L’autentico digiuno

Isaia 58,1-9a
Noi protestanti, ascoltando la parola che Dio ci rivolge mediante il profeta, siamo esposti a un rischio, che può renderci completamente sordi di fronte a ciò che il Sigmore ci vuol dire: pensare che le opere esteriori, come ad esempio il digiuno, siano inutili, o addirittura da condannare. Una cosa da monaci, o comunque da cattolici, non da protestanti illuminati come siamo noi…
Beh, teniamoci per detto che Gesù digiunava. Non sempre, certo, infatti i suoi avversari dicevano che era un mangione e un ubriacone: ma conosceva l’importanza di praticare la disciplina anche esteriore del corpo, per meglio disporlo all’obbedienza a Dio. Non parliamo dell’apostolo Paolo, che dice di trattare il suo corpo duramente, anzi, di ridurlo in schiavitù, affinché non accada, aggiunge, che dopo aver predicato agli altri venga egli stesso condannato. E anche in questo passo, non si dice che il digiuno come tale è sbagliato: anzi, Israele si sforza di praticare una vita pia, ricerca i giusti giudizi di Dio. E il digiuno può essere assunto come simbolo della cosiddetta spiritualità: preghiera quotidiana, lettura della Bibbia, frequentazione regolare del culto. Insomma, le buone abitudini religiose. Israele le coltiva. Però si accorge che Dio guarda dall’altra parte, che è arrabbiato con il suo popolo. E si chiede: ma come?! Noi ci diamo un gran da fare e il Signore non si accorge di noi?
Di nuovo: il punto non è che il digiuno sia sbagliato, che la opere pie siano inutili, ma che non bastano. Non si possono separare le opere della religione dalla pratica della giustizia. Dice Dio, attraverso il profeta: voi siete tanto religiosi, ma anche nel giorno del digiuno opprimete coloro che lavorano per voi; siete religiosi, ma litigate in continuazione. Siete così presi dalla vostra religione, che non vi accorgete della violenza, dello sfruttamento, dell’oppressione che attraversano la società.
Non è difficile trascrivere nel nostro tempo le parole che Dio mette in bocca a Isaia. Anzi, in un certo senso è fin troppo facile, devo stare attento a non giocare a fare il profeta, perché Dio parla anzitutto a me, il che qui significa contro di me.
Con tutta la tua religione, la tua teologia e la tua predicazione, dice il Signore, vedi di non scordarti che le persone, a decine, a centinaia, rischiano ogni notte di morire di freddo sotto casa tua. Con tutta la tua religione, la tua teologia e la tua predicazione, dice il Signore, vedi di non scordarti che tra qualche settimana nel tuo paese ci saranno eserciti di disoccupati: ci sono già ora, ma saranno molti di più quando finirà il blocco dei licenziamenti. Con tutta la tua religione, la tua teologia e la tua predicazione, dice il Signore, vedi di non scordarti delle persone che si aspettano un aiuto, materiale o d’altro genere, precisamente da te. Vedi di non scordartelo, perché questo è il vero digiuno, cioè la vera religione, la vera teologia, la vera predicazione.
Un’ultima volta: non vuol dire che andare in chiesa, nel mio caso occuparmi di teologia, cercare di predicare, o di ascoltare con attenzione la predica, sia sbagliato: ma che fare bene queste cose richiede compierne anche altre, richiede una vita che non è solo domenicale, ma che investe l’intera settimana, la normalità dell’esistenza.
C’è ancora un rischio che dobbiamo evitare: non ci viene chiesto di fare grandi proclami sulla giustizia sociale, di sciacquarci la bocca con parole impegnate contro la povertà o lo sfruttamento. Di questa chiacchiera ecclesiastiche il Signore non sa che farsene; non hanno nemmeno la relativa ma concreta utilità delle buone abitudini spirituali. Non si tratta di proclami, ma di piccole cose, che però sono alquanto impegnative.
Tanto per cominciare, per due volte il profeta se la prende con i litigi e con le accuse reciproche. Sembra che consoca le nostre comunità! E’ vero o non è vero che le nostre chiese, spesso, sono tossiche, ambienti dove rischiamo di soffocare perché siamo impegnatoi in scontri per bande? Ebbene, dice Dio, iniziate a digiunare rispetto al litigio. Sembra ovvio, sembra banale, ma non lo è. E’ questione di vita o di morte, specie nella chiesa.
E poi non ritiratevi nelle vostre mura religiose. Frequentatele, andate in chiesa, leggete la Bibbia, pregate, ma non chiudete gli occhi davanti al bisogno dell’altra persona, che vi incontra. Non si tratta nemmeno di andarla a cercare: vi incontra. Dietro i mille angoli della vita.
Non si tratta di un compito facile. Sentite però qual è la posta in gioco: se ti ci metti, la tua luce spunterà come l’aurora, la tua guarigione germoglierà prontamente; la tua giustizia ti precederà, òlla gloria del Signore sarà la tua retroguardia. Allora chiamerai e il Signore ti risponderà, griderai ed egli ti dirà: Eccomi!
Direi che vale la pena provare.
Amen
prof.  Fulvio Ferrario

Il Seminatore stolto

 

Difficile dire qualcosa di sensato e nuovo su questa parabola. Da sempre è una delle immagini che abbiamo più a memoria, nel cuore tra i racconti dell’Evangelo. Dalla scuola domenicale al catechismo agli studi biblici sulle parabole questo è sempre un brano centrale.

«E disse una parabola». Parabola è  “ciò che è gettato accanto” nel senso una analogia un paragone, un esempio. Dodd ci spiega che la parabola è una metafora tratta dalla natura e dalla vita quotidiana, che colpisce chi ascolta per la sua originalità e lo lascia in quel minimo di dubbio riguardo il significato dell’immagine sufficiente a stimolare il pensiero”

L’ascoltatore ha una partecipazione attiva pensa e propone interpretazioni. Quello che ci è chiesto da Gesù è di essere “Ascoltatori responsabili.” Nella parabola non c’è controllo da parte dell’oratore, ma c’è partecipazione perché le parabole devono essere masticate, digerite, interpretate. Rivelano e nascondono. La parabola: simbolo che stupisce, che cresce, che si rivela dentro ognuno, uomo o donna, con modalità ogni volta nuove. La parabola scuote, svela, vela. I simboli, le parabole nascondono, ma anche svelano messaggi nel silenzio della loro profondità, che ogni donna e ogni uomo leggono con una propria personale chiave. Personale. Perché l’omologazione di questo miracolo della parola dentro ogni donna e ogni uomo è la morte della parola stessa, una morte che colpisce tutti. Tassello del grande mosaico dell’amore di Dio svelato da Gesù, la Parola è offerta a tutti coloro che “ascoltano”, libera di raggiungere le donne e gli uomini che sono “fuori”. Fuori dalle case, fuori dai palazzi del potere e delle gerarchie di ogni religione. Ogni parabola contiene molto di più di quello che sembra. Ogni parabola nasce, si forma dalla visione della vita, dalla visione della vita e dalla conoscenza dell’Amore del Padre di cui Gesù è intriso. Dall’incarnarsi nella vita. Il seminatore, il buon pastore, la vigna, il padre misericordioso, il samaritano ecc

Nel raccontarle Gesù vuole aprire la nostra mente e il cuore a qualcosa di nuovo.

