delle vittime di tale faccenda. Chi è usato? chi usa? chi se ne approfitta? Noi siamo di fronte a questa situazione. Questo è il nostro  mondo. Quando sarebbe l’opportuno dare ciò che è giusto, a chi è veramente bisognoso?

Pietro immediatamente ha dato allo zoppo quello che ha. Io «ho Gesù» che ha il potere di farti camminare. Io ho <Gesù Cristo, il Nazareno> che ha la forza per rialzarti. Io ho <Gesù Cristo> che ti aiuta a camminare perché tu possa trovare la tua strada. Io ti do Gesù Cristo il Nazareno perché ti accompagna perché tu trovi  te stesso e che tu possa avere la tua autonomia. Quello che avevano gli apostoli era Gesù Cristo, il loro tutto, il loro unico avere (considerato ricchezza per loro) perché in lui e con lui la loro vita potesse servire per sollevare una persona dal suo giacere, e nello stesso tempo il motivo soprattutto del loro vivere in missione.

Secondo l’esegeta del libro degli atti Pietro qui ha dimostrato di essere povero delle cose materiali tranne una cosa, aveva capito che con la sola fede in Gesù Cristo lui può fare tutto, e con questa ricchezza che ha, tutto è possibile per lui e per chi crede in questo nome: Gesù Cristo. L’uomo zoppo ha avuto dagli apostoli quello che chiedeva, quella forza che con la fede si può guadagnare il senso della vita.

Egli aveva avuto il beneficio di quella fede che gli apostoli avevano ricevuto nel nome di Gesù Cristo.  Era quello che aveva bisogno per avere una vita degna da vivere. Così, il primo sermone di Pietro al popolo riunito aveva avuto la ragione per svelare la verità di Dio. Pietro doveva dare questa testimonianza perché era uno di quelli che aveva assistito tutto quello che era avvenuto durante la passione di Gesù(fino alla sua morte).

Pietro e Giovanni erano strumenti di Gesù Cristo per testimoniare la sua potenza, ricevuto dal Padre. Erano loro quelli che avevano avuto dal loro maestro l’insegnamento che dal momento che salì dal Padre essi avranno anche loro il potere di scacciare i demoni e guarire i malati, che con la testimonianza dello zoppo, avevano provato la promessa che Gesù Cristo gli aveva a loro conferito. Gesù disse: «Io sono la via, la vita, e la verità» (Gv. 14,6)L’apostolo Paolo disse: «Sono stato crocifisso con Cristo: non sono più io che vivo ma Cristo vive in me»(Gal.2,20)

Il brano di oggi ci invita a non trascurare quell’insegnamento dietro a questa faccenda.   Riflettiamo bene  che cosa ci sta dicendo adesso in relazione al nostro contesto di oggi. Vediamo che gli apostoli ebbero la responsabilità nell’ orientare i credenti  e come devono nutrire la loro fede.  Pietro e Giovanni  furono impegnati all’annuncio dell’evangelo nel tempio. Essi si trovarono a fare il loro servizio.  Essi erano chiamati dal loro Signore per fare la loro missione di guarire ed annunciare la parola di Dio. Per compiere tutto questo uno zoppo li interruppe davanti al tempio perché la sua richiesta fosse stata esaudita.

Oggi, molti pastori /credenti che si sentono di aver ricevuto un dono extra-ordinario  e lo rivendicano come un potere che viene dall’alto. Il loro potere di guarire è un dono. Ciò che va riconosciuto è che il potere di Dio è stato donato, è passato al Figlio e poi per chi crede in lui adesso riceve lo Spirito Santo, la forza del vivente.

«La tua fede ti ha salvato» Luca 7,50. Allora, il nuovo insegnamento della chiesa che stava formando  fu iniziato all’annuncio di un  nome scelto da Dio Padre perché  come spiegò Pietro prima e dopo questo miracolo di guarigione «Gesù Cristo il Nazareno»era venuto, ma fu rifiutato, fu rinnegato e fu morto perché non fu riconosciuto il Cristo di Dio.

Quindi in primo luogo, la testimonianza di Pietro è fondamentale per noi oggi  per riacquisire una nuova vita e vigore che proviene dal nome di Gesù Cristo, che precede il cammino e contiene la forza di cui abbiamo bisogno per essere guariti.  In secondo luogo, in Gesù Cristo riceviamo la nostra vera ricchezza. E infine la nostra missione o il nostro lavoro missionario si deve svolgere  a partire da questo nome, dal nome di Gesù Cristo. In questo senso che si distingue anche la nostra predicazione.

