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La Parole e le parole da portare

Sermone su: Isaia 50,4-9

Care sorelle e cari fratelli,

Tra le mille notizie drammatiche di questi giorni, colpisce per la sua particolare tragicità la morte di una donna al settimo mese di gravidanza, respinta al valico alpino dalle autorità francesi. L’ennesima storia di povertà, emarginazione, fuga alla ricerca di una vita nuova… negate e recluse da un sistema che ormai non riesce più a gestire in maniera umana i poveri che esso stesso produce. Lo sanno bene anche quelli tra noi che, all’alba della domenica, vanno a distribuire le colazioni ai senzatetto intorno a piazza della Repubblica.

Per capire meglio il problema, ho appena finito di leggere un libro di S. Baumann, Le nuove povertà. La sua analisi ci fa capire come la povertà sia stata percepita dalle culture umane nel tempo in modi molto differenti. Nel medioevo il povero garantiva a se stesso e al ricco la salvezza eterna. Con la modernità il povero diventa un potenziale operaio, in attesa di essere impiegato nella fabbrica e di svolgere il suo ruolo sociale; il welfare state è stato inventato anche per garantire che, in questo tempo di attesa, la situazione non degenerasse. Oggi, il capitale ha imparato a fare altissimi profitti con poca manodopera, e così i poveri sono diventati un peso inutile per l’economia. L’assistenza sociale è sempre più vista come insostenibile e ideologicamente ingiustificata. Si arriva così alla criminalizzazione del povero e dallo stato sociale si passa a quello di polizia, come ci insegnano gli Stati Uniti, il cui sistema carcerario è teso esattamente a questo fine. Il problema è che ci stanno convincendo con tutti i mezzi possibili che questo modo di pensare sia quello giusto. Ricordiamoci solo, però, che cosa è successo i Germania quando alcuni gruppi sociali sono state bollate come un inutile peso, anzi, come un pericolo per l’odine sociale…

Ebbene, ci tengo a dire che oggi, domenica delle Palme, noi ci prepariamo a festeggiare la Pasqua con la convinzione che non solo tutto questo è sbagliato, ma che c’è un’alternativa ben precisa. Gesù entra a Gerusalemme facendo capire che lui è il Signore del mondo e che in lui tutte e tutti noi, a partire proprio dai poveri e dagli emarginati, abbiamo un’altra possibilità. I poteri di questo mondo capiscono al volo il significato dell’azione di Gesù e, infatti, cercano di toglierlo di mezzo. Dio, però, lo resuscita e rimette in gioco la vita di tutti quelli che si fidano di lui. Nel Cristo risorto un nuovo sistema di valori, una nuova percezione della vita e dei rapporti umani è possibile, e noi siamo chiamati a realizzarla. Ma come?

La parola di Isaia ce ne dà un esempio eloquente. Nel “terzo canto del servo”, il profeta è rappresentato come colui che ha il dono di parlare come un maestro, ma che ogni giorno deve prima di tutto ascoltare la voce di Dio, proprio come uno scolaro. Eppure il profeta ne ha di esperienza, ha un rapporto diretto con Dio, è uomo che conosce il suo tempo e la sua gente. Proprio la sua condizione di profeta lo porta allo scontro duro con i suoi avversari, contro coloro, cioè, che non possono accettare la Parola del Signore, e quindi tormentano e perseguitano il profeta. La prima cosa che fa, però, e di mettersi in ascolto della parola di Dio: anche lui deve ricevere ogni giorno l’insegnamento dal Suo Signore, proprio come uno scolaretto. Ogni mattino il Signore apre il suo orecchio alla Sua parola, che lo ammaestra. La stessa cosa vale per ogni discepolo del Signore. Abbiamo il dono grande, direi il privilegio, di poter portare al mondo la parola di Dio, ma siamo anche chiamati all’umiltà di aprire ogni giorno la Bibbia e imparare, affinché le parole di Dio non si confondano con le nostre parole. Perfino i discepoli di Gesù, che erano con lui ogni giorno, riuscirono a comprendere quel che era avvenuto la domenica delle Palme solo dopo aver ricevuto la buona notizia della resurrezione.

A proposito dell’ascolto della Parola, in questi giorni sta accadendo un fatto che non ci può lasciare indifferenti: fine mese chiude l’agenzia italiana della Società Biblica Britannica e Forestiera. Chiude dopo 210 anni di lavoro capillare per la diffusione della Bibbia in questo paese. Senza il suo servizio il protestantesimo italiano non esisterebbe. Tocca alla Società biblica in Italia trovare le modalità per portarne avanti l’eredità, ma questo sarà possibile solo se troveremo le forze per farlo: le nostre chiese credono ancora nel progetto della diffusione della Bibbia? In questi tempi di crisi, cioè di “giudizio”, il mondo ha bisogno di persone che sappiano vivere coraggiosamente la loro vocazione ad essere gli araldi dell’evangelo, pur nell’umiltà di chi sa farsi discepolo ogni giorno, per aiutare con la parola chi è stanco.

Solo se ci saremo posti all’ascolto dell’evangelo, della Parola, potremo agire in questo mondo per dire ad alta voce che un’altra via è possibile, che si può vivere la nostra relazione con l’altro e con l’altra partendo dall’amore di Dio. C’è una speranza per tutte e tutti, anche e soprattutto per i poveri, per gli emarginati, per quella gente che oggi l’economia considera un peso inutile. E, anche se ci sentiamo stanchi e demotivati, e se vediamo intorno a noi persone che hanno perso la speranza, ricordiamoci la nostra vocazione ad essere araldi della Buona Notizia! Il mondo ha bisogno di una parola di conforto: gli sfruttatori sono sotto il giudizio di Dio, il quale sta dalla parte delle vittime e propone a tutti, in Cristo, una via di riconciliazione tra esseri umani e tra esseri umani e Dio. Dobbiamo trovare il coraggio di dirlo a muso duro come il profeta, perché in questo il Signore ci accompagna. Abbiamo bisogno di farlo anche nei piccoli gesti quotidiani che possono sembrare una goccia d’acqua nell’oceano, ma che conservano il loro valore di testimonianza. Pensiamo al progetto delle colazioni ai senzatetto, pensiamo anche ad un progetto lontano nello spazio ma che la nostra chiesa, tramite l’8×1000 ha deciso di finanziare: la ricostruzione della casa delle donne di Kobane, nel Kurdistan. I curdi sono di nuovo sotto attacco e forse questa volta saranno i turchi a distruggerla un’altra volta. Ma noi saremo con chi vorrà ricostruirla, testardamente, perché là dove c’è violenza, ingiustizia, sopraffazione, noi dobbiamo essere presenti con gesti profetici.

Gesù, dunque, viene a Gerusalemme come luce del mondo, per una sua ultima e definitiva manifestazione come Messia, come Signore di questo mondo. C’è ancora una possibilità per i suoi contemporanei, ma i suoi avversari irrigidiscono ancora di più la loro posizione e si preparano ad ucciderlo. Come il servo sofferente di Isaia, egli si prepara al martirio, ad obbedire fino alla fine. I suoi discepoli guardano la scena, ma non comprendono. Capiranno dopo la resurrezione. Noi siamo come loro, chiamati ad una vocazione importante, ma allo stesso tempo discepoli, che devono imparare e studiare ogni giorno. Per poter così portare con coraggio, testardamente, quella parola che dischiude il senso della vita, che svela la verità, che ci aiuta a comprendere le contraddizioni di questo mondo e le nostre. Quella parola che siamo chiamati a portare e che, sola, può rimettere in piedi chi è stanco, liberare chi è oppresso, e manifestare la luce là dove sono le tenebre.

Amen

prof. eric Noffke

Il perdono di Dio

Numeri 21,4-9 (I serpenti ardenti e il serpente di rame)

 

Care sorelle e cari fratelli nel Signore, il testo della predicazione tratto dal libro di  Numeri  cap. 21, dal 4 al 9 ci invita oggi a riflettere sul modo specifico di Dio di riconciliarsi con il popolo d’ Israele ed  è anche un modo di riconoscere la severità di Dio nell’emanare il suo giudizio al popolo in ribellione, e la grazia ridonata  a lui dopo averlo riconosciuto che è Dio da temere. Il popolo era stato condannato a morte a causa del suo mormorare, della sua protesta e obiezione alla volontà di Dio e di Mose. Infatti, il castigo era la pena di morte. Dio mandò loro i serpenti ardenti, infuocati che con i loro morsi emanavano veleni, così che molti del popolo morirono. Ma con l’ammissione del peccato e la confessione di aver protestato esso ha ricevuto il perdono,  e così non morì più nessuno.

Molti del popolo però non hanno potuto confessare il loro peccato contro Dio e Mosè quindi hanno subito la pena di morte a causa dei serpenti che rappresentavano il castigo, la punizione del loro peccato. Era Dio che li ha puniti.

 

Oggi, questi  versetti ci invitano anche a fare un auto- esame(autocritica), ricordare il  peccato commesso nella ribellione, nel  mormorio quando abbiamo parlato  con parole di protesta e di obiezione a ciò che Dio voleva che fosse fatto, con un atteggiamento di sfiducia, di rinnegamento, e d’impazienza. Per il Dio dell’AT la sfiducia (perdersi la fiducia in lui) era il peccato più grave perché era irrimediabilmente causa della pena di morte, come viene qui dimostrato.

Nel capitolo precedente al nostro brano, due persone care per questo popolo erano appena scomparse. Miriam era morta, poi poco dopo Aronne. 30 giorni di pianto, cordoglio per il fatto che erano scomparsi Aronne e Miriam dalla vista di una comunità di credenti.

 

Si capisce allora che la comunità di Israele era sfinita, era stanca, non aveva più la forza di camminare e ha perso la speranza a quella promessa di poter raggiungere la terra promessa. Lei non aveva più la forza d’andare avanti per seguire la sua meta verso la promessa di Dio.

 

Nel deserto, il popolo di Israele ha vissuto per 40 anni come ci racconta il libro di Numeri e molti  non  raggiunsero la terra promessa.

Nel deserto, loro hanno vissuto in modo semplice, hanno sperimentato un modo infantile di credere in Dio. Dio verso di loro  si infiamma con la sua ira e poi ritorna ad essere compassionevole mediante l’intercessione, le parole d’implorazione del suo servo Mose in molte occasioni.

Allora Mosè supplicò il Signore, il suo Dio, e disse: «Perché, o Signore, la tua ira s’infiammerebbe contro il tuo popolo che hai fatto uscire dal paese d’Egitto con grande potenza e con mano forte? Perché gli egiziani direbbero: Egli li ha fatti uscire per far loro del male, per ucciderli tra le montagne e per sterminarli dalla faccia della terra!?» Calma l’ardore della tua ira e pentiti del male di cui minacci il tuo popolo. Ricordati di Abramo, d’Isacco, e d’Israele, tuoi servi, ai quali giurasti per te stesso…»  Esodo 32,11-13
La relazione di Dio con il popolo di Israele  in questo caso ci chiarisce anche oggi come siamo noi credenti.

Che cosa era che manteneva il loro rapporto? La cura, la guida che assicurava Mosè  con la sua presenza  e anche il suo castigo ogni volta che commettevano il peccato, ogni volta che trasgredivano il suo comandamento.  Un castigo per raddrizzare il loro comportamento per poi andare avanti per raggiungere la terra promessa come un popolo fedele.

Certamente, non fu un cammino facile per Israele!

Allora, sicuramente  il popolo d’Israele al contempo non visse in modo semplice perché aveva delle regole da seguire e i comandamenti per acquisire la vera vita.  Dio l’ha liberato dalla schiavitù in terra d’Egitto, ha avuto la manna per nutrirsi giorno dopo giorno. Nonostante ciò, c’era sempre occasione di protestare, di mormorare, e lamentarsi davanti a Mose e a Dio. Il tempo nella casa d’Egitto, nonostante il lavoro gravoso che compiva e il maltrattamento che subiva, veniva rievocato con  nostalgia, e il popolo d’Israele sognava ancora la consolazione del cibo che lo rendeva soddisfatto e sazio, cioè la carne  che  lo consolava in mezzo allo schiavitù. Dicevano: «Avevamo pentole di carne e mangiavamo pane a sazietà» Esodo 16, 3. Così, fino alla fine del suo peregrinare abbiamo questo ricordo che causa di ribellione nei confronti di Dio. La carne che lo aveva nutrito ha avuto un ruolo importante, è una trappola del maligno, di satana in cui cadere in tentazione e nello stesso tempo un modo dispettoso di rivolgersi a Dio.

 

La scelta di questo brano ha a che fare con il tempo della passione, il  tempo riservato per ricordarci di tornare a Dio e cambiare la nostra mentalità e si scandisce in questa sequenza.

Il credente ha ricevuto la promessa  grazie alla fede,

poi segue la protesta che è frutto dell’impazienza,

poi si ritorna alla consapevolezza,

e di conseguenza c’è il tempo della confessione,

e poi il tempo del perdono.

Quindi, la riconciliazione comporta un rinnovamento dell’impegno per l’alleanza fatta da Dio per il suo popolo eletto.  Credo che vediamo in noi la replica di questa esperienza in quanto discendenti (eredi ) del popolo degli  Israeliti.