In Matteo la parabola inizia con Ascoltate. In Luca c’è disse.

In quell’ascoltate c’è tanto, anche troppo. Ascoltate non sentite. Ascoltate ciò ponete attenzione. Sto per dirvi qualcosa che cambierà la vostra vita e la vostra fede. Ascoltate e riflettete su quello che udite e cambiate…. In una parola Convertitevi.

Quanto è difficile oggi ascoltare l’altro, farsi mettere in crisi, dialogare e convertirsi. E tanto più ascoltare la Parola. E farsi mettere in crisi e incarnarla in vita. E convertirsi.

Il Dio di Gesù chiede di ascoltare, non ordina, non impone. SI pone in un dialogo

Il seminatore uscì a seminare. Luca, ma anche Matteo, usa il non un seminatore ma il Seminatore. Il seminatore primo, il più importante. Che fa il seminatore. Ho visto su FB delle foto dell’orto di Gregorio.  Forse lui era più adatto a spiegare questa parabola. Nel suo orto lui dà vita, feconda la sua vita, condivide con i vicini, seminando. Lo stesso  Italo.

Il Seminatore, non un. E forse questo diventa uno dei più belli nomi di Dio.

Il seminatore esce solo, non è importante essere tanti ma essere accesi, attenti, vigili, attivi e operosi

Si esce per seminare e per incontrare. Perché solo sulla strada e nei campi c’è la vita: gli uomini e le donne, l’incontro, il Dio di Gesù. La casa, le Chiese, le religioni ci nascondono, ci creano recinti e zolle di terra dove il seme non trova il terreno fertile, il terreno della fede, ma solo quello della religione. Se rimaniamo al chiuso…Stare in strada ci aiuta a fonderci anche con quell’uomo di strada che è Gesù. Ma soprattutto ad uscire dalle nostre certezze. Non sappiamo cosa ci aspetta là. È lo stupore e la meraviglia dell’ignoto e della novità.

Seminatore, rovi, strada, rocce. Questo seminatore è uno stolto? Uno che semina ovunque anche sulla strada, anche tra i rovi, anche tra le rocce? Il seminatore non scarta, anzi. Dà ad ognuno una possibilità sempre nuova, che andrebbe persa altrimenti. La semina è da sempre un nuovo inizio. Che errore aver perso la profondità di questo. Ma soprattutto la paura che ormai domina dentro i templi, è annidata contro “il nuovo”! Semina soprattutto fuori dal solco, perchè non c’è solco. Infatti nell’antico mondo si arava dopo la semina.

Stolto, semina non solo nei campi religiosi, nei campi delle sinagoghe, delle Chiese, dei templi delle religioni, ma ovunque, perché ovunque c’è l’uomo.

Non è distratto o maldestro, è invece uno che spera anche nei sassi, un prodigo inguaribile, imprudente e fiducioso. Un sognatore che vede vita e futuro ovunque, pieno di fiducia nella forza del seme e in quel pugno di terra e rovi che è l’uomo. Ma io sono anche il seme cambiando prospettiva. Sono il seme e sono il terreno. Che parla addirittura di un frutto uguale al cento per uno, cosa inesistente, irrealistica: nessun chicco di frumento si moltiplica per cento. Un’iperbole che dice la speranza altissima e amorosa di Dio in noi.

Una cosa mi colpisce: la grandissima positività di questo racconto.

Il seminatore è uno aperto alla vita, al futuro, è uno che anticipa la primavera e l’estate. Che crede nel seme e nel futuro raccolto. A prescindere dal terreno.

Che seme è quello gettato? Non è importante, è importante il percorso che il seme fa. È importante il processo di trasformazione e di cura che la terra buona offre per la nascita di una pianta. È il processo di amore di gioia, di tenerezza, di giustizia ma soprattutto di fiducia che trasforma i semi gettati nel nostro quotidiano da sconosciuti seminatori e dal Seminatore che trasformano, il domani del seme, con fiducia, perché la forza non è nel seminatore, ma nel seme; la forza non è in me, ma nella Parola. Che non tornerà a Dio senza aver portato frutto.

Come abbiamo ascoltato dal libro del profeta Isaia: «Come infatti la pioggia e la neve scendono dal cielo / e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, / senza averla fecondata e fatta germogliare, / perché dia il seme a chi semina e il pane a chi mangia, / così sarà della mia parola uscita dalla mia bocca: / non ritornerà a me senza effetto, / senza aver operato ciò che desidero / e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata» (Is 55, 10s.).

 

Ogni giorno usciamo con la nostra vita…e cosa seminiamo? Su quale terreno….

Ultimamente sia con fratelli e sorelle di chiesa, sia in Consiglio è uscita tante volte e troppe la parola Testimonianza.

Ma non, o meglio non solo una testimonianza che diciamo è legata alla diaconia, ma la testimonianza che ci dovrebbe essere propria in quando confermati nella fede in Gesù Cristo. Una testimonianza che ci fa sperare con fiducia un raccolto dell’80, del 100…..

Una testimonianza che non è il pesante peso delle parole della Scrittura Ma sono le parole della scrittura che ci rendono felici, gioioisi perché noi abbiamo ricevuto e fatto crescere quel seme ricco gettato dal seminatore solitario.

Un seme che cresce perché c’è la cura del seminatore, perché c’è un terreno buono, perché si crea una dinamica positiva tra terreno e seme. E cosa testimonio? Il peso, la fatica, la croce, le facce tristi?

Una cosa che mi ha sempre colpito nelle nostre chiese è giustamente la croce senza un uomo. E la risposta che mi fu data decenni e decenni fa: Non c’è il corpo perché il mio Signore è risorto.