Gli apostoli, seguaci della nuova Via sono per noi oggi quelli che hanno parlato di Gesù Cristo perché in lui c’è la salvezza. per i cristiani è fondamentale che il Vangelo predicato in lui nel suo donare la vita fino alla sua morte riscatto dei peccati  sia stato segno del nuovo tempo, della nuova era ma che l’inizio della vita nella sua  eternità.

Questo atto compiuto da Lui è il motivo portante(principale) della predicazione , piano di Dio per  essere più vicino a noi come il suo regno sulla terra. Predicate l’evangelo perché  <Il regno dei cieli è vicino>Marco 1,15. Molte volte vediamo una persona davanti alla chiesa chiedere l’elemosina. Passando alla chiesa, per la strada, andando al lavoro oppure venendo via dal lavoro vedendo queste persone ci sentiamo commossi. Alcuni di noi si sentono commossi per la condizione di questa persona per la sua impotenza, costretto a rimanere fermo e anche se volendo, non riesce a lavorare.  Così, alcuni di noi che si sentono commossi cercano di incontrarla, dando ogni volta quello che è  il necessario. Vedere una persona così ci fa sentire veramente la commozione facendo muovere tutte le nostre viscere. Ci sentiamo toccati dal fondo del nostro cuore e subito cercando di dare una moneta e supponendo che in giornata lui potrebbe aver già raccolto tutto quello che gli è necessario per vivere o far passare un’altra giornata.Che cosa posso dare per soddisfare il bisogno della persona che si avvicina a me per chiedere un aiuto? Molti, uomini e donne , ragazzi e ragazze chiedono dappertutto l’elemosina. Intorno a noi, ovunque siamo, incontriamo persone che chiedono soldi, una moneta per comprare da mangiare. Vediamo una mamma che porta con sé suo bambino o sua bambina e ci chiede una moneta per compare il latte. Vediamo un ragazzo che chiede una moneta passando a tutti sulla metro. Noi vediamo la miseria/ la povertà/il bisogno dappertutto. Cosicché  questo racconto biblico ci è molto famigliare. E’ un fatto casuale per noi.

Si guardiamo la realtà  della vita ci sentiamo salvi attraverso la preghiera degli altri. Molti di noi ricevono la bontà di Dio, la sua grazia per mezzo  degli interventi degli altri.  Qui si conferma che la grazia di Dio non è per pochi privilegiati ma per tutti.  La salvezza che si offre tutti i giorni della nostra vita è un dono per molti, più dell’oro, più dell’argento. Lo zoppo saltava e lodava Dio con gli apostoli nel tempio. Tutti quelli che frequentavano il tempio erano pieni di stupore per questa testimonianza dell’uomo. Non ci stanchiamo allora nel offrire il nome di Gesù Cristo perché altri lo ricevono, perché riacquistino la forza.

Amen.

 

past. Joylin Galapon

 

 

Dio è Padre e Madre

Esodo 19,1-6

Care sorelle e cari fratelli nel Signore,

il testo della predicazione che ho scelto per questa mattina ci fa riflettere sulla descrizione che diamo per definire il nome di Dio. Come lo identifichiamo? Come lo descriviamo? Come spieghiamo Dio? Qual è la sua identità?

La regola di base per rispondere a queste domande è cominciare sulla base, sul fondamento, sulla testimonianza ad esempio dal vissuto dei nostri padri che troviamo nella Sacra Scrittura.

Dio è.  Dio è colui che salvò Israele. Colui che l’ha liberato  dalla casa di schiavitù, dalla mano degli Egiziani. Quindi Dio che si rivelò, che si avvicinò,  che è presente per il suo popolo. Le Sacre Scritture cominciarono con la narrazione del vissuto del popolo di Israele .

Il popolo di Israele poi, prima che fosse stato un testimone, prima che divenne il testimone di questo Dio, dimostrò  la propria fede in lui, professandola,  che ancora considerato per noi oggi, un’altra regola di base fondamentale su cui crediamo una verità  di cui non possiamo trascurare secondo l’insegnamento trasmesso dalla Bibbia stessa.