 

Teniamo in mente questo procedimento della salvezza d’ Israele in questo episodio, il timore verso Dio significa per il popolo d’Israele  riacquisire nuovamente la vita per proseguire il cammino che lo aspetta.

Il popolo d’Israele ha confessato il suo peccato tramite Mosè e anche tramite lui Dio ha trovato un rimedio per riconciliarsi. Dio ordina di creare qualcosa di simile a quello che ha mandato per dimostrare la sua ira contro chi bestemmia, contro chi trasgredisce alla sua volontà.  E’ un’immagine che ha causato la morte di molti  e al contempo ha dato nuova vita: dal serpente ardente al serpente di rame.

Adesso abbiamo questa occasione di ammettere anche noi che spesso mormoriamo, spesso ci lamentiamo, spesso protestiamo per le nostre incessanti insoddisfazioni. Questi sono i motivi del nostro parlare contro Dio che non vogliamo nemmeno confessare perché non li consideriamo nemmeno più un peccato. Questo brano ha descritto l’esperienza di vita del popolo d’Israele  e anche la nostra quando mormoriamo perché Dio non ci ha dato quello che crediamo possa  soddisfare il nostro bisogno.

 

Ora, chi pecca e riconosce di aver peccato davanti a Dio riceve il perdono guardando Gesù sulla croce. Ecco, care sorelle e cari fratelli nel Signore, oggi il nostro lezionario ha proposto  la  meditazione di questo brano che narra il peregrinare di Israele, l’itinerante perenne.

È un fatto molto importante nella vita del popolo. Inserire per la nostra predicazione questo brano dell’AT,  ci ricorda quando un serpente per la prima volta ha agito tra due persone, Adamo ed Eva, ora i serpenti sono di nuovo in scena per svolgere il loro ruolo specifico, recare la vita o la morte. Dio per mezzo di loro ha manifestato il castigo, la condanna verso un popolo che con le sue parole ha provocato la sua ira. Ci fa impressione immaginare la terra deserta in cui strisciano i serpenti per  poi  arrivare a mordere una massa di gente. Per  aver parlato male a Dio e a Mose, a causa di aver maledetto Dio, gli israeliti hanno avuto la pena di morte.

 

L’analisi del brano fatta da un ‘esegeta sulla rivolta del popolo d’Israele contro Dio ha voluto delineare il significato vero qui della parola contro, il popolo ha perso la fiducia in Dio.

Che cosa è il serpente ?  E’ il simbolo di vita. Il serpente è l’eterna sintesi di  morte e di vita, oggetto tanto di malanimo quanto di venerazione.

E’ l’essenza vitale del suolo; ogni anno cambia la pelle, simbolo del vecchio sé, un ‘eterna giovinezza, i suoi occhi penetranti scintillano come null’altro-simbolo di saggezza umana.

Il serpente è un potente simbolo di vita e di morte. L’asta con serpente di rame si ferma tra i morti che non vogliono guardare lo strumento di salvezza scelto da Dio e quelli che invece lo fanno, si salveranno.

L’evangelo di Giovanni 3,14-16 dice: E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che il Figliuol dell’uomo sia innalzato, affinché chiunque crede in lui abbia vita eterna. Poiché Iddio ha tanto amato il mondo, che ha dato il suo unigenito Figliuolo, affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia vita eterna.

Le parole di Gesù evidenziano la volontà di Dio di dare la vita eterna a tutti coloro che guarderanno a Gesù e crederanno in Lui.

L’immagine del serpente innalzato da Mosè è collegata da Giovanni all’immagine di Gesù innalzato e crocifisso. Ma l’innalzamento di Gesù si riferisce tanto alla sua morte in croce quanto alla sua risurrezione dai morti.

Così, nel vangelo di Giovani la croce ha dunque, come l’asta, il bastone di Mosè, un doppio significato: simboleggia tanto il veleno della morte quanto la potenza di Dio, che dona la vita a tutti coloro che credono in lui e a lui guardano per salvezza e nuova vita. Amen.

past. Joylin Galapon

È una bella persona

Testo del sermone Filippesi 1,15-21

Care sorelle e cari fratelli,

“È una bella persona!” Spesso utilizziamo questa formula, o altre formule simili, per introdurre a una nostra scelta di campo. “È una bella persona. Per questo di lui/di lei mi fido!”, oppure: “È una bella persona quell’uomo, quella donna che è responsabile. Per questo mi sento di aderire.” E più si tratta di questioni che esulano da criteri di oggettività, più puntiamo sulla nostra sensazione, sulle nostre intuizioni riguardanti le qualità caratteriali e l’affidabilità della persona che ci parla, che ci fa una proposta o una richiesta. Quando si tratta delle cose veramente importanti nelle nostre vite, sembra impossibile distinguere tra la “cosa” e la “persona”. O ci fidiamo della persona, e poi siamo anche disposti a venirle incontro, o non ci fidiamo e poi: fine! Oggi, però, ci è proposto per le nostre riflessioni un brano dell’apostolo Paolo che va abbastanza controcorrente a questa nostra abitudine. Leggiamo dalla Lettera ai Filippesi, capitolo 1, i versetti da 15 a 21:

Alcuni predicano Cristo anche per invidia e per rivalità; ma ce ne sono anche altri che lo predicano di buon animo. Questi lo fanno per amore, sapendo che sono detenuto per la difesa del vangelo; ma quelli annunciano Cristo con spirito di rivalità, non sinceramente, pensando di provocarmi qualche afflizione nelle mie catene. Che importa? Comunque sia, con ipocrisia o con sincerità, Cristo è annunciato; di questo mi rallegro, e mi rallegrerò ancora;  so infatti che ciò tornerà a mia salvezza, mediante le vostre suppliche e l’assistenza dello Spirito di Gesù Cristo  secondo la mia viva attesa e speranza, poiché non ho nulla di cui vergognarmi; ma con ogni franchezza, ora come sempre, Cristo sarà glorificato nel mio corpo, sia con la vita, sia con la morte.  Infatti per me il vivere è Cristo e il morire guadagno.

Per comprendere queste affermazioni, dobbiamo un attimo dedicarci alle circostanze in cui sono state messe per iscritto. L’apostolo Paolo è in catene; si trova in prigionia. Da un lato, la sua detenzione non può essere eccessivamente dura; altrimenti non potrebbe ricevere e scrivere lettere; inoltre vediamo pochi versetti prima del nostro passo che non è solo ma accompagnato dal suo alunno Timoteo. Dall’altro lato, però, si capisce anche che Paolo si confronta con l’ipotesi di non uscire vivo da questa condizione: Forse sì, non lo esclude, ma al tempo stesso si prepara mentalmente anche all’altra opzione, trovando consolazione nel pensiero che nell’uno come nell’altro caso sarà in unione con Cristo. È stato discusso molto se la detenzione in cui Paolo scrive la lettera sia quell’ultima, a Roma, oppure una precedente, magari a Efeso, di cui la narrazione degli Atti degli Apostoli non dà testimonianza. Colpisce anche che, se capiamo bene i versetti che abbiamo sentito prima, c’è qualche collegamento, non spiegato nei dettagli, tra la prigionia e una concorrenza tra diversi apostoli cristiani, alcuni dei quali si approfittano dell’eliminazione di Paolo dallo spazio pubblico per esibirsi. Sembra perfino che il presupposto che l’apostolo si trova in carcere per motivo della sua testimonianza cristiana, come sottolinea lui, non sia da loro accettato. Sicuramente non saremo noi stamattina a dirimere tutti questi problemi. Ciò che per noi conta è che Paolo si esprime in vista dell’eventualità di essere giunto a capolinea, il che lo induce a riflettere sul rapporto tra la predicazione di Cristo e la buona o cattiva volontà del predicatore. E comprendiamo anche che tra lui e questi altri apostoli c’è un abisso di malafede e sfiducia. Umanamente, non hanno più nulla da dirsi; accadde così anche nella prima comunità cristiana.

Ora, però, colpisce ancora in più quello che Paolo dice. Egli introduce una netta distinzione tra questi rapporti, ovviamente del tutti avvelenati, tra i predicatori e l’unica cosa che conta veramente: l’annuncio di Cristo, la trasmissione del messaggio della sua crocifissione e risurrezione. Argomentando così, egli distingue anche tra il vissuto soggettivo con cui questo avviene e il fatto determinante. Può darsi che qualcuno si approfitti della sciagura di Paolo; può perfino darsi che qualcuno si esibisce come apostolo soltanto per fargli male, per farlo stare ancora peggio nel suo carcere. Sì, può darsi che questi “colleghi” (nel senso peggiore della parola) agiscano per malafede ed è altrettanto possibile che lui stesso per questo soffra ancora in più. Ma in fondo non importa, come scrive alla comunità di Filippi, che per Paolo è una comunità di fratelli fidati e di amici che lo sostengono fedelmente: “Che importa? Comunque sia, con ipocrisia o con sincerità, Cristo è annunciato; di questo mi rallegro, e mi rallegrerò ancora”. Si  rallegra, perché il vero motivante del suo apostolato è la diffusione della parola di Cristo, e se questo avviene va sempre bene. Poi, in coda, c’è un piccolo ritorno di auto-referenzialità anche presso Paolo, e forse questo ci consola: lui si dichiara fiducioso che proprio così, agendo in malafede, i suoi cari colleghi contribuiscano alla “salvezza” sua, che ovviamente coincide con l’attesa di liberazione. Le mosse giuridiche che Paolo a questo punto presuppone ci sfuggono ma forse non sono neanche così importanti per noi.

Sono state delle “belle persone” l’apostolo Paolo da un lato e i suoi cari colleghi dall’altro? Temo che dal punti di vista dei cristiani a loro contemporanei sia dipeso dal punto di vista: sempre gli uni erano belle persone e gli altri no, erano bugiardi, ipocriti, incapaci ecc. Proprio in questo quadro di riferimento, pieno di veleno e pregiudizi, emerge l’attitudine di Paolo stesso, che era un uomo che, quando lo riteneva necessario, non evitava le contrapposizioni e i confronti. Dichiara qual è la sua priorità: che la parola di Cristo, la parola di sincerità e speranza sia trasmessa. A fronte di questo criterio, l’orgoglio personale e le rivendicazioni d’autorità devono rientrare a un livello secondario. E lo possono anche: se viviamo o se moriamo, dice Paolo, se abbiamo successo o se falliamo, se riusciamo a esibirci o se finiamo in un angolo cieco, valgono comunque sempre due cose: anzitutto, siamo mortali – per Paolo questa è, quando scrive la lettera, una prospettiva molto concreta, ma poi vale per tutti, anche per chi in questo momento è “di grido”; secondo punto: se viviamo o se moriamo, se ci riusciamo o no, siamo comunque sempre in Cristo, morto e risorto per noi. Questo è ciò che può dare anche alle nostre pretese la giusta misura, perché vale anche per noi e per i nostri tentativi di “fare chiesa” e di proseguire nella vocazione dell’annuncio di Cristo. Nell’anno 1530, alla dieta di Augusta, gli evangelici sottoposero all’imperatore Carlo V una confessione di fede. Nel settimo articolo leggiamo: “Invero la Chiesa è l‘assemblea dei santi nella quale è insegnato puramente l‘Evangelo e sono amministrati rettamente i sacramenti.” Sì, chiesa c’è laddove la parola di Dio è trasmessa nelle forme della predicazione e dei sacramenti. Questo è ciò che conta. La questione invece chi sia il soggetto a farlo rientra a un livello molto secondario. La frase che vi ho citata è formulata in passivo, ovvero in modo che l’attore grammaticalmente non è neanche preso in considerazione. L’essenza della chiesa non dipende dai messaggeri ma dal messaggio. Per noi questo vuol anche dire: laddove il vangelo è proclamato chiesa c’è e non le manca nulla per essere chiesa, indipendentemente da questioni denominazionali ed ecumeniche. Il regno di Dio non dipende da noi, né in quanto siamo persone singole, né in quanto siamo una specifica organizzazione religiosa; il regno di Dio magari si manifesta esattamente laddove noi pensiamo che sia più lontano, laddove ci sono quelli che noi guardiamo con sospetto e in maniera prevenuta. Ci sentiamo ridotti nella nostra importanza da queste considerazioni? Soltanto se in realtà cerchiamo il nostro, non Cristo. Ma, è questo è il punto su cui Paolo insiste, proprio l’azione di quelli che noi osserviamo con sospetto e avversione contribuirà alla salvezza nostra, perché mette a nudo le piccole e grandi auto-referenzialità che motivano anche la nostra testimonianza: vogliamo tanto essere delle “belle persone”, affidabili e rispettate, anche noi. Ma il messaggio di Cristo, che è sempre messaggio di croce, decostruisce queste speranze autoreferenziali, la nostra ricerca di “bellezza”. Possiamo solo pregare che ci sia dato che lo possiamo vivere come una liberazione, come “salvezza”.