Il seminatore aperto al futuro con gioia è colui che crede e semina ogni giorno, su ogni terreno, su ogni difficoltà un seme frutto del Signore risorto.

Fa allegria questo seminatore. Allegria…

Il seminatore non è il re potente che si aspettava Israele, è uno che con la fatica del suo lavoro vive e costruisce la primavera.

Voi andate tranquilli a seminare, dice  Gesù,  anche oggi che è  un tempo così difficile, pieno di spine e sassi. E quanto pesano nella nostra quotidianità queste spine e questi sassi…

Pesano nel pessimismo che ci attanaglia, pesano nelle zavorre che ci costruiamo per non fare. Ci limitano nel gridare la nostra gioia nell’essere cristiani, quasi a vergognarci o a dire che la nostra fede è diversa. Gesù sembra ricordarci in ogni brano: non preoccupatevi. Se avete fiducia in me di cosa dovreste aver paura. La speranza troppe volte la vediamo come l’ultima spiaggia, ma la speranza del cristiano è tutt’altro…. E quella croce senza un corpo.

Gesù sembra dirci: non ve ne fate una preoccupazione. Andate avanti. Se anche le panche si svuotano, le persone giovani si dileguano e magari i vostri figli non vi prendono sul serio, pensano solo ai loro impegni o anche sembrano perdersi dietro a interessi che non giovano alla loro vita, voi continuate a seminare.  Non lasciatevi convincere che tanto è tutto inutile. Perché questo è il rischio più grave: chiudere la nostra fede e la nostra semina nel chiuso di noi stessi.

Portiamo frutto, la pianta germoglia solo se i semi e la terra si coinvolgono. Se noi ci facciamo coinvolgere da Dio e dalla sua Parola, ma soprattutto se la Parola coinvolge noi e la nostra quotidianità

Un racconto minimo, che funziona come un carburante: lo leggi e accende idee, evoca immagini, suscita emozioni, avvia un viaggio

Un inno pieno alla vita, a voler vivere in pienezza, crescendo, fiorendo, donando il frutto, perché si moltiplichi vita

“Il frutto non è garantito, certo, e non è immediato, ma se non si semina è certo che non ci sarà raccolto” . (C. M. Martini)

Amen

Fabio Perroni

La trasfigurazione e il testimone oculare

2 Pietro 1:16-21

Infatti vi abbiamo fatto conoscere la potenza e la venuta del nostro Signore Gesù Cristo, non perché siamo andati dietro a favole abilmente inventate, ma perché siamo stati testimoni oculari della sua maestà.  Egli, infatti, ricevette da Dio Padre onore e gloria quando la voce giunta a lui dalla magnifica gloria gli disse: «Questi è il mio diletto Figlio, nel quale mi sono compiaciuto».

E noi l’abbiamo udita questa voce che veniva dal cielo, quando eravamo con lui sul monte santo.  Abbiamo inoltre la parola profetica più salda: farete bene a prestarle attenzione, come a una lampada splendente in luogo oscuro, fino a quando spunti il giorno e la stella mattutina sorga nei vostri cuori.  Sappiate prima di tutto questo: che nessuna profezia della Scrittura proviene da un’interpretazione personale; 21 infatti nessuna profezia venne mai dalla volontà dell’uomo, ma degli uomini hanno parlato da parte di Dio, perché sospinti dallo Spirito Santo.

 

 

Care sorelle e cari fratelli nel Signore,

Il testo su cui siamo chiamati a riflettere oggi ha il punto centrale radicato sulla trasfigurazione di Gesù sul Monte Santo. Questo fatto è narrato nei tre vangeli sinottici: Matteo, Marco e Luca. Pietro introduce il versetto 16 con la parola “infatti” nel voler confermare, giustificare e attestare ciò che aveva visto e udito. Pietro, Giacomo e Giovanni erano sul monte, insieme a Gesù, videro e udirono la testimonianza di Dio della verità, ciò che il Padre di Gesù ha detto e confermato su suo figlio. In quel luogo la relazione figliale di Gesù con il Dio Padre venne rivelato.

Nella Trasfigurazione di Gesù erano 3 gli apostoli che avevano assistito alla trasformazione di Gesù. Pietro, Giacomo e Giovanni vissero una visione in cui mentre Mosè e Elia conversavano con Gesù, si è udito una voce, che dichiarava la figliolanza divina di Gesù. L’apparizione di Mosè e di Elia, i due eletti da Dio nel passato per compiere un ruolo importante nella vita del popolo di Israele, fu una rivelazione decisiva per significare la continua presenza di Dio nel percorso della salvezza dell’umanità.

Gesù ammonì gli apostoli di non divulgare ciò che avevano visto e udito prima che fosse risuscitato dai morti. Egli disse: «Non parlate a nessuno di questa visione, finché il Figlio dell’uomo sia risuscitato dai morti»”.

Nella Trasfigurazione di Gesù gli apostoli udirono la voce di Dio. Nella traduzione della nuova riveduta leggiamo queste parole: «Questi è il mio diletto Figlio, nel quale mi sono compiaciuto». Troviamo invece nella seconda edizione del Nuovo Testamento della Bibbia della Riforma questa traduzione: «E’ lui il Figlio mio, il mio amato, in lui mi sono compiaciuto». Quest’ultima ci appare molto diretta, delineando in maniera più forte la figura di Gesù.

Cara comunità, in questa lettera di Pietro vediamo emergersi la relazione fra il testimone e la veridicità della sua testimonianza nella trasmissione di ciò che realmente è avvenuto. Nell’evento della trasfigurazione di Gesù, la voce udita dagli apostoli li rese degli inviati autorevoli dal momento che furono partecipi di tutto ciò che sarebbe accaduto fino alla Sua morte e risurrezione.

Nel libro degli atti al capitolo 2, Pietro fece un discorso con gli undici e si espresse ad alta voce: «Gesù il Nazareno, uomo confermato da Dio tra di voi tramite opere potenti e straordinarie, con segni che Dio fece in mezzo a voi, attraverso di lui, come sapete, consegnato a voi per mano di iniqui, in base al disegno stabilito e alla prescienza di Dio, inchiodandolo alla croce, voi l’avete ucciso, ma Dio lo ha risuscitato». Egli disse ancora: «Questo Gesù, Dio lo risuscitò, tutti noi ne siamo testimoni».