Leggiamo dalla lettera agli Ebrei dal capitolo 11 tutti quelli che hanno creduto  alla Parola di Dio Padre. Coloro che non l’hanno visto ma che l’hanno creduto con i suoi interventi. Di nuovo ci diciamo, la Bibbia è una testimonianza dei credenti in Dio. I teologi o gli studiosi della Bibbia hanno dedicato la loro vita a questo libro e per capirlo era diventato il loro oggetto di studio. Sono degli esperti, sono quelli che hanno dedicato la loro vita nella ricerca per capire bene questo libro di cui  ha parlato di Dio.

La Teologia è lo studio della parola di Dio e studiare la parola di Dio è fare teologia.

Come può un uomo studiare la parola di Dio per conoscerlo bene? Farsi accompagnare e guidare da essa. Come può capire un uomo chi è Dio? Se Dio non gli desse l’intelligenza o la sapienza l’uomo non gli può mai capire, sapere chi è, e vederlo attraverso i suoi occhi, gli occhi della fede.

Gesù disse al cieco: Credi nel Figlio dell’uomo? Quelli rispose: Chi è, Signore, perché io creda in Lui?  Gesù gli disse: Tu l’hai già visto; è colui che ti sta parlando. Egli disse: Signore, io credo .  E l’adorò.   Giovanni 9,35-38.

Studiare la Bibbia è un modo dell’uomo per capire e sapere la Parola incarnata di Dio. Molti teologi sin dall’inizio dello studio delle Sacre Scritture hanno scoperto chi è Dio studiando, analizzando approfonditamente i brani. Sicuramente, sapere le lingue dei popoli, prima l’ebraico dopo il greco, analizzarli , poi, accuratamente  li hanno aiutato molto a capire ciò che vuole Dio rivelare alla sua creatura: uomo, maschio e femmina.  Gli uomini che avevano redatto la Bibbia erano scrittori esperti ed essi hanno fatto un modo più giusto per darci oggi la possibilità di leggerla. La Bibbia quindi è una scrittura degli uomini coloro  che erano ispirati da Dio perché potessero parlare di Lui. Il nostro testo ha a che fare con questo.

Innanzitutto, Dio è Padre, Figlio e Spirito Santo.

Questo è uno degli insegnamenti che crediamo e professiamo di credere: “Dio è nella persona del Padre, Figlio e Spirito Santo”. E’ il credo apostolico che attestiamo oggi. Arrivare ad affermare e credere questa tesi(dogma), dietro a questa affermazione c’erano stati scritti migliaia di libri, ma non basta per definire e descrivere Dio. Quindi ci sono molto di più che dimostrano chi è Dio e dai testi biblici ci rivelano di volta in volta. Così poi abbiamo continuato a fare teologia e dare interpretazioni nuove su Dio e della sua identità.

Potremo capire molto di più chi è  Dio   attraverso i suoi  atti o interventi , per mezzo dei suoi messaggeri, i chiamati che furono stati quelli testimoni che fecero la sua volontà, ci aiutano oggi a credere e a continuare ad essere consolati per accompagnarci alla nostra salvezza.

Perciò oggi attraverso questo brano ci ricordiamo chi era Dio, dopo tre mesi che Dio ha rivendicato il popolo di Israele come suo popolo di eredità, in questi tre mesi Dio ha dimostrato di essere  un’Aquila madre portando via con sé il suo popolo come era una  madre amorevole, compassionevole, protettore per il popolo di Israele.

Che cosa è una madre aquila? o Che cosa è un’aquila? Aquilaè un nome di vari Uccelli rapaci degli Accipitridi, di grandi dimensioni, appartenenti a generi diversi. Per le dimensioni, la maestosità e l’altezza del volo, simbolo di potenza, nobiltà, altezza d’ingegno.

Dio è così come un’aquila che desta la sua nidiata, svolazza sopra i suoi piccini, spiega le sue ali, li prende e li trasporta ».  Questo è il Dio di Israele. Dio è come un’aquila madre o una Madre Aquila. Perché Dio è come una madre?

Così ci spinge ancora ad andare avanti nella nostra ricerca per capire chi è Dio qual è la sua natura di Dio?

Ci troviamo qui a riflettere sulla natura di Dio come una madre,  e sulla definizione di se stesso  come un’aquila madre che raccoglie insieme i suoi piccini  portandoli su con sé in alto, nei cieli. Immaginate Dio come una aquila che vola portando via con sé un popolo in cielo?