Infine, qualcuno potrebbe dire: scusami, il messaggio della giustificazione per fede è un messaggio profondamente relazionale: non trasmette qualcosa di oggettivo, una qualità da acquisire, ma parla di come Dio ha risanato il suo rapporto con noi e come noi, di conseguenza, ci ritroviamo in una relazione risanata con lui. Come sarebbe possibile prescindere dalla dimensione personale e dall’autenticità e credibilità personale del testimone? Inoltre, parlare di Dio non è più un discorso oggettivabile, in cui sarebbe possibile separare il contenuto da chi parla. È sempre testimonianza personalmente impegnata. Sì, è vero tutto questo! Nonostante ciò, non soltanto la Confessione di Augusta ma anche l’apostolo Paolo stesso hanno osato non di separare la cosa dalla persona ma di distinguere comunque tra questi due livelli. Poiché come persone restiamo quelli che siamo – la parola di cui siamo diventati portatori invece non sarà mai la “nostra” in termini di proprietà. Poche ore prima di morire, il riformatore Martin Lutero scrisse su un cedolino una piccola riflessione che indirettamente riflette queste parole di Paolo e con cui vorrei chiudere. Scrisse Lutero: “Nessuno comprende Vergilio nelle sue Bucoliche senza essere stato pastore o contadino per almeno cinque anni. Credo che nessuno comprenda Cicerone nelle sue lettere senza essersi impegnato per vent’anni in un organismo statale eccellente. Nessuno pensi di aver gustato a sufficienza le Sacre Scritture senza aver governato la chiesa, assieme ai profeti, per almeno 100 anni. Attorno a Giovanni Battista per primo, Cristo poi e infine gli Apostoli c’è un immenso miracolo. Non devi tentare questa Eneide divina ma venerare inchinato le sue tracce! Noi siamo mendicanti. Questo è vero!”. Amen.

prof. Lothar Vogel

 

 

 

 

 

 

Tutta la creazione di Dio è molto buona!

GIORNATA MONDIALE DI PREGHIERA

meditazione tenuta dalla Pastora Mirella Manocchio

presidente OPCEMI

Genesi 1,1-31
Cara sorelle e cari fratelli,
leggendo le note geostoriche sul paese di Suriname ho scoperto che fa parte della regione amazzonica della Guiana il cui nome in lingua Kalina vuol dire “terra di molte acque” ed in effetti la zona e in particolare proprio Suriname è percorsa da miriade di fiumi e torrenti che hanno permesso alla lussureggiante vegetazione tropicale di crescere, di dar vita ad una meravigliosa biodiversità patrimonio naturale dell’Unesco e di aver quindi contribuito, insieme ai tanti minerali che si trovano nel sottosuolo, a far classificare nel 1995 dalla Banca Mondiale Suriname come il diciassettesimo paese più ricco al mondo per le sue risorse naturali.
Eppure scorrendo le stesse note geo-storiche si capisce come queste grandi ricchezze naturali, per l’enorme valore economico, sono diventate loro malgrado la sciagura del paese, sfruttato in epoca coloniale e postcoloniale fino ad oggi dove le estrazioni illegali di minerali costituiscono una delle cause maggiori dell’inquinamento proprio delle acque.
Come se ciò non bastasse, i cambiamenti climatici e il conseguente innalzamento del livello del mare rischiano di far sparire sotto il livello delle acque molta parte della zona costiera che copre circa il 15% del territorio.
Capite bene come tutto questo si ripercuota pesantemente nella vita delle persone e perché le donne del Suriname abbiano voluto stimolare la nostra attenzione su un tema che ci tocca tutti e sempre più da vicino.
Queste nostre sorelle nella fede non hanno però voluto partire dall’etica teologica per aiutarci a riflettere sul nostro approccio ai temi ecologici, ossia: cosa possiamo fare noi come credenti? Quali stili di vita conformi al Vangelo possiamo adottare nel nostro approccio alla creazione tutta?
Certamente domande importanti che un po’ tutti ci facciamo e che meritano risposte adeguate.
Ma per farlo con consapevolezza e davvero come credenti, non soltanto come cittadine e cittadini impegnati ecologicamente e socialmente, le nostre sorelle ci hanno voluto far partire dalla teologia fondamentale rimandando ad una riflessione sull’origine del creato voluta da Dio.
E allora guardiamo a questo testo che tante discussioni e pure tante divisioni ha portato nel mondo cristiano. Non voglio fare con voi una lettura che sottolinei le questioni di genere pure in esso insite e nemmeno puntare alla diatriba tra creazionisti che prendono letteralmente il brano ed evoluzionisti che vogliono confutarlo su basi scientifiche.
A noi oggi interessa capire qual è il messaggio profondo che questo testo ci offre, quale riflessione vuole far emergere nel nostro vissuto quotidiano di credenti.
Innanzitutto ci dice che la creazione non è un atto casuale, fortuito, ma un preciso atto di volontà di Dio ed un atto di amore. Perché dico questo?
Perché all’inizio la terra è informe e vuota, un magma indistinto, insomma il caos. E, come ci spiegano gli esegeti Dio, opera la creazione per separazione, separa la luce dalle tenebre, le acque dalla terra e via di seguito, e imprimendovi un ordine progressivo che culmina nella creazione umana e l’istituzione dello shabbat.
Dio fa tutto ciò chiamando all’esistenza la creazione attraverso la sua Parola che ha un valore performativo, ossia fa, mette in atto, crea quello che dice: “Dio disse: ‘sia luce!’ e luce fu.”
Eppure prima della Parola di Dio vi è un altro soggetto che guarda alla creazione ancor prima che essa divenga tale, quando ancora è un caos informe: lo Spirito di Dio che aleggia sulla superficie. Dio guarda a questo caos, vi aleggia sopra attraverso il suo Spirito e già si prefigura la bontà e bellezza che ne può venir fuori. Ecco l’amore di Dio per la creazione che si esprime prima ancora che essa sia, come una madre che ama il figlio o la figlia che ha in grembo e già si prefigura un futuro di gioia, benessere e bellezza per il nascituro!
E cosa accade al momento in cui il nascituro viene al mondo? Qual è la prima cosa che ci viene da dire quando vediamo un bimbo o una bimba appena nati?
“Ma che bella bambina!”
Non pensiamo certo se questa sarà una brava bambina, ma ciò che ci salta agli occhi è la bellezza armonica di quel piccolo corpo, la sua splendida e fragile completezza.
Ecco cosa esclama Dio quando vede l’opera della sua Parola: la sua creazione è bella, dà gioia nel vederla!
E sempre per rimanere nel paragone genitoriale, quando Dio chiama all’esistenza le varie parti della sua creazione non può che benedirle ossia non può che augurare loro il meglio per il futuro, proprio come farebbe un genitore con i figli appena nati.
Dio interloquisce subito con la sua creazione e non l’abbandona a se stessa appena creata, ma esprime il suo amore nella benedizione – crescete e moltiplicatevi – che è anche un impegno da parte sua perché certo un piccolo bambino non potrà crescere bene se non ha accanto genitori premurosi.
Non è un caso che il teologo Walter Bruegemann parla di un atteggiamento divino nella creazione improntato alla prossimità e alla distanza. La prossimità tra creatore e creatura, scrive, “è dovuta alla costante sollecitudine di Dio nei confronti della sua creazione (…) e dell’altrettanto sollecita risposta della creazione. (…) E tuttavia, in questa prossimità fiduciosa c’è una distanza che consente alla creazione libertà d’azione. La creazione non è sopraffatta dal creatore. Egli non solo ne ha cura, ma la rispetta lasciandole libertà nel rapporto. (…) La grazia di Dio consiste nel fatto che la creatura che egli ha chiamato all’esistenza, ora egli la lascia esistere.” (Genesi, Claudiana, pag. 48)
Nell’insieme della creazione vi sono anche gli esseri umani, creati per ultimi e nella somiglianza con Dio, ai quali viene rivolta una benedizione più complessa delle precedenti perché viene detto che oltre a essere fecondi, moltiplicarsi e riempire la terra essi dovranno rendersela soggetta e dominare gli animali.
Queste parole di Genesi sulla creazione umana, nell’immaginario cristiano e non, hanno rimandato per secoli l’idea – utilizzata poi a sostegno di pratiche economiche di sfruttamento – che il genere umano fosse qualcosa di diverso e staccato dal resto della creazione, tanto da poterla usare e sfruttare a piacimento come suo possesso speciale ricevuto da Dio.
Un atteggiamento questo che colpì profondamente i pellerossa quando incontrarono i primi europei. Loro che invece avevano un approccio alla natura basato sull’idea che gli esseri umani sono figli della terra, quindi parte integrante del Creato su cui soffia il Grande Spirito.
Vi dice qualcosa questa loro comprensione della creazione?
Eppure – come oggi sottolineano tanti esegeti e teologi – nel testo di Genesi vi sono elementi che avrebbero dovuto portare a una concezione non troppo dissimile da quella dei pellerossa.
La creatura umana è creata ad immagine e somiglianza di Dio e questo dovrebbe aiutarci a comprendere il messaggio che vuole consegnare all’umanità tutta perché se l’immagine divina veicolata dalla Bibbia è un mandato di potere e responsabilità nei confronti della creazione come quella esercitata da un pastore sul suo gregge oppure quella di sollecito amore materno e paterno, allora comincia a delinearsi anche quale può essere il reale valore del mandato affidato all’umanità.
Non sfruttamento e dominio assoluto e coercitivo, ma sulla scorta dell’agire di Gesù di Nazareth, figlio di Dio per eccellenza, servizio e sollecitudine nel garantire il benessere di tutte le creature cosicché la promessa che ciascuna di essa ha ricevuta possa essere fruita appieno.
Ecco questa comprensione del dettato biblico, un tempo portata avanti per lo più dalla mistica e da pochi studiosi isolati quali Albert Schweitzer o Teilhard de Chardin, con il passare del tempo è divenuta patrimonio dei molti – pensiamo alle assemblee ecumeniche di Basilea e Graz o a quelle del CEC di Camberra e Porto Alegre o ancora alla Carta Ecumenica – e ha portato la comunità dei credenti a comprendere la natura non come organismo vivente messo al servizio dell’essere umano, ma come patner con cui l’umanità è interconnessa similmente a Noè, l’uomo fedele a Dio rispetto all’umanità corrotta, che si salva solo assieme agli animali.
Ebbene se ci spostiamo dal mondo biblico al nostro, stiamo assistendo ad approcci più consapevoli nei confronti della salvaguardia del creato e delle sue risorse a livello delle potenze mondiali, soprattutto considerando il fatto che le risorse non sono inesauribili. Peccato che questo nuovo atteggiamento sia dettato per lo più da ragioni economiche, le stesse che al contempo frenano certe decisioni di drastico controllo, quali ad esempio la riduzione di emissione di anidride carbonica, perché considerate nocive per lo sviluppo economico-finanziario delle nazioni.
Certo nel rivolgerci a chi ragiona solo in termini di profitto e di potere, l’unico modo per far si che ci senta da quell’orecchio è quello di parlare lo stesso linguaggio.
Ma per noi credenti l’approccio non può essere solo utilitaristico, anche perché la questione della salvaguardia del creato va sempre connessa col modo in cui le risorse esauribili del nostro pianeta vengono distribuite. Se circa il 20% della popolazione mondiale gode di quasi l’80% delle risorse planetarie mentre circa un terzo della popolazione globale ha un’alimentazione insufficiente, se l’acqua da diritto viene trasformata in bisogno economicamente sfruttabile, allora quello che le chiese sono chiamate a fare diventa un discorso profetico di giustizia sociale. Questo ce lo dicono anche le nostre sorelle del Suriname.
Ritengo che fin dalla Scuola Domenicale sia necessario spiegare biblicamente e mostrare coi fatti che il Signore ci ha creati come parte integrante della sua meravigliosa creazione e che ce l’ha affidata per conservarla nella sua bellezza e splendore, facendo in modo che il godimento delle sue ricchezze permetta il benessere di tutti e non solo di una parte dell’umanità.
È un discorso che cambia prospettive e azioni sia nel quotidiano, sia nel complesso delle relazioni economico-sociali della terra, ed è il compito originario affidatoci da Dio come suoi figli e figlie.
Ebbene se non cercheremo con tutte le forze di portarlo avanti la creazione tutta, come dice l’apostolo Paolo in Romani 8, continuerà a gemere e ad essere in travaglio nell’attesa impaziente della manifestazione dei figli e delle figlie di Dio e di essere liberata dalla schiavitù della corruzione.
Chiudo le mie riflessioni con un brano tratto da un libro di Jurgen Moltmann che parafrasa Agostino nelle ‘Confessioni’: “Quando amo Dio, amo la bellezza dei corpi, il ritmo dei movimenti, la lucentezza degli occhi, gli amplessi, i sentimenti, gli odori, le tonalità di questa variopinta creazione. Vorrei abbracciare tutto quando amo te, Dio mio, perché io Ti amo con tutti i miei sensi nelle creature del Tuo amore, Tu mi aspetti in tutte le cose che mi incontrano.” (Lo Spirito della vita, Queriniana, pag. 119)
Amen

​​​​Past. Mirella Manocchio

Il maestro, la guida del discepolo

Luca 9,62 

Care sorelle e cari fratelli nel Signore,
il nostro calendario liturgico ci ricorda che è già la terza domenica del tempo della passione del nostro Signore.