Per questa ragione, il ruolo di un testimone oculare è indispensabile per attestare la veridicità del racconto avvenuto. Pietro era stato chiamato, eletto ed inviato per annunciare che Gesù è il figlio di Dio. Quindi, oggi colgo l’occasione per ricordarci la chiamata dell’apostolo Pietro ad essere uno dei testimoni oculari nella trasmissione della fede, attraverso ciò che la lettura della Bibbia infonde in noi ed a prestare attenzione per evitare come dice l’apostolo Paolo agli Efesini 4,14: «sballotati  e portati qua e là ad ogni vento di dottrina» . Dobbiamo leggere la Parola in Cristo, la parola in maiuscola e meditarla, cercare di capire il suo vissuto sulla terra fino al compimento della volontà del Padre.

Secondo il  commento del prof. Bruno Corsani, su questo brano nei versetti  16-18 la caratteristica tipica dell’insegnamento apostolico è di essere una narrazione di fatti: “i precisi avvenimenti della vita storica di Gesù, narrati da uomini che vi hanno preso parte come testimoni oculari, ma anche come credenti capaci di discernere la dimensione divina. E’ tipico che questa vicenda storica sia vista culminare nella Trasfigurazione (v. 17), che effettivamente i Vangeli sinottici collocano al centro della vita di Gesù.”

In Marco 9:2-13, troviamo infatti il momento in cui la parola di Dio proveniente dal cielo(dalla magnifica gloria) ha dichiarato che l’uomo Gesù era l’Eletto di Dio, pienamente partecipe della gloria del padre (cfr.  Gv.1,14).

I versetti da 19 a 21 accanto alla testimonianza apostolica si erge come la base della fede e il muro contro le eresie della testimonianza dei profeti dell’Antico Patto; essi erano le luci accese in preparazione e in attesa della venuta di Cristo.

Nella venuta di Cristo le profezie trovano dunque non solo il loro adempimento, ma anche il loro criterio interpretativo; per capire il senso di un qualsiasi libro dell’AT. Bisogna perciò riferire alla venuta storica di Cristo, qual’è stata attestata dagli apostoli e non portarlo forzatamente in appoggio alle nostre opinioni soggettive.

La Sacra Scrittura infatti non è una raccolta di opinioni, ma una collezione di idee religiose: essa possiede una profonda unità dovuta alla sua origine stessa: la potenza dello spirito santo che ha portato(sospinti) degli uomini a dire la verità da parte di Dio, al di là e talvolta contro quelle che erano le loro umane opinioni ed inclinazioni; questo stesso Spirito guida anche i lettori a riconoscere l’unico oggetto della profezia: l’annuncio della venuta di Cristo(cfr. Cor. 2:14-15)

Gesù ebbe dodici discepoli, chiamati da lui suoi amici perché essi erano testimoni di tutto quello che faceva. Egli disse “Voi siete miei amici se fate le cose che vi ordino. “Gv. 15,14 ; “Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo signore, ma vi ho chiamato amici, perché vi ho fatto conoscere tutto quello che ho udito dal mio Padre.” (Gv. 15,15). L’amicizia di Gesù con i suoi discepoli è un dono speciale che anche noi nella nostra esperienza definiamo un legame che si costruisce con lealtà. Nell’ambito di una chiesa, o di una comunità, le amicizie nascono frequentandosi.  L’ascolto comune della parola, la condivisione di vissuto e di riflessione è edificante nell’operare insieme per uno scopo di bene comune.

Gesù con i suoi gesti sostenuti dalle sue parole ha insegnato i suoi discepoli a diventare sempre più umano. Egli disse nel suo sermone sul monte “beati i poveri in spirito perché in essi è il regno dei cieli” che vuol dire il regno dei cieli è vicino a loro, l’hanno trovato e ne gioiscono.

Nella nostra vita quotidiana, il ruolo di un testimone oculare è indispensabile per risolvere i casi in tribunale: si cerca il soggetto, “Chi ha assistito” per dare giustizia all’accusato o all’accusatore, e per risolvere un grave errore (reato, delitto, omicidio): si cerca qualcuno che ha visto l’avvenimento per far emergere la giustizia cioè la verità.

Ci sono molti incontri in cui Dio ha rivelato la sua presenza per mezzo di suo Figlio e della sua opera per mezzo dello Spirito Santo da cui gli apostoli hanno avuto il discernimento.

Leggiamo testimonianze su come la conversione di Paolo, avvenuta sulla strada per Damasco.

– Saulo che divenne Paolo mentre andava e si avvicinava a Damasco – era successo. Una luce dal cielo brillò intorno a lui e, cadendo a terra, udì una voce che gli diceva: “Saulo, Saulo perché mi perseguiti?”

-Maria di Magdala disse ai discepoli: “Ho visto Il Signore”. Gv. 20,18  Gesù disse a Tomasso: ““Perché mi hai visto, tu hai creduto?” Beati quelli che non mi hanno visto e hanno creduto!” Gv.20,20

Alcune sorelle e fratelli hanno scritto un commento sulla nostra trasmissione di culto del Natale in Eurovisione. Coloro che lo hanno assistito in prima persona possono dire che in realtà ci sono più elementi dietro la trasmissione.

Infatti il culto in televisione ha un limite di 1 ora e la scelta del regista è fondamentale per evidenziare i diversi aspetti della chiesa metodista di via XX Settembre, e per mostrare agli spettatori chi sono i membri, di ogni fascia d’età, che frequentano la chiesa e le sue attività.

Con il ruolo di testimone oculare le persone che hanno partecipato possono confermare che vi era un solo culto di Natale, quello di domenica, 20 dicembre, e la trasmissione del 25 dicembre è frutto di un lavoro dei tecnici di editing nel dare accento ai diversi aspetti di testimonianza con lo scopo di comunicare che nonostante la situazione difficile, in piena pandemia, i credenti perseverano, pregano con insistenza l’unico Dio dell’universo. Le varie componenti  di varie provenienze lodano, pregano, ringraziano  Dio che ha donato Gesù, il Messia. I diversi volti dei fedeli sono rappresentati dai vari colori dei fiori che la natura stessa ci regala ogni giorno per stupire e allietare il nostro vivere.

Ora la chiesa continua a esistere perché da essa si trovano degli uomini che si convertano mossi dallo Spirito Santo. L’evangelista Giovanni finisce il suo vangelo con un versetto dicendo che “Vi sono anche molte cose che Gesù ha fatto. Se vi scrivessero una per una, penso che perfino il mondo non basterebbe a contenere i libri che si dovrebbero scrivere” Giovanni 21,25.