E’ una metafora bellissima. Questa è una parabola da ricordare su Dio?

Questa  esperienza è un prezioso insegnamento oggi per ricordarci della cura che si riceve credendo in lui: obbedendo e osservando ciò che Dio dice e vuole che sia fatto.

L’intera creazione: il mondo, la terra e il cielo è dimostrazione dell’amore di Dio per uomo ma Egli fa in modo che il suo intervento di volta in volta l’uomo lo afferra  stesso e così che quando disse « “Voi avete visto quello che ho fatto agli Egiziani e come vi ho portato sopra ali d’aquila e vi ho condotti a me.

L’intervento di Dio liberazione del popolo di Israele dalle mani degli Egiziani è l’inizio di un rapporto o una relazione che Dio stesso ha voluto stabilire perché questo popolo obbedendo e osservando il suo patto diventi un tesoro particolare, un regno di sacerdoti, una nazione santa”.

Allora, ci sono tre elementi da considerare di cui Israele deve anche rispondere a Dio. Israele è per Dio il tesoro particolare fra tutti i popoli,   un regno dei sacerdoti, una nazione santa.

I significati delle tre espressioni sono correlati, ma distinti. Una delle chiavi per il loro più corretto significato è l’espressione: tutta la terra è mia. Questo tema della creazione è troppo importante nell’Esodo perché il nome di Dio sia proclamato su tutta la terra

Dal momento che tutta la terra  è sua, e proclamando il suo nome in  conseguenza anche loro saranno per lui un regno di sacerdoti e una nazione santa. Israele dunque ha una missione che comprende il disegno di Dio per il mondo intero. A lui è affidato la missione di essere il popolo di Dio a vantaggio del mondo intero che appartiene a Dio.

A Monte Sion, Mosè andò a riferire al popolo tutte le parole del SIGNORE e tutte le leggi; e tutto il popolo rispose concordemente e disse: « noi faremo tutto quello che il Signore ha detto» (Es. 19,8) cioè di obbedire la sua voce e di osservare il suo patto Es.19,5 ».**

 

Martin Lutero disse ‘Una natura cristiana è fatta di due sole cose: la fede e l’amore’. Il cristiano, colui che appartiene a Cristo Gesù deve continuare a capire la natura di  Dio come viene descritto dal libro dell’Esodo. Questa natura del Cristiano è ciò che ha voluto il Dio eterno a partire dal popolo di Israele.

L’esodo cioè  il cammino del popolo di Dio  è un continuo percorso che per capire se stesso, la sua natura di appartenere al Dio figlio deve rispondere questa chiamata di essere un regno di sacerdote (cioè al suo servizio che deve compiere insieme, è un impegno collettivo di amare e obbedire, perché  e un popolo a cui gli ha donato la propria vita, il testimone fedele dell’universo).

L’impegno giurato cioè il patto allora è un richiamo alla fedeltà e a noi oggi ci chiede di continuare obbedendolo e osservandolo. La cura come la vicinanza di Dio in noi è dimostrata nella nostra esperienza di tutti i giorni. Dio, padre e madre nel modo in cui ha agito come Aquila. Dio è presente nella nostra esperienza, nella nostra storia dal momento che lo abbiamo afferrato e lo affermiamo. Senza la fede e l’amore Dio non esiste e non c’è testimonianza.

Che cosa ha cambiato nel nostro fare teologia oggi?  E’ proprio dal nostro modo di definire Dio, dal nostro modo di descriverlo adesso. Il nostro fare teologia  è frutto di una ricerca continua del nostro Dio.

Dio ‘io sono’ è quello che egli lo definisce. E’ in modo più accessibile e visibile che a noi  viene affidato e rivelato. Credere in lui oggi è saper descriverlo proprio nel suo modo di avvicinarsi a noi personalmente. è sta a noi ad afferrarlo.

I testi biblici che ha scelto  la Tavola per la relazione a stampa del Sinodo prossimo sono <  In verità vi dico che in quanto lo avete fatto a uno di questi miei minimi fratelli, l’avete fatto a me. (Matteo 25,40). Facciamo attenzione gli uni agli altri per incitarci (incoraggiarci) all’amore e alle buone opere

(Ebrei 10,24)

Gesù dice ciò che facciamo al nostro prossimo piccolo, colui che è definito  il fratello minimo/,  è ciò che facciamo anche a lui».