Non so se ci rendiamo ancora conto del senso e della profondità del significato di questo tempo per noi cristiani.

Constatiamo che il nostro vivere in Cristo Gesù cioè il vero messaggio del cristianesimo non è quello di vivere una vita come se fosse  una passeggiata tranquilla ma che la vita è a volte tortuosa. Possiamo, però, arrivare  a capire come  raggiungere la vera felicità.

La storia ci ha fatto conoscere in pieno il piano della salvezza che Dio ha compiuto in Gesù, delineando un’esperienza incredibile di patimento: fisico e psicologico, corpo e animo hanno vissuto quel dolore e quella sofferenza tali fino all’ultimo respiro per riscattare con la sua morte le anime dei peccatori.

Quello che è accaduto nel passato è irripetibile per il suo valore e a noi ci rimane nel nostro cuore la gratitudine e la riconoscenza verso Dio.

Così, anche in questi giorni ho riflettuto su quanto sia enormemente seria la responsabilità che ci è affidata e come quel fatto deve essere trasmesso con  degli effetti positivi nella vita della chiesa.

La passione di Gesù per amore è ciò che dovrebbe farci risvegliare in questo tempo non imitandolo, ripetendolo il gesto compiuto da lui portando una croce di legno, ma  resistendo, sopportando  anche noi le nostre  quotidiane sofferenze. Questa è la realtà  riservata a ciascuno di noi e abbiamo bisogno di uno sforzo di comprensione per poter viverla bene.

La sofferenza di Gesù Cristo era ed è tuttora un esempio per noi per  dare testimonianza alla nostra chiamata e vocazione di servire la chiesa ossia quella comunità a cui il Signore ha pensato di donare la sua vita, per la nostra redenzione. La volontà di Dio però è che ciò non si limiti solo alla chiesa in se, ma come il pane lievitato, la chiesa deve espandersi, deve crescere per essere un bene prezioso per tutti.

Nella nostra epoca, più  andiamo avanti nei secoli, più sentiamo le sofferenze e i dolori di vivere in questo mondo come qualcosa che ci schiaccia, ci soffoca, e siamo sempre meno disposti ad affrontare la realtà cogliendo il significato più profondo della sofferenza.

E’ vero che per una persona non è facile accettare la vecchiaia, perdere  le forze che una volta lo rendevano  utile per essere anche di servizio agli altri e  sentire la gioia di sostenere un’altra persona.

E’ vero anche che chi non ha la possibilità e gli strumenti per  vivere bene non può  godere della felicità. Per questo motivo le nostre comunità possono essere dei luoghi per scambiare o per unire i piccoli e i grandi aiuti di cui ognuno può disporre. Il servire la colazione alle persone  senza fissa dimora che abbiamo iniziato domenica scorsa è un gesto piccolissimo per mettere insieme le nostre forze. Ciò richiede un po’ di impegno ma cerchiamo di non trascurare i gesti simbolici che noi abbiamo potuto fare perché credo che siano molto graditi al Signore. Noi, con le parole e con i fatti possiamo essere di esempio della sua enorme bontà e generosità.

Negli ultimi mesi, molti di noi  sono stati colpiti dall’influenza e altre malattie. Non vi nascondo il dispiacere che provo. Potrei elencare dei nomi dei membri della nostra comunità che non ci sono oggi e non sappiamo quando  torneranno perché la sofferenza fisica che sentono impedisce loro di venire qui per lodare e ringraziare insieme a noi il Signore. Oggi sento di voler condividere con voi questo mio stato d’animo e rendere grazie per questo tempo che ci ricorda le sofferenze di Gesù, perché mentre ripercorriamo la sua via, rivediamo e rivisitiamo anche la nostra vita.

Anche Gesù in questo tempo ha affrontato e ha vissuto fortemente la vita di un essere umano. La sua passione in quel tempo era però una lotta per far vincere l’ amore, la compassione nei confronti dei suoi discepoli e l’amore in obbedienza a Dio. Non era il desiderio di dimostrare al mondo che lui era un super eroe ma dare testimonianza del regno di Dio. Quel regno di Dio che ora vince le nostre incredulità e incapacità di salvarci da soli. Egli fino in fondo ha dimostrato quella passione arrivando a toccare fin in fondo al suo cuore, il fatto di  essere un uomo di amore.

Egli ha lasciato parole e fatti di insegnamento ai suoi discepoli perché siano pronti poi a testimoniarli in pratica.  Il verso su cui mi sono soffermata è tratto dal vangelo di Luca cap.9,verso 62 «Nessuno che abbia messo la mano all’aratro e poi riguardi indietro, è adatto al regno di Dio». La nuova traduzione quella della Riforma dice: «Nessuno, che abbia messo mano all’aratro e si guardi indietro, è adatto al regno di Dio».  Gli insegnamenti di Gesù sono stati trasmessi attraverso l’ascolto dei discepoli,  che hanno prima, piano piano, potuto imparare ad abbandonare  le cose futili che appartengono al passato.

Quando Gesù dice «nessuno» questa parola pone al centro chiunque vuole seguire i suoi insegnamenti, chiunque pensa di intraprendere quel cammino. Occorre pensare molto, riflettere perché il percorso è lungo, un cammino continuo senza fermarsi , andare avanti sempre, come la mano che  porta l’aratro per solcare la terra.

«Nessuno, che abbia messo mano all’aratro e si guardi indietro, è adatto al regno di Dio». Mentre meditavo su questo versetto mi è venuto in mente che mancava un elemento, un personaggio molto importante cioè il bue. Non si può arare la terra senza il bue. Se lui non c’è,  manca l’amico del contadino. Il contadino non può arare senza il suo aiuto. Perché manca il bue in questa frase? O in questo verso? Perché Gesù ha tolto la guida del contadino? E’ lui che traccia prima il passaggio nella direzione giusta.

Allora i discepoli di Gesù hanno ascoltato i suoi insegnamenti, lo seguivano , erano  presenti e assistevano mentre compiva le opere di guarigioni. Quindi  Gesù era la loro guida per capire come ereditare il regno di Dio. Il regno di Dio, appartiene solo a chi è in grado di lasciare le relazioni intime, o i legami di parentela e ancora di più, di abbandonare la vecchia vita per fare spazio alla nuova «Perciò se uno è in Cristo, è una nuova creatura le cose vecchie sono passate, ecco sono diventate nuove» dice l’apostolo Paolo nella sua seconda lettera alla comunità di Corinto dal capitolo 5 il verso 17. Rinunciare alla vecchia vita in cambio alla nuova ha un prezzo da pagare ma che è già stato pagato da qualcuno, dal figlio prediletto di Dio. Incontrarlo nella nostra via oggi e poi seguirlo è una grazia. Avere un buon maestro oggi come punto di riferimento è necessario, come lo è stato per i suoi discepoli. Non penso che vivere la vita come seguace di Cristo, sia da sottovalutare. Riserviamo del tempo  per leggere la Bibbia, intendo dire leggerla nella nostra vita quotidiana. La Bibbia si medita per chi vuole sapere o conoscere se stesso. Il discepolo del maestro ha questa possibilità, ed è stata rivelata. Chiediamo al nostro Maestro Gesù come leggere tutta la Bibbia per scoprire come deve essere nutrito il nostro corpo fisico per essere un sacrificio gradito. E nel contempo chiediamo anche di avere la consolazione per le nostre anime afflitte e travagliate dalle nostre innumerevoli mancanze e debolezze di adempiere i comandamenti del padre.

Ricordiamo l’atteggiamento proposto al discepolo dal maestro. Andare avanti, dissodare la terra con la mano che guida l’aratro e guardare avanti , tenendo in mente tutti gli insegnamenti di  Gesù così da poter abitare nella casa del Dio Padre per compiacere il Padre e far dimorare in lui il bene che ha infuso in ciascuno e ciascuna di noi.

Gesù (gli) disse: «Nessuno, che abbia messo mano all’aratro e si guardi indietro, è adatto al regno di Dio».

Questo verso merita una riflessione profonda perché Gesù  ci parla molto ancora oggi. Ci ha dato le orecchie per ascoltare, la mente per pensare prima di agire, e le mani che operano continuamente sono un bene prezioso. Forse questo verso, oggi, ci indica che abbiamo già avuto il libro delle Sacre Scritture che ci dirigono, ci guidano come percorrere la terra cioè come vivere in questo mondo nella casa del Signore Dio. La nostra guida per arare, coltivare, solcare, vangare la terra è rivelata ed è custodita in un libro, nella Bibbia la storia dell’umanità intera. Gesù, così, attraverso il racconto delle parabole ci  conferma chi è lui veramente, un  Maestro, che ci guida per trovare il regno di Dio a partire da qui sulla terra, come la perla preziosa trovata dal mercante.

Gesù disse a Tommaso  «perché mi hai visto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto» Gv.20,29)

Lo scopo del vangelo secondo Giovanni, secondo la sua testimonianza è di rivelare le opere miracolose di Gesù che sono dei fatti straordinari che ci insegnano a credere, ci accompagnano quando la nostra fede in lui si indebolisce. Leggendoli continuamente, ci ricordano dell’ora in cui, lui e il padre intervengono nella nostra vita.

La via che ha percorso  Gesù, il figlio dell’uomo l’ abbiamo vista nel tempo della sua passione. Gesù aveva questo da compiere come sua priorità di vita, come missione.  Abbiamo imparato che Gesù aveva in mente chiaramente ciò che doveva fare verso i suoi fratelli e verso Dio, il padre di tutti.  Era molto chiaro  il suo obiettivo, e nessuno poteva sapere se non lui, e tutto ciò che faceva era stato scritto di lui dai profeti.

E senza farsi  confondere dalle intenzioni degli altri era diretto a Gerusalemme. Gesù aveva un cammino da perseguire e sapeva che cosa doveva incontrare prima di raggiungere la sua destinazione.

Allora in quel periodo Gesù doveva rinunciare a se stesso, alla sua volontà personale per il bene degli altri. Era il sacrificio del  dono di se stesso.

In questo tempo di passione, riflettiamo bene che il cammino di Gesù dopo la Galilea, verso Gerusalemme era  un viaggio difficile, era un percorso di vita soltanto per lui e lo ha scelto per redimere tutti, o molti.

La scelta di Gesù di percorrere questa via è un esempio per noi proprio se vogliamo essere  suoi seguaci. Lui ha fatto quello che doveva essere fatto, che era la volontà del padre. Voglia il Signore aiutarci e guidarci verso la nostra meta. Amen.

past. Joylin Galapon

La vigna, le vigne

Isaia 5,1-7

Vi è mai capitato di partecipare ad una vendemmia?
A me sì, giù in Sicilia, attorno ai primi di Ottobre, nel palermitano.

Ricordo che tra zii, amici e persone incontrate per la prima volta, l’atmosfera era quella di chi, gioioso, raccoglieva il frutto di lavoro ed aspettative. Sì, perché non è per nulla scontato raccogliere dei buoni grappoli d’uva: basta una grandinata, un’alluvione o, per contro, un periodo di siccità, oppure anche degli invisibili parassiti a far andare tutto a male! Per questi motivi, la vendemmia è spesso accolta con canti di gioia. Ne ricordo ancora uno, che provo a tradurvi: “Il pero disse all’uva: povera disgraziata, tu verrai calpestata; l’uva rispose: ma a l’uomo che mi calpesta, gli farò girar la testa!”.

Il testo biblico di oggi sembra sia stato scritto in occasione della festa ebraica dei Tabernacoli, coincidente con il tempo della Vendemmia.

Immaginate, adesso, un uomo, un profeta, al quale era stato detto da Dio di annunziare una parola al popolo. Provate a pensare a quest’uomo mentre, di campagna in campagna, vede gente festeggiare una buona vendemmia. L’odore d’uva, probabilmente, riempiva i polmoni ed i canti le orecchie dei passanti. Profumi e canti improvvisati e tradizionali accompagnavano i passi del profeta fino in prossimità del Tempio, dove probabilmente alcuni si erano riuniti per aspettare il momento dei riti cultuali e cerimoniali.

In quel periodo, però, non doveva esserci molto di cui gioire: il regno di Israele era parzialmente conquistato ed il regno di Giuda era anch’esso sotto il pericolo dell’occupazione militare assira. C’era, probabilmente, chi si ricordava del suo tempo di catechismo, nel quale gli era stato insegnato che il re che lo governava, Ezechia, proveniente dalla stirpe del celebre re Davide, era destinato ad un aiuto incondizionato da Dio.

“Dio è con noi”. Uno dei ritornelli più famosi ed utilizzati nella storia.

Il profeta, però, non condivideva né la gioia del popolo in mezzo al quale viveva, né il ritornello “Dio è con noi”. Lui aveva in cuore altro. Il profeta ricordava che nei testi biblici la fedeltà di Dio al popolo che era chiamato a servirlo, non era slegata dalla sua giustizia.