Da queste narrazioni dei testimoni oculari rifacciamo la nostra confessione di fede. Chiediamoci, e domandiamoci: “Gesù ti ha visitato? Tu l’hai visto? Hai visto che cosa ti ha fatto, come ha trasformato la tua vita?”

Sta a noi a discernere i fatti di Dio di tutti i giorni.

Possa il Signore risorto risorga nella tua vita.

Possa Egli risplendere il suo volto per illuminare la tua via.

Possa Egli svelare  ciò che cerchi per dare gioia al tuo vivere.

Possa Egli farti incontrare i discepoli e le discepole che ti accompagneranno e che ti sosteranno nel tempo di stanchezza.

Il Signore ti benedica. Amen

 

 

 

 

Preghiera

“Accoglietevi a vicenda come anche Cristo vi ha accolti nella gloria di Dio”.

Romani 15,7

 

Signore Dio nostro,  questa mattina ci siamo incontrati in questo tempio per  ricevere da te la tua parola. Quanto importante per noi farci trovare ed essere trovati accoglienti. L’apostolo ci insegna l’agire di un vero cristiano, di guardarci con gli occhi sinceri, ci chiede di avere un volto allegro. Ci chiede di  salutare con le parole di bene.

Ci hai accolti, come siamo perché riceviamo da te ogni risposta ad ogni nostro bisogno nel modo e nel momento da te dato.

Signore, grazie per l’appello di esortazione dell’apostolo Paolo ai cristiani. Grazie per quel messaggio che ci ha portato a credere per crescere insieme.

 

Benedici questo culto di lode, di preghiera, di ringraziamento nel nome e per amore di Gesù Cristo il nostro salvatore. Amen.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’idilliaca Rut?

Rut 1,1-19a

Non c’è nulla di idilliaco nella storia di Rut. Non è l’illustrazione di una quiete che inevitabilmente arriva dopo la tempesta. Non è  l’illustrazione di un aforisma: “Oggi seren non è, doman seren sarà; se non sarà sereno si rasserenerà.”

E’ una vicenda che si snoda sullo sfondo di eventi drammatici, di convenzioni radicate, di pregiudizi diffusi. Tutto ciò che – già in questo primo atto della vicenda – appare positivo, è il superamento di ciò che lo nega.

Che cosa sia in gioco, appare già dai nomi dei protagonisti della storia, il cui significato evocativo non sarà sfuggito a chi ne ascoltava il racconto o la lettura, e dai richiami di altri testi della Bibbia.

C’era una volta, al tempo dei giudici …

“Ci fu una carestia … come quella che spinse  Abramo e Sara a scendere in Egitto (Gen 12,10), poco dopo aver raggiunto la terra che Dio gli aveva indicato …; come quella che portò Isacco nel paese di Gherar (26,1); come quella che colpì l’Egitto ai tempi di Giuseppe (Gen 41,54); come molte altre … ogni volta una piaga, ogni volta “viaggi della speranza” …

Un uomo, di nome Elimelek, “il mio Dio è re”, dovette lasciare Betlemme, la “casa del pane”, dove per la carestia pane non ce n’era più, per migrare, in cerca di pane appunto. La “casa del pane” vuota, la speranza del pane altrove.

Elimelek se ne va,  emigra, diventa un immigrato – un emigrato, se riesce ad arrivare, diventa sempre un immigrato; un immigrato è sempre emigrato … Elimelek  porta con sé la moglie Naomi, “dolcezza, soavità” – chi ci pensa più alla dolcezza, se non c’è pane? – e i due figli, Machlon, “deboluccio” e Kilion, “essere alla fine”. Un presagio sinistro in quei due nomi, un po’ come quando usiamo l’espressione “siamo alla frutta” non più per indicare il coronamento di un pasto, ma la fine …

La meta del loro viaggio della speranza: Moab. Un luogo carico di associazioni negative. Si è letto (Gen 19) che i moabiti discendono da un incesto con  un padre ubriacato dalle figlie che credevano il mondo fosse finito dopo Sodoma e Gomorra.  Si è letto che il re di Moab aveva ingaggiato un indovino per maledire Israele (Num 21,21-24). Si è letto che i Moabiti avevano oppresso Israele al tempo dei Giudici 3,12-30. Soprattutto, si è letto nella Legge, che di Ammoniti e Moabiti “non cercherai il benessere né la prosperità, finché tu viva” (Deut 23,7).

Proprio a  Moab vanno a stabilirsi. Lì, però, (v. 3), Elimelek muore. Naomi “rimane [in vita]”, con i due figli.  I due figli “si prendono due donne moabite”.  Le nostre Bibbie dicono “sposarono”, ma il testo usa un’espressione particolare, che potremmo parafrasare con “tirarono sue due donne moabite”. E’ di solito usata per connubi considerati disdicevoli.

Come vedremo, nel nostro racconto, non c’è un solo accento negativo sulle donne moabite, la loro appartenenza non viene minimizzata, anzi  varie volte non ci si accontenta di dire “Rut”, ma si precisa “Rut la moabita” (1,22; 2,2; 2,21; 4,5.10). Forse usando l’espressione “tirar su due donne moabite” si vuole parlare come chi si immagina che una storia cominciata come la nostra non possa che finir male, anzi peggio …  senza pane, emigrati, proprio a Moab, con quelle donne … In fondo, si è letto (Num 25,1ss.) che nel deserto, gli Israeliti avevano fornicato con moabite, e queste li avevano portati all’idolatria …

Anche qui i nomi delle donne avranno richiamato qualcosa: Orpa, “la nuca” … Orpa volterà la spalle a Naomi, ma anche qui non ci sarà nessuna nota polemica nei suoi confronti, volgerà la nuca alla sua suocera soltanto perché quest’ultima ha tanto insistito. Rut “il ristoro, il conforto”.

Muoiono anche i due figli di Naomi (v. 5), e lei è tutto quel che rimane della famiglia partita dalla casa del pane senza più pane.

Sembra esserci una svolta. Naomi ha saputo che “il Signore ha visitato il suo popolo, dandogli del pane” (v. 6). Il pane è tornato là dove era scomparso, si può tornare … Tornare diventa la parola chiave del resto del nostro racconto. Sono già in marcia, le tra donne, quando Naomi ha un ripensamento. “Tornate”, dice alle nuore. Cioè: non venite con me, state qui al vostro paese. Anche qui dobbiamo stare attenti ai dettagli. Nel matrimonio, le donne lasciavano “la casa del padre”, per venire assorbite in un’altra “casa del padre”, quella del marito. Rimanere vedove – e qui ce ne sono tre! – significava finire in fondo alla scala sociale, persa quella tutela, seppure sottomessa, che veniva dal far parte di una “casa del padre”.