Il prossimo è generico, è quello che senza nome, quindi chiunque, maschio o femmina, bambino e bambina ,chi si trova in difficoltà, in situazione di precarietà o instabilità.

 

Avere cura dei figli piccoli perché sono considerati  minimi è una delle immagine  di Dio al posto di un’Aquila. Gesù ha detto che io e padre siamo uno e si il minimo è quello che è suo fratello il loro legame è anche uno. Tutti in Uno, uno in tutti.

 

La missione del popolo di Dio è una: «avere cura dei piccoli perché prima lo era anche considerato. Nel deserto come nel buio si era trovato ad essere protetto, e portato con sé.

Riflettiamoci bene sulla cura che abbiamo avuto da parte di Dio per compiere fedelmente ciò che i nostri padri avevano pronunciato. Le nostre esperienze di cura sono dimostrazioni chi è Dio.

La lettura delle Sacre Scritture è necessaria perché, come in questo brano di oggi possiamo ricordare che Dio, parola vivente e presente agisce, interviene.   Dio ci spiega che lui si serve degli esseri viventi, in questo caso dell’Aquila per farci capire il suo modo di agire e intervenire in un modo molto semplice.

 

La figura di Mosè in questo brano è fondamentale per la salvezza del popolo di Israele. Immaginate che tramite lui, Dio ha fatto uscire il popolo di Israele dal paese di Egitto, l’ha potuto strappare dalla mano del Faraone, dagli Egiziani che lo avevano dominato e soggiogato, schiavizzato duramente per essere serviti.

Loro, seguendo Mosè sono arrivati alla loro destinazione sani e salvi.

Guardiamo e osserviamo in televisione molte persone, uomini, donne, genitori con i loro bambini e bambine, che intraprendono un  viaggio ma non sono sicuri  di arrivare alla loro destinazione perché non sono affidati ad una guida sicura come era Mosè.

Sul gommone, in camion si ammucchiano come delle sardine e purtroppo muoiono e così non sono completamente liberati  dalla guerra, dalla  violenza, dalla povertà, dalla fame, dall’egoismo, dal dominio perché non hanno raggiunto la loro liberazione ma la morte.

Ci vogliono oggi molti Mosè e l’ Aquila Madre che con un patto d’amore ci portino alla salvezza.

Nella comunità di Iona, in Scozia riceviamo queste parole: Guarda le tue mani, vedi il tocco e la tenerezza: è il dono di Dio per il mondo.

Guarda i tuoi piedi, vedi il sentiero e la direzione: è il dono di Dio per il mondo.Guarda il tuo cuore, vedi il fuoco e l’amore: è il dono di Dio per il mondo.

Guarda la croce, vedi il Figlio di Dio e nostro salvatore: è il dono di Dio per il mondo. Questo è il mondo di Dio: è in questo mondo noi lo serviremo.

Dio ci benedica. Egli ci custodisca in ogni momento e conduca le nostre vita con amore.  Così sia Amen!.

past. Joylin Galapon

 

 

 

 

Giustizia e sapienza

Sermone: 1Re 3,16-28

Care sorelle e cari fratelli nel Signore,

questa mattina voglio continuare con voi a riflettere sulla faccenda umana in cui Dio è il primo a prendere l’iniziativa per far attuare la sua volontà, che è la vera giustizia.

Domenica scorsa abbiamo ascoltato il racconto della vocazione di Geremia, il profeta del cambiamento, che alla fine dei conti giungiamo alla conclusione che il vero cambiamento comincia dall’opera del Signore e che poi scaturisce la speranza in Lui.

L’apostolo Paolo scrisse: <<le cose vecchie sono passate, ecco, sono diventate nuove>>2 Cor.2,16, dal passato nasce un nuovo inizio (una cosa nuova) nella storia delle donne e degli uomini, come un divenire nel tempo e nello spazio.

Oggi abbiamo ascoltato il racconto delle due donne prostitute, due genitrici di due figli neonati, che a causa di un conflitto scaturito tra i due per la dolorosa morte di uno di questi, si erano recate al tribunale per chiedere il giudizio del loro Re, del re di Israele.