Per paura, desiderio di potere o semplice imitazione dei popoli vicini, sempre più ingiustizia e sangue veniva versato sulla terra promessa che gli era stata data come segno di libertà. Ingiustizia sociale e morti che Dio non tollera, al punto da scegliere un uomo proprio fra quegli uomini e mettergli in bocca un canto “diverso”.

Adesso pensate a quell’uomo mandato da Dio che si avvicina agli altri, cantando un canto non suo: il “canto del suo amico”. Il canto ha per oggetto una vigna per la quale il suo amico ha speso tutte le energie e le cure necessarie affinché portasse buon frutto. Anche il Cielo era stato benevolo: nessuna grandinata, alluvione, siccità o parassita aveva compromesso il suo lavoro. A questo punto, però, il canto comincia a presentare la prima nota stonata: nonostante le cure e il tempo clemente, l’uva prodotta è acerba, immangiabile e impossibile anche da trasformare in vino. Coinvolgendo la gente attorno a lui, quindi, il profeta chiede: «voi con una vigna così, che fareste?». La gente, impulsivamente, risponde – cantando – che una vigna così non merita il tempo e le cure spese. Alcuni, forse, propongono di venderla a qualche pastore di pecore; altri, probabilmente, avranno proposto di abbandonarla.

Il ritornello, però, non era ancora arrivato.

Ad un tratto il tono del cantante cambia e diventa più serio: «Ebbene, ora vi farò conoscere
ciò che sto per fare alla mia vigna: le toglierò la siepe e vi pascoleranno le bestie; abbatterò il suo muro di cinta e sarà calpestata. Ne farò un deserto; non sarà più né potata né zappata, vi cresceranno i rovi e le spine; darò ordine alle nuvole che non vi lascino cadere pioggia. Infatti la vigna del SIGNORE degli eserciti è la casa d’Israele, e gli uomini di Giuda sono la sua piantagione prediletta; egli si aspettava rettitudine, ed ecco spargimento di sangue; giustizia, ed ecco grida d’angoscia!».

Il significato della canzone era svelato: le tribù di schiavi che Dio aveva chiamato ad essere un popolo libero, avevano usato quella possibilità per opprimere i più deboli e usare ingiustizia e violenza. Anche gli amministratori politici ed i capi religiosi approfittavano della situazione sociale per nutrire la loro sete di potere. Molti sembravano aver dimenticato quel Dio che li aveva chiamati a vivere liberi, amando il loro prossimo dell’amore del quale erano stati amati dal Dio liberatore.

Ma Dio non è cieco o sordo come una statua, Lui è Spirito, ed è potente da correggere il popolo che Lui ha scelto.

Nel canto messo in bocca al profeta si parla di “deserto”: come in un deserto, questo popolo che pensava di utilizzare il nome potente di Dio per legittimare le proprie azioni malvagie viene lasciato a se stesso, solo. Dio si ritrae, si allontana da loro, facendo sperimentare le conseguenze che una politica corrotta e iniqua e una religiosità ebbra del vino del potere e della visibilità può comportare.

Quella generazione, ubriacata dall’illusione della propria apparente potenza e dedita alla strumentalizzazione del nome di Dio, subirà le conseguenze del proprio peccato.

La presenza di Dio non è qualcosa da dare per scontato. Egli è dotato di una sua volontà, che ha anche rivelato nei suoi comandamenti. Non è mai per capriccio che Dio si allontana, nei racconti biblici. In questo caso, ad esempio, si parla di spargimento di sangue: non è cosa da poco!

Nel canto si parla di uva acerba, simile nell’aspetto a quella selvatica, ma impossibile da mangiare o da ricavarne del vino. Nel canto, al verso 7, si parla ancora del significato di questo essere “selvatica”: i regni di Israele e Giuda, a quanto pare, si comportavano similmente ai regni che li circondavano, commettendo le stesse ingiustizie e imitandoli, nell’uso e l’abuso del potere politico e religioso. Quelle tribù, un tempo schiave e perseguitate, hanno barattato la loro memoria e la loro vocazione per costruirsi un presente simile a quello dei popoli vicini: un presente di giochi di potere ed ingiustizie.

La storia ce lo insegna: anche lo spargimento di sangue, un assassinio, un’uccisione, può essere tollerata, se autorizzata da una legge e confinata ad una certa categoria di persone. Chi è al potere, quindi, si arroga il diritto di considerare alcune vite meritevoli di subire discriminazioni, violenze ed uccisioni. In questo modo, l’uccisione, le discriminazioni, le ingiustizie sociali, sono autorizzate dall’autorità politica e religiosa di turno, a volte anche per “legge”. Ma il fatto che un potere politico o religioso, una legge, proclami un atto dagli effetti dannosi o mortali come “giusto”, cambia la natura di quell’atto? Per le società sì, per Dio no. L’uva acerba e quella buona, spesso non si distinguono dall’apparenza, ma dal sapore, dagli effetti sulla lingua e sul corpo.

E Dio, contrario alle ingiustizie e allo spargimento di sangue, dopo aver ripreso una generazione, decise di allontanarsi da essa.

A volte, essere privati di qualcosa o qualcuno, è l’unico modo per farci comprendere cosa vale davvero nella vita.

Dio, nel testo biblico, si sottrae alla presenza di quella generazione e loro se ne accorgeranno presto!

Forse, gli ultimi ad accorgersene saranno i sacerdoti e la gente religiosa, che tendeva, allora come oggi, a riempire i silenzi e le assenze di Dio con le loro azioni, le loro chiacchiere e la loro presenza.

Come la presenza, anche l’assenza di Dio va riconosciuta e temuta.

Quando ci è donata la ragione della sua assenza, siamo chiamati a tornare sui nostri passi e a cambiare direzione alla nostra vita, convertendoci.

Quando questa ragione non ci è donata, dobbiamo aspettarlo. La ragione, in quei momenti, sta in Dio stesso, nel suo cuore. In quei tempi, la memoria di ciò che è stato e la speranza nel Dio che viene, possono essere l’unica cosa che ci è data vivere.

Ma in questo caso, la generazione di cui Isaia parla e da cui Dio si allontana, non sembra convertirsi dal male, smettendo di uccidere, come Dio aveva loro ordinato.

Ma quel Dio del quale il profeta cantava il canto, è il medesimo che ricordava di non punire i figli per la colpa dei padri (Deut 24,16).

Qualche capitolo più avanti, si parla di un’altra generazione alla quale Dio concede di imparare dagli errori dei padri e delle madri. Una generazione alla quale si rivela nuovamente, con pazienza rinnovata. Uomini e donne come chi li ha preceduti, che però scelgono di vivere quella vita che Dio mostra come possibile e che fa bene non solo a chi la vive, ma anche a chi sta vicino.

Dio non chiede altro all’essere umano, che resti umano!

Né Dio, né verme. Solo e semplicemente umano.

Non si allontana da quella generazione perché poco “santa”, ma perché uccidevano delle persone. E, come spesso accade, la violenza genera altra violenza. L’ingiustizia altra ingiustizia. E Dio non tollera né sangue, né ingiustizia, né la strumentalizzazione del suo Nome per far fare festa al popolo quando ci sarebbe prima da convertirsi.

Fermiamoci un attimo, quindi, e facciamo memoria di ciò che la storia delle generazioni che ci hanno preceduto ci può insegnare, nel bene e nel male. Facciamo memoria, perché solo da una elaborazione critica del passato, possiamo iniziare a lavorare su noi stessi, sostenuti dalle promesse del Dio che viene.

Pensate agli eventi di questi giorni: cosa abbiamo imparato da venti anni di dittatura fascista? Cosa abbiamo imparato da decenni di corruzione? Cosa abbiamo imparato dalla storia di chiese che, per paura di perdere potere e visibilità, si schierano sempre dalla parte della moda religiosa o politica di turno?

Chiediamo a Dio la nostra conversione. Chiediamo a Lui che la sua presenza torni a regnare nelle nostre vite, nelle nostre relazioni e che, con Lui, possiamo tornare a portare frutto, e frutto in abbondanza.

Perché senza di Lui, senza la sua presenza, non possiamo essere nulla e non possiamo far nulla.

Amen

Marco Emanuele Casci

La musica, la danza e il culto a Dio

Salmo 149:3-4

Lodino il Signore con le danze,
salmeggino a lui con il tamburello e la cetra,
perché  il Signore gradisce il suo popolo
e adorna di salvezza gli umili.

Riflessione 1(Debora Troiani)

Questo testo ci parla di corpi che ballano e strumenti che suonano per lodare il Signore, ci parla di musica come modo di vivere la fede. A volte ci appare scontata l’importanza della musica all’interno di una comunità: la musica diventa routine, abitudine, canto imparato a memoria, canzone conosciuta o sconosciuta… tuttavia la musica ha un suo significato essenziale. La musica è importante perché coinvolgente. È coinvolgente perché è universalmente comprensibile. Essa ci coinvolge e ci chiama come comunità, come insieme di voci, come armonia. La musica è coralità, è un riflesso, è un’immagine dello spirito comunitario, e in questo senso è aggregante. Ma essa ci coinvolge anche come singoli e singole: ognuno con le proprie reazioni, emozioni, con la propria voce. Essa coinvolge sensi, sensazioni. Essa ci chiama a mettere in gioco il nostro corpo: le nostre orecchie, la nostra voce, le nostre mani che si muovono lungo i tasti di un pianoforte o battono veloci sulla membrana di un tamburo. La musica muove corde profonde, ci prende e ci smuove.

Il testo ci parla anche di danza: Lodino il Signore con le danze…

Quando con Joylin abbiamo scelto questo testo per questa mattina, mi è subito venuta in mente un’immagine: una delle scene finali di Footloose. In questo film\musical il protagonista, Ren, si ritrova in una cittadina che ha bandito la musica rock e il ballo, perché considerati immorali. Nella scena in questione questo ragazzo, Ren, propone una mozione per cambiare una legge che crede ingiusta e cita il salmo 149 per rivendicare il diritto di ballare. Diritto che egli rivendica e noi dovremmo forse riaffermare, restituendogli la sua legittimità contro un immagine spesso così ancorata ad un unico ideale di solennità che rischia di privarci della bellezza di manifestare apertamente, e senza imbarazzo, la nostra gioia nella fede. Verso la conclusione del suo discorso aggiunge, riferendosi al ballo: “è il nostro modo di festeggiare la vita”. La danza è una gioia che esplode, è gioia incontenibile che erompe nel movimento: in questo senso è un modo di celebrare la vita e un modo di celebrare il Signore. È espressione di qualcosa che non sempre è esprimibile a parole, per cui le parole spesso non bastano. La danza è un corpo che dà se stesso, è il nostro modo di coinvolgere  tutto il nostro essere nella lode. Anima e corpo. Musica, danza, gioco vengono accolti dal Signore come espressioni di gioia, come modi per rivolgere la nostra lode, oltre che non le parole, con il corpo.

 

 

Riflessione 2(Joylin Galapon)

Care sorelle e cari fratelli  nel Signore,

ringrazio ancora Debora perché  ha richiamato la mia attenzione  a porgermi l’ascolto sulle parole del salmo 149, versetti 3 e 4 come Dio sia lodato. Il popolo di Israele ha  lodato  il Signore con le danze, ha salmeggiato con il tamburello e la cetra.

 

Mentre preparavo con Debora questo culto di oggi, quando parlavamo di questo testo ho pensato subito e le ho detto che i nostri fratelli e le nostre sorelle africani ballano al culto nel momento della colletta. Essi raccolgono la colletta danzando. Esprimono la loro gioia danzando perché così anima e corpo si mettono all’opera insieme nel culto.

Spesso li guardiamo(sembriamo degli spettatori) ma un po’ ci hanno già contagiato perché  la gioia che sentono gli altri ci trascina e quindi essa viene trasmessa.

Il corpo  umano è fondamentale, è necessario per lodare il Signore.

Perché? Perché in esso trova l’espressione e la dimostrazione della forza dell’alito di Dio, del soffio di vita che smuove  e sveglia un corpo e ci mette all’opera. Il nostro corpo ondeggia perché lo spirito vivente di Dio lo smuove, lo anima.

 

Nel libro dell’esodo cap. 15 il verso 20 ci racconta anche:  20Allora Miriam, la profetessa, sorella di Aronne, prese in mano il timpano e tutte le donne uscirono dietro a lei, con timpani e danze .

E Miriam rispondeva:  “Cantate al Signore, perché sommamente glorioso; ha precipitato in mare cavallo e cavaliere». Miriam ha guidato un popolo alla lode segno di piena riconoscenza al  Dio liberatore.

 

E poi passiamo al Nuovo Testamento che ci parla attraverso le lettere  dell’apostolo Paolo ad esempio quando dice alla comunità di Roma cap. 12, 1: «Io vi esorto dunque, fratelli, per le compassioni di Dio, a presentare i vostri corpi in sacrificio vivente, santo, accettevole a Dio; il che è il vostro culto spirituale».

 

Innanzitutto, nella teologia di Paolo , il corpo umano è descritto nella sua importanza, testimoniando  l’intento di Dio di creare l’uomo  come è stato raccontato nel libro della Genesi. La sua comprensione del corpo è stata rinnovata così ha riacquisito la sua dignità per mezzo di Gesù Cristo che lo ha salvato. Il nostro corpo è stato guarito, purificato, lavato con il sangue di Cristo Gesù.