Le vedove, come gli orfani, sono in fondo alla scala dei miseri. Naomi non dice: “tornate ognuna alla casa di vostro padre.” Dice “tornate ognuna alla casa di sua madre”. Formulazione rara (ancora Gen 24,28; Ct 3,4 e 8,2): anche “provocatoria”? Evocatrice di una particolare solidarietà tra donne, in una pagina già insolitamente segnata da protagonismo femminile, in cui tutto è raccontato se non da donne (non sappiamo chi sia l’autore/rice), ma come minimo con lo sguardo e l’animo delle donne?

Nello spingere le nuore a lasciarla e a tornare, Naomi le accommiata con una benedizione: “Il Signore vi usi bontà, come voi avete fatto con i morti e con me”. (v. 9) Ma formula anche un augurio: “Vi dia il Signore di trovare stabilità ognuna in casa di suo marito”. Possiate – insomma – risposarvi. Era questa la migliore delle soluzioni immaginabili, nel mondo di allora.

Il primo tentativo di Naomi di rimandare le nuore non ha esito. Lei le ha baciate per salutarle, loro hanno pianto, ma non partono. Vogliono unirsi al ritorno di Naomi. (v. 10)

Naomi le dissuade di nuovo. Sempre con l’idea che l’unica speranza per le nuore è un altro matrimonio, spiega loro che è troppo vecchia per trovare marito e avere figli; se anche ciò potesse avvenire, ci vorrebbe troppo tempo perché i figli crescano fino a poter sposare Orpa e Rut. La sua condizione è troppo “amara” – è chiaro che la mano del Signore è contro di lei – perché lei possa accettare di coinvolgervi anche le nuore. Naomi: la dolcezza nel nome, l’amarezza nella vita. Quando le donne di Betlemme la vedranno arrivare e diranno “Ma questa è Naomi!?” (v. 19), lei risponderà “Non chiamati Naomi “soavità, dolcezza”, ma Mara “amarezza, perché Dio mi ha fatto avere molta amarezza.” (v. 20) Naomi vuole bere da sola il suo calice, non si trascina rovinosamente nella propria amarezza chi ti ha usato bontà …

Di nuovo le nuore si mettono a piangere. Questa volta però, le loro strade si dividono. Orpa, “la nuca” torna a casa, Rut “rimane attaccata” a Naomi. Secondo Naomi, anche Rut dovrebbe seguire la cognata, quello che ha fatto è giusto: “tornare al suo popolo e al suo Dio” … o forse “al suo popolo e  ai suoi”, era moabita in fondo …

Rut tronca le insistenze della suocera: “Dove tu andrai, andrò anch’io; dove starai tu, starò anch’io; il tuo popolo sarà il mio popolo, il tuo Dio il mio Dio. Dove tu morirai, morirò e lì sarò sepolta.” (vv. 16-17) Non è una espressione cortese e un po’ velleitaria, ma un giuramento: “Il Signore mi punisca se da te mi separerà qualcosa di diverso dalla morte.”

Anche qui, le cose importanti stanno nei dettagli. Rut, che diventerà bisnonna di Davide (cap. 4)c e sarà quindi antenato di Gesù, è l’unica figura in tutto l’Antico Testamento che si integra così pienamente nel popolo di Dio. Altre e altri avevano riconosciuto il Signore (Ietro, suocero di Mosè, Es 18; Rahab, la prostituta di Gerico, Gios 2). Altri lo faranno dopo Rut:  Naaman, ufficiale del re di Aram, 2 Re 5; gli stranieri di Isaia 56; i marinai sulla nave di Giona (Gn 1). I profeti annunceranno che le nazioni verranno verso il Signore e si uniranno a Israele.

Rut è diversa, Rut è unica: lei si è già “attaccata” a Naomi, entrerà – come mostra il seguito della sua storia –  nel popolo di Dio. Lei, la moabita, un nome su cui gravava la nomea di traviare Israele all’idolatria; lei, che rappresentava un di fuori da evitare, un altro da cui difendersi, lei sarà “dento”, nel centro della storia.

La sua storia non è un idilio, non è “doman seren sarà …” E’ l’inizio di un mondo in cui le frontiere non solo si valicano, ma cadono; in cui le donne fanno la storia che i maschi hanno sempre voluto dirigere; in cui non l’esclusione e la contrapposizione hanno l’ultima parola, ma “benevolenza”, di Dio verso di noi. La benevolenza che include i lontani, gli estranei, gli esclusi.  Dove quella benevolenza cambia la storia, si apre lo spazio della benevolenza che noi possiamo esercitare oltre i confini e i pregiudizi.