Leggiamo nel 1 Re al capitolo 4 verso 29 chi era il Re Salomone: <<Dio diede a Salomone sapienza, una grandissima intelligenza e una mente vasta>>. Per questo motivo il Re era chiamato a svolgere il suo ruolo di amministrare la giustizia di Dio nei confronti del popolo di una nazione e oggi ci fa riscoprire che la giustizia di Dio era valida e imparziale per tutti e la faccenda di queste donne ne era la testimonianza. Le mancavano del testimone ma con la sapienza di Salomone, esse hanno avuto il giusto giudizio.

Il racconto è molto chiaro, dopo pochi giorni dell’avvenuto parto di queste due donne prostitute, dopo aver subito un dolore inimmaginabile causato dal parto, come si era espresso anche nella Bibbia: <<come una donna, si contorce e grida durante le sue doglie>> Isaia 26,17 ; le doglie del parto di una donna è un’esperienza molto dolorosa e che solo le donne che furono diventate genitrici o mamme potrebbero testimoniarlo bene.

Chi potrebbe mai spiegare e dire qualcosa sul dolore di queste donne prostitute?, che continuamente lo subiscono essendo spesso nelle mani degli uomini, e che a causa della loro professione hanno il rischio di subirlo sempre. Esse per vivere erano finite nelle mani degli uomini e non essendo considerate di avere tale dignità furono sempre pensate di essere presenti per un attimo utilità dell’uomo e per sopravvivere furono costrette a prostituirsi.

Che cosa c’era in fondo a questa nascita di due figli?

Da quali uomini hanno avuto questi?

Forse nemmeno loro due hanno la consapevolezza chi potrebbero essere i responsabili.

Quindi queste due donne subirono un doppio dolore ma anche forse l’odio verso loro stesse e la morte di un figlio poteva indicare qualcosa.

Ecco perché davanti all’autorità, alla persona autorevole, il giudice di Israele si recarono per ascoltare un giudizio per loro, per essere difesi. Il re Salomone, sicuramente farà il giusto e giudicherà con sapienza, avendo un’extra-ordinaria intelligenza e un pensiero saggio, una larga veduta. Soltanto, però, l’intervento di Dio attraverso il re Salomone avrebbe portato al giusto giudizio che è la giustizia che emana il Dio eterno.

Torniamo al nostro testo e osserviamo lo sviluppo del racconto di queste due donne. Sono due donne prostitute.
Due donne che ciascuna ha partorito un bambino in distanza di tre giorni: “poco prima l’altra, poi dopo tre giorni partorisce l’ultima”.

Nello sviluppo del racconto, la prima donna che ha partorito è quella che ha avuto un figlio morto. Davanti al Re, il giudice, ella ha raccontato tutti i dettagli , ciò che è successo tra di loro. Nella sua testimonianza, è venuto tutto fuori, quella che sarebbe stato successo. La seconda donna, invece, ha detto poco e quasi niente, era sufficiente che aveva affermato, attestato che suo figlio è quello che è vivo.

Avete mai pensato e riflettuto perché la donna che ha partorito un figlio, successivamente le è morto? Il racconto non dice niente perciò nessuno di noi potrebbe dire qualcos’altro, anzi come legge non dobbiamo aggiungere niente, né più né meno alle Sacre Scritture.

Come mai questo racconto è costruito, sviluppato e diciamo che quasi interamente dice solo “ciò che non è vero”. Una falsa testimonianza come questa non deve tollerare la comunità di credenti, ma in questa falsa testimonianza potremo riflettere (sul cosa potrebbe accadere) quando affermiamo ciò che non è la verità.

La donna prostituta cui figlio le è morto, ha potuto costruire una storia ben fatta davanti al giudice. Un racconto molto sviluppato, e come un tema ha potuto raccontare tutto dalla A alla Z.

Innanzitutto una falsa testimonianza è pensato molto bene. Un uomo o una donna che la fa è definito molto capace, è abile perché è capace ad inventare, con l’arte del suo parlare riesce a catturare chiunque, chi vuole ingannare. Sarebbe quindi una trappola che una persona autentica non riuserebbe mai a farlo.
E’ un arte che non tutti possono fare, ma chi riesce bene con l’intento di ingannare, di rovinare la reputazione di una persona, e ancora di più di rovinare la propria vita con lo scopo soltanto di avere quello che vuole è veramente un peccato gravissimo.
Egli/ella ha commesso un peccato contro la legge, nei confronti di Dio e del prossimo.