 

Oggi questi testi biblici dirigono i nostri pensieri circa l’importanza del nostro corpo per il motivo per cui è stato fatto. La lode che possiamo attribuire al Signore  come comunità di credenti è di continuare ad offrirgli il nostro corpo come un sacrificio vivente, renderci disponibile  al suo servizio.

Siamo diventati santi perché ci ha santificati.

Siamo stati accolti per quello che siamo perché lui ci ama.

Non abbiamo altro da offrirgli in cambio del suo amore se non quello che siamo.

Accogliamo l’esortazione dell’apostolo che ci serve ora per affrontare e continuare il nostro culto di lode al Signore perché ci sentiamo coinvolti.  Anima e corpo sono tutt’uno.    Diamo ascolto al corpo umano, riconoscendo che il corpo è stato redento dal Signore.

Riflettiamoci.

 

Una notizia  del 15 febbraio 2018 08:54 della strage a Parkland, in Florida, ci ha sconvolti. UN EX STUDENTE 18/19ENNE, Nicholas Cruz  ha compiuto questo atto  gravissimo ed  irreparabile perché sono stati uccisi degli esseri  umani  con uno strumento pericoloso   Come è potuto succidere questo? E’ tutta colpa sua?

Questo ragazzo era stato espulso e forse proprio per questo è tornato nella scuola con un fucile d’assalto e ha aperto il fuoco, uccidendo 17 persone e ferendone decine.

 

Il fucile è creato dall’ uomo. Noi siamo quelli che lo creano, inventiamo noi gli strumenti. Così siamo anche noi  responsabili di come vengono utilizzati. Tutto dipende dai nostri  scopi.

La scuola è diventata un luogo di uccisione. Corpi sono uccisi a causa forse di un malessere, di non essere più compreso . I giovani si ribellano, rifiutano di vivere una vita disumana  causata dagli adulti ma non sanno come devono affrontare una situazione del genere.

C’è la  malattia gravissima che dobbiamo curare  dell’anima dei nostri giovani. Essi sono disperati.

Si sentono già  sconfitti prima ancora di imbarcarsi alla ricerca del senso della loro esistenza. Non trovano delle motivazioni per sperare in un buon futuro.

Servono loro delle guide che aiutino ad affrontare le sfide della loro gioventù.

Sono molto delusi e demotivati.

Così reagiscono male. Operano contro  loro stessi e anche contro i loro simili.

Facciamo attenzione, riflettiamoci. Non perdiamo di vista i nostri giovani.

 

Tiriamo le nostre considerazioni e rendiamoci conto che dobbiamo prenderci cura di  loro, come noi stessi.

Insegniamoli come curare il proprio  corpo, che  vada rispettato da loro stessi per primo.

Così anche l’insegnamento di Paolo potrà ancora aver senso  per noi oggi  che il Signore Gesù ha avuto pietà di noi e ha redento la nostra anima e corpo donandoci il suo corpo.

Egli si muove in noi e con noi e la nostra comunione con lui si dimostra in comunità.

Salmo 149,1-4

Alleluia. Cantate al Signore un cantico nuovo,

cantate la sua lode nell’assemblea dei fedeli.

Si rallegri Israele in colui che lo ha fatto,

esultino i figli di Sion nel loro re.

Lodino il Signore con le danze,

salmeggino a lui con il tamburello e la cetra,

perché  il Signore gradisce il suo popolo

e adorna di salvezza gli umili.

 

Queste parole del salmista e  quelle dell’apostolo Paolo (Romani 12,1) ci ricordano la  relazione intima tra la creatura e la lode al Signore.

Il corpo è il tempio di Dio in cui dimora la nostra anima. Quando la nostra anima è afflitta siamo abbattuti e anche il nostro corpo è fiaccato.  Ci sentiamo deboli e ci manca la forza. Come il vento  soffia, il corpo si muove.

Credo che il soffio di vita che abbiamo ricevuto ci faccia questo effetto.

 

Grazie al salmista per le sue parole che ci aiutano a non trascurare dimenticando che il nostro corpo è la dimostrazione della presenza tangibile di Dio. Senza di esso le nostre anime, il nostro intimo essere non può dimostrare la profondità del nostro cuore.

«Benedici, anima mia, il Signore; e tutto quello che in me, benedica il suo santo nome.  Benedici, anima mia, il Signore e non dimenticare nessuno dei suoi benedici.  Salmi 103,1-2. Amen.

 

 

 

 

 

Gesù e il lebbroso

Marco 1: 40 – 45

Questa è una storia in cui i protagonisti sono senza nomi. Solo il nome di Mosè è stato nominato. Un personaggio non fisicamente presente nel racconto. Non c’è il nome del lebbroso e nemmeno il nome di Gesù è scritto esplicitamente nel testo greco. Per una evidenza supposta siamo abituati a inserire il nome di Gesù, per capire meglio il testo del vangelo. Prendiamo come esempio il versetto 45: Ma quello, appena partito, si mise a proclamare e a divulgare il fatto, tanto che Gesù non poteva più entrare apertamente in città. Ecco così il testo è spiegato in qualche modo. Nella prima parte si tratta dell’uomo che non poteva tacere, nella seconda si tratta delle brutte consequenze per Gesù. Ma il lettore  di Marco non ne può essere tanto tranquillo, leggiamo il versetto secondo la versione greca: Ma egli, appena partito, si mise a proclamare e a divulgare il fatto, tanto che egli non poteva più entrare apertamente in città. È difficile dire con certezza se Marco ha volutamente inserire questa confusione. Così rimane aperta la domanda: Chi dei due protagonisti proclama e chi rimane fuori in luoghi isolati? Siamo propensi a pensare che Gesù è quello che proclama e che il lebbroso si rifugge in luoghi isolati. Guardando meglio il testo vediamo che si tratta di un cambiamento dei ruoli alquanto notevole. Non solo Gesù prende su di sé il ruolo del lebbroso, cioè essere isolato, e il lebbroso quello di Gesù, proclamare; ma è possibile intravedere una identificazione fra i due. Una identificazione che fa pensare a Matteo 8 versetto 7 dove sta scritto che Gesù ha preso tutte le nostre debolezze e che ha portato tutte le nostre malattie. Questa parola ci fa riflettere su quanto Gesù si è voluto identificare con coloro che ha guarito.

Tanto che egli non poteva più entrare apertamente in città: questo si riferisce tanto a Gesù quanto all’uomo da lui purificato. Il guarito proclama tante cose  così Gesù non può più entrare in città, ma è altrettanto vero che a causa del fatto che Egli/egli (Gesù/il lebbroso) proclama, egli non si può più manifestare pubblicamente. Quest’uomo è diventato la parola che Gesù proclama, e questo ha come conseguenza che egli non può essere compreso al di fuori di Gesù. Dove va Gesù, è proclamata la parola che riguarda quest’uomo, è proclamata la guarigione, la purificazione, la liberazione, in altre parole lì Gesù proclama la parola del Regno.

Rivolgiamo adesso la nostra attenzione verso il lebbroso, la lebbra e ciò che comporta. Forse pensiamo già di sapere ciò che vuol dire essere lebbroso nel mondo di allora: essere escluso, isolato, staccato. Ma vediamo lo stesso se questo brano particolare aggiunge qualcosa alla nostra  conoscenza.

È una storia davvero particolare. Una storia di guarigione – cioè di purificazione (nonostante che sopra questo passo hanno messo il titoletto: Gesù guarisce un lebbroso, ma nel testo stesso incontriamo la parola purificare). Tutto succede da qualche parte in Galilea, non solo mancano i nomi delle persone, ma anche indicazioni geografiche precise. Il brano precedente finisce dicendo che Gesù andò per tutta la Galilea, predicando nelle loro sinagoghe e cacciando i demoni (Marco 1: 39) e in seguito, Marco 2: 1, si legge che Gesù ritorna a Capernaum. Strada facendo incontra un lebbroso che gli supplica di purificarlo. Il miracolo della guarigione/purificazione avviene fuori dalla città e fuori dalla sinagoga, perfino la grande folla che si raduna spesso intorno a Gesù manca in questo momento. Questa mancanza di spettatori sottolinea una delle più grave conseguenze della malattia. L’isolamento totale e l’essere sbattuto fuori dalla società.

Oggi non posso che pensare agli immigrati, trattati non come dei malati, ma come dei lebbrosi, si trovano in un isolamento e quando provano ad inserirsi nella società la risposta è una risposta di rifiuto, non sempre in modo così terroristico come a Macerata, ma pur sempre un rifiuto. Non vogliamo essere resi impuri da loro. La paura e l’odio che vengono fuori da un atteggiamento simile regna fra di noi. La paura e l’odio, due cose opposte alla fede. La paura vuol dire che non c’è fiducia, mentre la fede è fiducia, l’odio nega il diritto d’esistenza, è il contrario della vita dataci da Dio.

Abbiamo davanti a noi un brano particolare. La purificazione del lebbroso conclude un primo ciclo di racconti sulle attività di Gesù in Galilea. Dopo il suo ritorno a Capernaum Gesù incontra in misura crescente resistenza. La predicazione del Regno, che sta per venire, trova qui una prima conclusione e coronamento: malati guariti, indemoniati liberati dai loro spiriti maligni e lebbrosi purificati dal terribile male.  In tutta la Bibbia c’è il pensiero che è impuro chi è colpito da questa malattia. E quindi chi è colpito da questo male non ha più diritto a un posto in mezzo alla comunità del popolo d’Israele. Ecco come i migranti di oggi a cui non viene ricevuto il diritto a un posto in mezzo alla società.

 L’inizio del racconto indica la solitudine completa del lebbroso. Nei racconti precedenti, malati, indemoniati sono stati portati da Gesù da parenti o amici.

Né la suocera di Simone con la febbre nella casa del genero, né l’indemoniato del primo racconto di guarigione è solo. Malattia e ossessione, in generale, non hanno l’esclusione come conseguenza. La lebbra sì. Ecco perché il lebbroso non ha nessuno che gli porta vicino a Gesù. Deve andare da solo e rischia grosso. È come attraversare un mare con le sue onde. Avvicinando a qualcuno infrange la Tora di Mosè. La sua impurità rende impuri gli altri, ecco perché non può stare in luoghi dove sono molte persone. Siccome è impuro non può entrare nel Tempio e nemmeno in molte sinagoghe. Siccome è ritenuto impuro non può entrare nelle nostre realtà, nelle nostre case, nelle nostre scuole.

Nell’antico testamento la lebbra è vista come una punizione di Dio. Ciò significa anche che può essere guarita solamente da Dio – ecco perché il re d’Israele si sente disperato quando Naaman gli chiede d’essere purificato (2 Re 5: 7). Quindi solo Dio può purificare un lebbroso e sollevarlo dal suo isolamento. Visto così è molto particolare che questo lebbroso va da Gesù e gli dice: se vuoi. Vede in lui un uomo di Dio.

Sono pochi versetti, ma in questi sono espresse molte emozioni. Il lebbroso cade in ginocchio per terra e supplica, dell’altro protagonista si racconta che è mosso a pietà, letteralmente sta scritto: mosso fino alle viscere. Comunque, un aspetto che salta nell’occhio è che questo incontro rende impuro Gesù. Il lebbroso diventa subito puro, ma Gesù  esce danneggiato da questo incontro, un’altra volta si scambiano i ruoli. L’incontro con l’immigrato ci dovrebbe toccare fino nelle viscere, fino a rendere anche noi impuri, solo così si arriva alla radice del problema. Ma forse siamo già impuri, per la nostra lontananza da Dio …

Arriviamo all’ultimo versetto. In un paio di battute succede tanto. Il lebbroso purificato non ubbidisce a Gesù. Non può tacere, ma chi gli darebbe torto!? Anche l’evangelista gli dà ragione. Chi scrive usa qui la parola per il strombazzare ai quattro venti (proclamare) che finora ha usato solo per la predicazione di Gesù. Infatti il lebbroso diventa il primo missionario nel Vangelo di Marco. Prima dei discepoli comincia ad annunziare. Chi è salvato, vuole che anche le altre persone si salvano (Wesley).

Gesù diventa qui persona non-grata nelle città della Galilea. Non ci può entrare perché è diventato impuro, un espulso. Ecco perché l’evangelista racconta che Gesù si trova in luoghi deserti. È li dove abitano i lebbrosi, lontano dalla società degli puri e sani. È lì dove secondo noi devono stare gli immigrati.

L’incontro di Gesù con il lebbroso anonimo svela uno dei più profondi nuclei del vangelo. Il lebbroso è venuto come un espulso dai luoghi isolati verso Gesù. È stato toccato da Gesù ed è diventato puro. In seguito il lebbroso compare come predicatore, come annunciatore, e Gesù sparisce nei luoghi isolati. Si può trovare un’illustrazione migliore della parola di Isaia 53 del servo sofferente che prende su di se le nostre malattie e i nostri dolori?!