prof. Daniele Garrone

Da dove…

Gv. 2,1-11
1Tre giorni dopo, ci fu una festa nuziale in Cana di Galilea, e c’era la madre di Gesù. 2 E Gesù pure fu invitato con i suoi discepoli alle nozze. 3 Venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: «Non hanno più vino». 4 Gesù le disse: «Che c’è fra me e te, o donna? L’ora mia non è ancora venuta». 5 Sua madre disse ai servitori: «Fate tutto quel che vi dirà». 6 C’erano là sei recipienti di pietra, del tipo adoperato per la purificazione dei Giudei, i quali contenevano ciascuno due o tre misure. 7 Gesù disse loro: «Riempite d’acqua i recipienti». Ed essi li riempirono fino all’orlo. 8 Poi disse loro: «Adesso attingete e portatene al maestro di tavola». Ed essi gliene portarono. 9 Quando il maestro di tavola ebbe assaggiato l’acqua che era diventata vino (egli non sapeva da dove venisse, ma lo sapevano bene i servitori che avevano attinto l’acqua), chiamò lo sposo e gli disse: 10 «Ognuno serve prima il vino buono; e quando si è bevuto abbondantemente, il meno buono; tu, invece, hai tenuto il vino buono fino ad ora».
11 Gesù fece questo primo dei suoi segni miracolosi in Cana di Galilea, e manifestò la sua gloria, e i suoi discepoli credettero in lui.
12 Dopo questo, scese a Capernaum egli con sua madre, con i suoi fratelli e i suoi discepoli, e rimasero là alcuni giorni.
I suoi discepoli credettero in lui: così si conclude il racconto vero e proprio. C’è però una persona che crede in Gesù fin dall’inizio. A prima vista, si tratta di una fede un po’ strana. La fede della madre di Gesù si dimostra in questo: che non prende troppo sul serio suo figlio. Ma chi legge con attenzione constata che proprio questa è la fede più pura.
Qui non c’è nessuno che sta morendo di malattia, non ci sono lebbrosi né indemoniati. Semplicemente, gli sposi sono rimasti a secco, come si dice. La madre rivolge a Gesù una richiesta implicita, ma chiara: Non hanno più vino. La prima metà della risposta di Gesù è molto brusca e potremmo renderla così: Che accidenti vuoi da me, donna? (si noti: donna, non: madre). Che significa tanta durezza? Calvino afferma: Gesù vuole insegnarci a evitare una venerazione fuori luogo per Maria. Una tesi molto protestante, ma non la più verosimile. Meglio rivolgerci alla seconda metà della risposta di Gesù: L’ora mia non è ancora venuta. Gesù è concentrato sulla sua ora, che scoccherà all’avvicinarsi della croce. E’ come se dicesse: nemmeno tu, madre mia, puoi distrarmi da questa meta. Per me non si tratta di matrimoni, né di feste, né di vino: si tratta del Padre, della vita eterna, dell’ora decisiva nella quale tutto sarà rivelato. E quest’ora non è ancora giunta.
Maria, però, non si scompone neanche un po’. In questo senso dicevo: non prende sul serio Gesù; più precisamente non prende sul serio il no che le viene rivolto. Fate tutto quel che vi dirà. La fiducia di Maria non si spaventa nemmeno davanti al no di suo figlio. Anche se non è ancora giunta l’ora, anche se si tratta “solo” di una festa, dove c’è Gesù accade qualcosa di buono, e la festa non è “solo” una festa. Il primo segno operato da Gesù è questo: la festa sia una vera festa. Maria confida che così sarà. Fate tutto quel che vi dirà. La fede di Maria, qui, consiste nel cogliere che nel no di Gesù vi è un sì. Naturalmente non si tratta di una regola matematica, non vuol dire che Gesù esaudisce ogni nostra richiesta, come una macchina a gettone. Vuol dire però che la fede sa guardare anche oltre i no di Dio. Anzi, potremmo dire così: solo chi, come Maria, sa cogliere il sì nascosto dentro al no, solo chi sa cogliere la promessa racchiusa in quanto appare un diniego, potrà cogliere la verità di Gesù, la sua gloria, quando l’ora verrà. E nel racconto di Giovanni, nell’ora della manifestazione più piena, nell’ora della croce, Maria è presente, insieme al discepolo che Gesù amava. Qual è la radice di una simile fede? Torneremo tra poco su questa domanda.
Una volta che si è deciso, comunque, Gesù non usa mezze misure: il numero e la capienza dei recipienti parlano di ben più di cinquecento litri di acqua, trasformata in vino. Il primo segno operato da Gesù non solo si svolge nel quadro di una festa, ma è caratterizzato dall’abbondanza, dalla gioia e anche, è lecito supporre, da quel tipo particolare di gioia legato a una buona dose di vino che, a quanto afferma il maestro di cerimonia, è anche di eccellente qualità. A proposito del maestro di cerimonia: egli non sapeva da dove venisse il vino. Ebbene: nell’evangelo di Giovanni, quando compare questa espressione, da dove (o: donde), è come una luce rossa che si accende, per segnalare qualcosa di importante. Da dove veniva quel vino? I servi lo sapevano, ma non ci viene detto che cosa hanno pensato. Oltre a loro, lo sapeva la madre di Gesù. La sua fiducia nel figlio ha la sua radice nella consapevolezza di questo da dove.
Da dove viene il vino? Da Gesù evidentemente, il che sposta la domanda: da dove vengono la persona, il dire e il fare di Gesù? Compreso il suo intervento per aiutare due giovani sposi in difficoltà? Su questo, Giovanni è chiaro fin dalle prime righe del suo vangelo: l’intera storia di Gesù proviene dalle profondità di Dio e manifesta, anche a una festa di nozze, la realtà che era nel principio. Questo primo segno annuncia il grande tema dell’evangelo di Giovanni: la gloria di Gesù è la manifestazione progressiva del suo da dove, cioè del Padre, dal quale egli proviene e al quale, alla fine, ritorna. Il testo lo sottolinea, è il primo segno, siamo ancora all’inizio del cammino della gloria di Gesù, ma è come nella musica sinfonica, i temi fondamentali sono ben presenti già in apertura, anche se non ancora sviluppati.
Trasformare l’acqua in vino non è in nostro potere, così come non è in potere di Maria. La verità di Gesù, il fatto che egli è davvero il centro delle nostre vite, che vuole trasformarle e anzi ha già iniziato a farlo: tutto questo lo può rivelare solo Gesù stesso, nella sua parola. Egli solo può trasformare l’acqua in vino, un libro di carta nella testimonianza del Padre, parole umane nella parola che salva.
Forse però qualcosa possiamo fare anche noi. Quando incontriamo Gesù, nella lettura personale della Bibbia, nel culto o nella predicazione, possiamo porci la domanda che percorre in modo sotterraneo tutto l’evangelo di Giovanni e che ogni tanto emerge: da dove proviene veramente questo annuncio? Dalla chiesa, certo; dalla Bibbia, dalla pastora dal catechista. Tutto vero, ma ma non ci si può fermare lì. Gesù, tu, con tutto il tuo dire, il tuo fare, con tutti i racconti e i miracoli, con il tuo destino… Gesù, tu da dove sei, da dove provieni? Fratelli e sorelle, è vero, noi non possiamo far altro che porre questa domanda, a volte con speranza, a volte con angoscia. Ma quando essa è posta e lo è con serietà, siamo molto vicini al luogo nel quale l’acqua è trasformata in vino, al luogo nel quale Gesù manifesta la sua gloria.
Amen
Piccolo compito a casa. La traduzione presentata è quella della Nuova Riveduta, modificata però al v. 9, in modo da evidenziare l’espressione «da dove», che è presente nell’originale, ma va persa nella NR. Chi vuole, può cercare nell’evangelo di Giovanni i passi nei quali ricorre l’espressione «da dove» (greco: pothen): oltre a 2,9, sono interessanti: 3,8; 4,11; 7,27; 8,14; 9,29 s., per culminare in 19,9. E’ un esercizio di estremo interesse.
past. Fulvio Ferrario

Rallegratevi nel Signore, sempre

“Rallegratevi sempre nel Signore. Ripeto: rallegratevi. La vostra mansuetudine sia nota a tutti gli uomini. Il Signore è vicino. Non angustiatevi di nulla, ma in ogni cosa fate conoscere le vostre richieste a Dio in preghiere e suppliche, accompagnate da ringraziamenti. E la pace di Dio, che supera ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e i vostri pensieri in Cristo Gesù”, (Filippesi 4:4-7).