Questo è un caso molto concreto che per noi serve a fare una ragione perché una comunità debba ricordarlo. Molto spesso nelle nostre comunità, ci sono quelli che ancora non hanno potuto evitare ad ascoltare una falsa testimonianza(forse tutti noi).
Perciò, questo racconto biblico ci richiama anche oggi l’attenzione della legge di Dio: ci riafferma l’importanza dell’osservare i dieci comandamenti che Dio ha rivelato per mezzo di Mosè per contrastare una falsa testimonianza, ci rendiamo conto che una falsa testimonianza non ha un fondamento, non ha nessuna traccia dei fatti perciò non può essere vero.

Durante il culto che abbiamo celebrato nella prima domenica di giugno con la chiesa valdese di via 4 novembre, il pastore Emanuele Fiume ha sostanzialmente riproposto una tradizione wesleyana che per noi ha un valore fondamentale.

Secondo la tradizione wesleyana nel culto ci deve essere la lettura dei dieci comandamenti. Alcuni di noi hanno osservato e hanno detto che è positivo richiamare alla memoria la legge di Dio, di leggerla bene e ripeterla insieme durante il culto, in cui l’assemblea si riconosce il popolo di Dio, e di non dimenticare che l’uomo credente non potrà mai superare i continui fallimenti perché è incessantemente tentato dallo Spirito ingannatore che spinge ogni volta ad una falsa testimonianza soprattutto quando vuole difendersi e vuole ottenere ciò che solo per il suo profitto.

Leggerli tutti insieme nella comunità, ci invita a ricordare, a memorizzare e a masticare come un cibo buono poiché la legge che Dio ha lasciato a Mosè serve per noi tutti a raggiungere un buon obiettivo di riuscire ad avere una vita pacifica e una vita di convivenza in buona armonia.
I Comandamenti sono indipendenti l’uno dall’altro?
Il Decalogo costituisce un’unità organica, in cui ogni «parola» o «Comandamento» rimanda a tutto l’insieme. Trasgredire un Comandamento è infrangere tutta la Legge.

L’ottavo comandamento di Dio è < Non dire falsa testimonianza>.
Una falsa testimonianza rovina la reputazione di un’altra persona.
Una testimonianza falsa rovina il prossimo e chi lo fa, anche se stesso. Non è uguale con il detto “una bugia per proteggere una persona”. Dire ciò che non è vero su un’altra persona sarebbe cambiare il suo volto/la sua immagine.
Una persona che fa questo rovina più se stessa perché è contro la legge di Dio.

Gesù era vittima delle false testimonianze: falsi testimoni, falsi profeti, falsi apostoli e falsi discepoli.

Egli era stato accusato di testimoniare una menzogna dai suoi avversari, coloro che non hanno creduto alle sue parole. Deve morire << perché si è fatto figlio di Dio>> Giovanni 19.7
Era questa la più grave accusa che hanno testimoniato gli altri nei suoi confronti.
Nei suoi ultimi giorni di vita ha ascoltato solo le false testimonianze che le erano scagliate contro di lui.

Non poteva dire altro che la verità di se stesso, del motivo per cui faceva delle opere, che Dio gli ha conferito una potenza, che lui può fare qualcosa dove l’uomo non può.

In Giovanni abbiamo letto e ascoltato la testimonianza di Gesù. Egli ha dichiarato che lui era venuto da Dio ed era mandato come Suo testimone.
Con il dono della fede che Dio ci ha donato abbiamo professato con la bocca che Gesù Cristo è il nostro Signore, è il nostro Messia, è il nostro Salvatore. Dio Padre, figlio e spirito santo ne sono testimoni.

A mio avviso, perché fuggiamo dalla tentazione dell’ ingannatore cerchiamo di afferrare bene il grande comandamento. Come hanno consigliato i padri agli israeliti nel libro di Deuteronomio << 4 Ascolta, Israele: l’Eterno, l’Iddio nostro, è l’unico Eterno. 5 Tu amerai dunque l’Eterno, il tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima tua e con tutte le tue forze. 6 E questi comandamenti che oggi ti do ti staranno nel cuore; 7 li inculcherai ai tuoi figliuoli, ne parlerai quando te ne starai seduto in casa tua, quando sarai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai.

8 Te li legherai alla mano come un segnale, ti saranno come frontali tra gli occhi,
9 e li scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte. Deut.6,5-8 Leggiamo al vangelo di Matteo 19, 17<< Ama il tuo prossimo come te stesso». Amen.

Past. Joylin Galapon

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