Fortunatamente il racconto non finisce con l’isolamento di Gesù. Perché lo scrittore racconta nella stessa frase che Gesù non rimane in pace, nemmeno in questi luoghi isolati. Gli innumerevoli che hanno bisogno di lui lo liberano dall’isolamento, dalla solitudine e lo riportano nel mondo. Fino alla fine lo scambio dei ruoli. Quelli che hanno bisogno di Gesù, lo portano a galla! Gesù e il lebbroso sono uno. È il guarito che annunzia, perché il segreto non può rimanere nascosto, benché percorre la sua strada nel nascosto in mezzo al popolo. Bisogna saperlo trovare. E questa storia ci mostra dove lo possiamo trovare. Siamo coinvolti tutte e tutti, l’esperienza dell’isolamento non ci è estranea. È una condizione che ci riguarda tutte e tutti, perché tutte e tutti noi abbiamo bisogno di uscire dall’isolamento, non solo gli immigrati che abbiamo spinto nel deserto. Dimentichiamo che insieme a loro siamo nel deserto anche noi, nel deserto della nostra vita da cui Gesù ci chiama fuori se veniamo verso di Lui. Amen.

Greetje van der Veer

La mia grazia ti basta

2 Corinzi (11,18.23b-30)12,1-10

 

 

Care sorelle e cari fratelli nel Signore,

il nostro libretto un giorno una parola ha proposto per la predicazione di oggi una parte dell’undicesimo capitolo della seconda lettera di Paolo nel quale ci viene raccontato come l’apostolo ha vissuto durante lo svolgimento del suo ministero.

Nel cap. 11 ciò che è stato letto prima, l’apostolo ha fatto un elenco delle sue esperienze di vita in cui egli ha molto sofferto. Non ha vissuto nel benessere ma piuttosto ha vissuto in cattive condizioni di salute e ha incontrato delle difficoltà facendo il suo lavoro pastorale.

L’apostolo Paolo ci ricorda ora come era il suo vivere durante lo svolgimento del suo ministero.

Immaginate ora un pastore che si chiama Paolo che sta svolgendo il suo lavoro pastorale perché ha sentito Gesù Cristo che lo chiamava.

A causa di Cristo è stato più volte in prigione, a causa di Cristo è stato colpito dai giudei, a causa di Cristo poteva morire, a causa di Cristo è stato più volte destinato a morire durante il suo viaggio missionario da una comunità ad altra.

Insomma, ovunque andava aveva l’ impressione che la sua vita fosse in pericolo. Non era mai tranquillo e persino il suo corpo non godeva di buona salute.

In questi versetti, possiamo fare anche un  confronto tra il lavoro pastorale nell’epoca di Paolo e la cura pastorale che svolge il pastore di oggi ed è necessario che ci riflettiamo.

Spesso noi pastori sentiamo che i membri della comunità dicono che i pastori non sono più come quelli di una volta. Ogni volta fanno un paragone soprattutto gli anziani di chiesa, coloro che hanno vissuto molto nella  comunità e che con passare degli anni  hanno fatto  il  ritratto di ogni loro pastore.

La realtà di oggi è molto lontana da quella di prima e constatiamo che non siamo uguali di razza, di lingua, di cultura, di fede e così i membri delle nostre chiese sono anche diversi perciò  questi testi biblici ci invitano ancora di più  a mettere in discussione per poi accettare che ogni epoca subisce un cambiamento e quindi bisogna capire e conoscere bene il  contesto in cui uno vive. Perciò per essere un pastore o una pastora di oggi,  bisogna avere anche degli strumenti per affrontare una realtà di questo genere.

Chi sono per voi i pastori e le pastore? Che ruolo stanno svolgendo? Che rapporto avete con loro?

Sentite questo che ho ricevuto dal whatsapp che mi ha mandato uno studente della facoltà di teologia. Dice che è una statistica curiosa.

Essere “pastore” è tra le quattro “professioni” più difficili negli stati uniti. Ma è davvero così?

Per tutti un Pastore deve essere:

predicatore, esempio, padre, marito, consigliere, oratore, organizzatore, ministro, uomo di visione, direttore, mentore, consigliere per matrimoni, consigliere per i giovani, amico, tuttofare, conciliante, formatore di leader, insegnante di dottrina, conduttore della lode, intercessore, oltre a questo un Pastore  molto spesso è portiere del locale di culto, autista occasionale dei fratelli che non possono venire alle riunioni, addetto alle pulizie, il primo ad arrivare e l’ultimo ad andare via.

Ogni pastore affronta molte critiche tra cui: la predicazione non è stata soddisfacente, la riunione è durata o troppo o troppo poco ecc.ecc.

«Forse è giunto il momento di considerare il tuo Pastore in modo differente!»

– Il pastore molte volte è la persona più sola della tua comunità. Anche se lo vedi circondato da molte persone, considera che pochissime volte le molte persone che lo circondano sono interessate ai suoi problemi e ai suoi bisogni.

– Rispetta e onora la vita di tutti quelli uomini di Dio che hanno sacrificato tante cose, compreso alcune delle esigenze della propria famiglia per aver risposto alla chiamata di Dio.

– Apprezza il tempo che il pastore ti dedica: non sai quanto di  quel tempo sarebbe apprezzato dalla sua famiglia.

– Se hai un pastore custodiscilo, proteggilo, prega per lui, sostieni la sua visione di fede, ma soprattutto AMALO.

Credo e crediamo che ogni epoca cambia ma il ruolo del pastore essendo chiamato da Dio è veramente quello di dover fare conto con quello che è stato chiamato a fare. Nel cap. 12 l’apostolo Paolo parla della sua visione e rivelazione. Queste parole furono le parole che descrissero l’atteggiamento e il suo apostolato. Egli ebbe una visione, vide Gesù durante il suo viaggio.

Gesù era per lui una rivelazione di Dio. Saulo dunque divenne Paolo il messaggero del Cristo crocifisso e risorto. Il Signore Gesù Cristo disse: La mia grazia ti basta, perché la mia potenza si dimostra perfetta nella debolezza.

Questa frase di Gesù risorto era per lui la sua ispirazione, la lampada ai suoi piedi ovunque andava. Egli capì che la sua chiamata di annunciare la parola della croce comportava un sacrificio, una rinuncia di se stesso, e corpo e anima ne risentivano.

La sua vocazione era di annunciare Gesù Cristo che donò la sua vita per amore al Padre e agli uomini a tutte e a tutti.

Egli capì che questo atto di  sacrificio e di rinuncia era la volontà di adempiere ciò che era giusto per la giustificazione del credente.

Così ovunque andava l’apostolo Paolo, per lui l’incontro con l’avversario e il male che soffriva fisicamente erano una lotta continua.

Il male del corpo  che gli era stato messo  nel suo corpo e l’angelo di satana che lo accompagnavano sono stati i suoi primi persecutori. Era purtroppo costantemente quasi oggetto degli affari dello spirito maligno.

Paolo capì che la sua arma era la parola di Gesù«la mia grazia ti basta>. La mia grazia ti basta, perché la mia potenza si dimostra perfetta nella debolezza.

A mio avviso, all’apostolo Paolo non è mancata quella parola che divenne la sua spada contro al male che ha avuto e ha potuto superare.

Egli conservava quella promessa che si manifestava concretamente ogni volta che affrontava una difficoltà. Davanti a ciò che umanamente era più grande di lui, subentrava la grazia del Signore. Paolo invece con la sua visione e rivelazione di Cristo si fortificava sempre di più. Per ciò che viveva riusciva a trovare la sua forza in lui.  Si sentiva male ma era come se non lo sentisse. Il suo corpo era malato, colpito da tante disgrazie ma il suo spirito viveva e si nutriva della sua visione e rivelazione di Cristo. Ciò che gli dava forza erano queste parole di Cristo: « La mia grazia ti basta, perché la mia potenza si dimostra perfetta nella debolezza. La potenza di Cristo  riposa nella debolezza. Credo che spesso il credente si rifugia in queste parole.

Il pastore di oggi vive in comodità nei confronti del vissuto di Paolo. viaggia in treno, in macchina, in aereo e in nave e il pericolo è minore.

I testi biblici che abbiamo letto che riguardano le esperienze pastorali dell’apostolo ci assomigliano in parte e dipendono anche da dove siamo chiamati a lavorare.

Ma  è importante riflettere se in mezzo alle tribolazioni, alle  persecuzioni, alle preoccupazioni di tutti giorni si trova ancora la gioia di aver trovato l’evangelo in Cristo Gesù. Ciò che è  fondamentale  allora e  oggi,  è come vive un pastore/una pastora questi momenti per poter continuare a svolgere il suo ruolo. Penso che l’apostolo Paolo, per l’ennesima volta ha preso molto seriamente ciò che affermiamo sulla grazia, come uno dei  principi del protestantesimo. Senza la grazia del Signore non possiamo andare oltre, e non troviamo mai la pienezza della gioia(la contentezza) in ogni cosa che facciamo e in ogni circostanza in cui ci troviamo. Questo è valido per tutti, pastori e credenti.

La grazia è quella che abbiamo scoperto e saputo riconoscere come segno che ci dà l’ avvio per perseguire il nostro lavoro e cammino nonostante le avversità che affrontiamo.

Domenica scorsa abbiamo sentito la predicazione della sorella Francesca Agrò, seguita poi dalla testimonianza di Lina che ci ha coinvolti emotivamente ,rispetto alla vita che deve esperimentare  chi vuole seguire Gesù.  Uno che crede o che vuole seguire il cammino di Gesù Cristo è un credente cristiano che inevitabilmente viene perseguitato.

La parola persecuzione (come oppressione, maltrattamento, tortura) è molto pesante da supportare ma questo è caratteristico di chi vuole seguire Gesù. Questo è il risultato di una scelta ponderata. La decisione da intraprendere è in ricerca di  qualcosa che uno ritiene più importante, più prezioso come gli insegnamenti che traiamo dalle  parabole di Gesù raccontate allora nel vangelo di Matteo cap. 13 dal 44-46.   L’uomo avendo trovato qualcosa di più prezioso ha rinunciato a tutti i suoi averi che per tanti anni ha acquisito come suo possesso .

La gioia che provava Paolo nonostante la sofferenza che continuamente lo perseguitava o che non lo mollava è stato il frutto della grazia che ha ricevuto dalla rivelazione del Signore. Penso che  la grazia del Signore sia la gioia che abbiamo sentito noi credenti in lui quando abbiamo potuto superare ogni passaggio doloroso nella vita. Gesù nel suo vissuto sulla terra e nello  svolgere il suo ministero non  ha illuso nessuno. L’obbedienza al comandamento di Dio è  un vivere la realtà più viva che grazie all’assunzione della propria responsabilità diventa un vivere di gioia e di pace. Gesù pregò «padre mio, se è possibile passi oltre lontano da me questo calice. ma non come voglio io,  ma come vuoi tu» Matteo 26,39 e l’apostolo disse «8 Tre volte ho pregato il Signore perché l’allontanasse da me; 9 ed egli mi ha detto:  La mia grazia ti basta, perché la mia potenza si dimostra perfetta nella debolezza». (2 Corinzi 12,8-9) La grazia è quella forza che non ci viene mai a mancare e va oltre il nostro limite umano e per chi ha ricevuto la parola della conoscenza di Dio è la rivelazione stessa di lui che dà la prova della sua esistenza.

Questa forza ci dà  vita ed è vitale per noi, nelle circostanze particolari per superare le difficoltà che incontriamo. «Tutto concorre al bene per quelli che amano Dio».

Penso alla comunità composta da credenti come la nostra ai quali, agendo insieme, Dio concede la grazia. La grazia del Signore sia con tutti noi. Amen

past. Joylin Galapon

 

La chiamata di Paolo

1 Corinzi 2,1-10

Care sorelle e cari fratelli nel Signore,
fra qualche giorno, dal 18 al 25 gennaio, noi cristiani, cattolici, protestanti e ortodossi, celebriamo la settimana di preghiera per l’unità dei cristiani. Il tema scelto dalle chiese di Caraibi è tratto dal libro di Esodo cap. 15, 6: «Potente è la tua mano, Signore/Lord, Thy Right Hand is Powerful». Al Signore appartiene la mano potente che è capace di liberare un popolo da qualunque sfruttamento dell’uomo su uomo in ogni tempo.
Collegandomi alla prima lettera di Paolo ai corinzi per la predicazione di oggi, in parte, vediamo che la Parola è stata annunciata sin dal principio. Il mistero di Dio che è stato nascosto in Cristo Gesù crocifisso, risuona di nuovo alle orecchie dei credenti. Tale parola è ancora nascosta a molta gente ma è stata rivelata a quelli che sono amati da Dio.
La predicazione della croce, Gesù Cristo crocifisso è stato annunciato dall’apostolo Paolo e continua ancora a manifestare la sua potenza. Con il dialogo ecumenico, il dialogo dei cristiani e non solo, assistiamo al cambiamento a cui conduce la parola di Dio, che porta a unire i loro doni cioè la comunione dei doni spirituali. Lo Spirito di Dio si muove e mette in evidenza la sua capacità persuasiva per portare avanti il cammino cominciato. Lo spirito afferra, accompagna, soccorre e soprattutto salva l’intera creazione.
Quali sono le sue opere nella nostra epoca? La nostra comunione che è basata sulla parola del donarsi. Ci regala la vera sapienza della verità che solo con il dono dello Spirito, l’uomo credente può cogliere.

Gli esseri umani spiritualmente maturi nella nostra epoca, sono quelli che sono mossi dall’amore ed essi sono gli operatori di pace, che cercano di vincere le gelosie e i contrasti nelle comunità. Le chiese si ricordano che la maturità nella fede sta anche nella capacità d’ascolto di ciò che lo Spirito di Dio suggerisce per essere dei promotori di pace, e non per suscitare la gelosia e il contrasto.
L’autentica sapienza è qualificata da unità e umiltà e non da una conoscenza superiore e dalla retorica.
Il mondo di oggi è pieno di dominatori, di principati, dotato anche e soprattutto di sapienza umana. Il Dio vivente invece è entrato nel mondo per dimostrare la sua potenza e sapienza attraverso la persona di Gesù. In lui ha rivelato il suo mistero nel mondo stesso. Il suo Spirito continua a farsi conoscere dagli spirituali, dagli uomini maturi perché in loro si riconoscono l’unità e umiltà, ed è proprio nell’atteggiamento di umiltà che essi possono raggiungere l’unità , così, nell’insieme dei credenti si rivela e si manifesta pienamente la volontà di Dio.
Gli spirituali che hanno la mente di Cristo ossia la capacità di giudicare ciò che è vero da quello che è fasullo, fittizio devono fare opera di discernimento.

L’esempio di atteggiamento di umiltà di Gesù coincide con ciò che l’apostolo ha voluto essere davanti ai credenti e di conseguenza nella comunità dei credenti. Nella predicazione di Paolo si verifica la predicazione di Cristo crocifisso. Gesù Cristo e il predicatore hanno questo in comune, essi riconoscono la grandezza di Dio nel suo manifestare la sua volontà nelle situazioni concrete della vita dell’uomo. Lo Spirito è l’unico che attesta la veridicità del messaggio attraverso il frutto che è opera della sua azione nell’uomo.

A noi credenti in Dio dopo più di 2000 anni, rimane il fatto che non abbiamo ancora pienamente conosciuto tutto di Dio così non possiamo pretendere di sapere tutto, anche se siamo chiamati spirituali e considerati amati da Dio.
Quando professiamo che noi crediamo che Gesù è il figlio primogenito di Dio, che in lui è stato rivelato e nello stesso tempo in Gesù è nascosta la sua sapienza, il nostro vivere è come dice Bonhoeffer «nella storia di Dio siamo partecipi del suo progetto di salvare l’umanità».
Quando noi diciamo che Dio conosce tutto in anticipo, in realtà diciamo qualcosa che non è corretto, perché per Dio non c’è nessun prima e nessun dopo. Tutto il tempo o, meglio ancora, tutta l’eternità è presente per lui nello stesso momento. A ciascuno di noi, esseri umani, sono dati soltanto dei segmenti molto corti dell’eternità come tempo.(John Wesley).
Come il salmista conferma che l’uomo:
«Il suo fiato se ne va, ed egli ritorna alla sua terra; in quel giorno periscono i suoi progetti (Salmo 146,4)
E l’evangelista Matteo ci ricorda ora anche che: «nessuno di noi può con la nostra preoccupazione aggiungere un’ora solo alla durata della nostra vita» come lo leggiamo in Matteo cap. 6 verso 27: «Chi di voi può con la sua preoccupazione aggiungere un’ora solo alla durata della sua vita?» (Matteo 6,27)

Lo Spirito istruttore, scrutatore, investigatore, che è la mente di Gesù, è in comunione con lui e lo stesso con il credente(l’uomo spirituale) per dare testimonianza della potenza della forza creatrice e generatrice di Dio che si manifesta nel momento opportuno nella storia dell’uomo.

L’apostolo dicendo «io» in prima persona, in questa epistola sceglie un modo di porsi davanti ad altri ossia a coloro che accettano e confessano di credere nella predicazione della croce. Egli ha scelto con l’aiuto dello Spirito dove collocarsi e ha scelto anche l’atteggiamento d’umiltà per rendere quel messaggio della croce più efficace .

Dunque, egli si sottomette, riconosce che questo messaggio che Dio gli ha rivelato è più grande e più forte di lui, è un mistero inafferrabile, che non può diventare di possesso di qualsiasi essere umano.
La sapienza di Dio è stata rivelata per mezzo di Gesù, il Cristo, consacrato, unto di Dio, colui che è stato crocifisso. Il messaggio della croce è stato annunciato dall’apostolo Paolo con umiltà: timore e tremore e la sapienza di Dio è stata rivelata perché Gesù ha dato risposta di piena adesione alla sua volontà, la risposta di amore che supera ogni limite umano.
Noi cristiani vediamo e esperimentiamo la nostra incapacità di unirci nella fede in Dio perché oscilliamo per la nostra stessa natura.
Mi vengono in mente queste diverse ipotesi:
Noi ci definiamo cristiani ma non siamo pienamente umili.
Ci piace essere in prima fila, ci piace essere considerati intelligenti.
Questa lettera di Paolo ai corinti ci serve ora per misurarci, per capire dove siamo arrivati , soprattutto noi ministri della parola, quale parola di Dio annunciamo, e quanto spendiamo di energie, forze, tempo, volontà per dedicarci ad essa stessa nell’ascolto per poi annunciarla e praticarla. Le comunità, i seguaci di Cristo Gesù si riconoscono attraverso la nostra predicazione?. Quanto tempo dedichiamo a questo messaggio?.
Noi pastore e pastori siamo capaci di rinunciare a noi stessi , a metterci a disposizione di questo vangelo di Dio?
Oppure attraverso questa parola ci siamo fatto grandi? o siamo diventati famosi scavalcando il messaggio d’umiltà che Gesù ha portato proprio sulla croce, e ha provato a dimostrare che cosa vuol dire essere umile davanti a Dio?
Il mistero di Dio, della sapienza di Dio si manifesta soltanto quando siamo in grado di fargli posto nel nostro cuore.
La Sapienza di Dio dà dimostrazione del suo amore. L’amore di Dio che è capace di giudicare chi vive spiritualmente, colui che è maturo nelle decisioni riguardo alla vita reale. Non si gonfia, non si vanta, ma ama conoscere il vero che non delude. Non si illude.

Si legge nella Bibbia: «La sapienza di Dio è rivelata nell’umiltà nei suoi confronti. Lui è il primo e ultimo, l’Alfa e L’omega. E’ così veramente nel nostro agire?

La forza creatrice di Dio si rivela nell’atteggiamento di umiltà dell’uomo. Lo Spirito di Dio ne è testimone. Nessuno dei credenti è in grado di dare un giudizio su di lui ma proprio per questo motivo questo fa parte ancora del mistero di Dio perché è lui che scruta, lui che conosce i cuori di ognuno e di ognuna di noi.

I giudei chiedono i miracoli, i greci cercano sapienza ma chiediamo a Dio di aiutarci a predicare il suo Vangelo: il Gesù Cristo crocifisso. Cristo potenza di Dio, sapienza di Dio, in lui è il sì di Dio.

Quando le chiese sono e saranno capaci di parlare di quale messaggio e predicare , con il comune intento di testimoniare il Cristo Crocifisso possono e potranno sentire il suono, la voce dello Spirito che attesta ciò che è di Dio.
La priorità dell’annuncio della sapienza di Dio è lo scopo della rivelazione di Dio che è comunione, unione e umiltà nei suoi confronti.

Trattando questo brano bisognerebbe distinguere l’intellettuale dal sapiente, e l’uomo spirituale da quello naturale. La forza del messaggio dell’ evangelo è stata manifestata in Paolo perché lui ha scelto ciò che proviene dello Spirito Istruttore : un linguaggio che svela le cose che sono di Dio, non retorico, non filosofico, e non per gli intellettuali del mondo che intendono solo dominare.
Non confondiamo anche in questo brano, il pensiero di Paolo con ciò che è l’intento dello scienziato, colui che ama la ricerca per spiegare meglio il mondo e per illuminare e superare l’ignoranza dell’uomo.
La conoscenza dell’uomo scienziato, progredisce proseguendo la sua ricerca, amando ciò che egli stesso può arrivare a capire della sua esistenza. Il progresso ottenuto è ciò che lo porta avanti a scoprire quello che non è ancora conosciuto. I ricercatori sono i primi ad aiutarci a capire a che punto siamo ma solo per ciò che riguarda il mondo naturale e non quello spirituale . L’uomo che cerca lo spirito di Dio è colui che con la sua fede è capace di giudicare ciò che è vero, autentico dal fasullo nella realtà del mondo.
La nostra salvezza nel mondo in parte è nelle mani di chi fa un lavoro di ricercatore per farci capire dove non possiamo andare per evitare il pericolo e ciò che possiamo fare per tenerci in piedi.
Ma ricordiamo che le cose di Dio sono svelate nel tempo, in un arco di tempo che continua finché il mondo esiste. Il ritorno dell’uomo ad essere consapevole di se stesso, può avvenire con un passaggio per lui molto doloroso perché spesse volte si sente umiliato davanti ad un fallimento, e si auto definisce perdente o incapace, però accettando il proprio limite e non negandolo può trasformare ciò in motivo di crescita e di miglioramento.
Riconoscersi dunque creatura di Dio significa vivere la sua realtà vera. È un dato di fatto. L’uomo nella sua vita, fa esperienza di ciò che gli darà poi la saggezza, la sapienza che nel conoscere Dio avrà più possibilità di capirsi e capire il mondo in cui vive.

L’apostolo Paolo con la sua chiamata ad essere predicatore del Cristo crocifisso ha potuto trarre dei benefici. Dunque ha scoperto e conosciuto Dio per mezzo di Gesù Cristo crocifisso.
Egli ha creduto alla parola della croce. «Io»come egli dice. La predicazione della croce è per lui convincente a partire dalla sua esperienza di vita e dal cambiamento della sua vita stessa. Questo fatto ha reso il suo messaggio e lui che lo annuncia credibili. Egli ha sperimentato la conversione e questo è per opera dello spirito santo. Credere in Dio attraverso la lettura delle Sacre Scritture, significa aprirsi al mondo, dove si muovono tutti. Un credente può essere definito un bambino nella fede o maturo perciò questa lettera di Paolo ai Corinti è fondamentale per capire il percorso che bisogna fare, il percorso della vita.
L’io di Paolo è molto importante per noi oggi. perché? Perché a partire dalla sua testimonianza , egli ha sperimentato una vera conversione personale. In lui possiamo misurarci, soprattutto, noi predicatori e predicatrici(noi che assumiamo il compito della predicazione del Vangelo, la Parola di Dio. Possiamo esaminare il nostro lavoro di predicazione dell’annuncio della Parola in cui esponiamo la parola di Dio e non per far vedere quanto siamo bravi nell’ esporre con intelligenza o perché siamo diventati esperti nel parlare della parola di Dio.
Le chiese spendono denaro per mantenere i pastori e le pastore ma proprio perché credono che loro annunciano la parola di vita. E’ innanzitutto , una priorità che annuncino la Parola di consolazione e di salvezza. Quella che fa crescere noi e non ci permette di rimanere le stesse persone di prima. Attraverso la predicazione arriva a noi la Parola che salva, che propone delle soluzioni, che dà degli spunti o dei rimedi ai problemi del mondo intero , che si preoccupa di come la fame, l’ingiustizia, la disuguaglianza vadano affrontate. Credo a questo punto che ogni credente ha bisogno di ascoltare la parola della croce per essere illuminato, alimentato e poi perché cresca.
Con questa Parola, l’apostolo Paolo riusciva ad annunciare efficacemente, quello che è stato riservato agli amati da Dio. Egli capì sin dal principio della sua vocazione che poteva essere lui il tramite di Dio e i credenti per arrivare a capire la sapienza, cose misteriose di Dio. «la profondità di Dio, ma nello stesso tempo ammettere che la sapienza di Dio è insormontabile(insuperabile) ».
Con il suo atteggiamento di umiltà e non con parole umane retoriche, ha potuto anche convertire i pagani, gli stranieri, coloro che non sono stati chiamati nella chiesa ma sono diventati e riconosciuti come eredi della salvezza perché Dio ha esteso la promessa della salvezza all’umanità intera.
L’evangelo di Dio che Paolo annunciava è quella parola che conosce lo Spirito, il linguaggio dello Spirito di Dio stesso che nell’uomo credente riesce a farsi capire. Lo Spirito e gli spirituali maturi sono in comunione. Il linguaggio dello Spirito si incarna negli spirituali in questo mondo affinché annunzino, proclamino l’evangelo della croce, sapienza del Dio vivente.
Che il Signore ci aiuti a svolgere la nostra missione. A voi fratelli e sorelle pregate per noi che esercitiamo il ministero della parola così potremo annunciare fedelmente la parola che è stata rivelata in Cristo Gesù sulla croce, segno della comunione d’ amore di Dio padre, figlio e spirito santo. Amen.