 

Rallegratevi nel Signore, sempre… Tutti gli esseri umani vedano la vostra gentilezza, la vostra mansuetudine, la vostra bontà …Non siate in ansia, non angustiatevi ...”.

Queste parole piuttosto che una citazione dell’apostolo Paolo sembrano essere tratte dal Vangelo secondo Pollyanna, la protagonista di un famoso romanzo per l’infanzia che affronta la vita attraverso il “gioco della felicità“: un particolare modo di vedere l’esistenza sempre in positivo, nonostante le avversità.

A Pollyanna muore la madre; muore il padre; la zia che l’accoglie la tratta freddamente; lei rimane per un periodo paralizzata, … ma tutto avviene con il sorriso sulle labbra.

Un atteggiamento di ottimismo patologico tanto che in psicologia esiste addirittura una sindrome che porta il suo nome – la sindrome di Pollyanna – che consiste “nel percepire, ricordare e comunicare in modo selettivo soltanto gli aspetti positivi delle situazioni, ignorando quelli negativi o problematici”.

Tuttavia, è difficile pensare all’apostolo Paolo come a un ottimista compulsivo. Certo, il suo invito a rallegrarsi e a vivere liberi da ansie, Paolo lo scrive dal buio di una prigione, a Efeso, dove è rinchiuso – in effetti, una situazione non inusuale per l’apostolo.

Se però leggiamo il modo in cui egli descrive le difficoltà della sua vita di testimone di Cristo, troviamo delle parole che non lasciano presupporre alcun sorriso: “Spesso – scrive Paolo – sono stato in pericolo di morte; tre volte sono stato battuto con le verghe; una volta sono stato lapidato; tre volte ho fatto naufragio. Spesso in pericolo sui fiumi, in pericolo per i briganti; in fatiche e in pene; nella fame, nel freddo e nella nudità”. C’è davvero poco di cui rallegrarsi. Eppure, Paolo ci esorta a farlo. Perché?

Paolo non ci invita ad essere degli ottimisti patologici – o meglio, dei cristiani patologici– che vedono nel presente il bene che non c’è, si vestono di un sorriso che oltraggia la fatica del vivere umano, o di una devozione priva di solidarietà perché si è arresa al fatalismo. Non è verso questa patologia che Paolo ci spinge. Piuttosto, l’apostolo ci invita all’ottimismo della fede che, nonostante il presente, continua a farsi guidare dalla speranza. L’ottimismo di una vita orientata alla speranza.

E, secondo Paolo, la speranza è possibile perché “il Signore è vicino!” Per questo è possibile sperare e rallegrarsi: perché il Signore è vicino. Questo può significare due cose. Il Signore è vicino: cioè, mi è accanto ed è qui, vicino a me, nel momento della difficoltà e del dolore per donare pace e consolazione, per custodire il mio cuore e la mia mente. Ma anche: il Signore è vicino perché sta arrivando, viene – non so quando non so come, ma viene per raddrizzare i torti e fare giustizia, per capovolgere i giudizi della storia e delle miserie umane. E’ questa presenza che ispira la speranza e permette, nonostante la realtà, di raccontare un’altra storia, una storia diversa della nostra vita e di quella degli altri.

Un cristiano è proprio questo: qualcuno/a che, in ogni occasione, è capace di raccontare un’altra storia, di sé, degli altri, di questo mondo.

I cristiani di Filippi, a cui Paolo scrive, erano certamente capaci di comprendere questa dimensione della fede perché l’avevano vista all’opera in Paolo stesso quando per la prima volta venne nella loro città. A Filippi, ci racconta il capitolo 16 degli Atti degli apostoli, Paolo viene arrestato con il suo collaboratore Sila. In carcere, Paolo e Sila invece di lamentarsi e disperarsi, con gran stupore del loro carceriere, si mettono a cantare. Pure in catene, fanno della loro vita un canto. Poi, nella notte accadde un evento eccezionale: c’è un terremoto che scioglie i ceppi dei prigionieri e spalanca le porte delle celle.

Il carceriere reagisce con disperazione: il terremoto per lui è una catastrofe, le autorità chiederanno conto a lui dei prigionieri fuggiti. Così sguaina la spada e sta per uccidersi. Ma Paolo lo ferma: cosa fai? Rimetti a posto la spada: siamo tutti qui! Nessun detenuto è fuggito. Non certo Paolo, che sebbene prigioniero è un uomo libero e un uomo libero, appunto, non ha nessun motivo per scappare. Allora il carceriere lo accoglie alla sua tavola, gli dà da magiare e si inginocchia davanti al detenuto … e chiede di essere battezzato nel nome di Gesù e di entrare anche lui in questa storia, in cui una persona nonostante in catene, può sapersi libera; nonostante il dolore, fare della sua vita un canto; nonostante le difficoltà del presente, raccontare un’altra storia fatta di speranza.

Dunque, rallegratevi, siate mansueti, non angosciatevi, ma raccontate un’altra storia. Raccontate il mondo in modo diverso. Raccontate un’altra storia che permette di essere generosi nonostante la scarsità, accoglienti nonostante le paure, fiduciosi nonostante i tanti inganni, capaci di ricostruire nonostante le macerie che ci circondano, solidali con gli altri nonostante i nostri guai. Rallegratevi, siate mansueti, non angosciatevi, perché il Signore è vicino. Amen.

 past. Luca Baratto

Ho solo Gesù Cristo

Atti 3 1-11

Pietro e Giovanni salivano al tempio per la preghiera dell’ora nona, mentre si portava un uomo, zoppo fin dalla nascita, che ogni giorno deponevano presso la porta del tempio detta «Bella», per chiedere l’elemosina a quelli che entravano nel tempio. Vedendo Pietro e Giovanni che stavano per entrare nel tempio, egli chiese loro l’elemosina. Pietro, con Giovanni, fissando gli occhi su di lui, disse: «Guardaci!» Ed egli li guardava attentamente, aspettando di ricevere qualcosa da loro. Ma Pietro disse: «Dell’argento e dell’oro io non ne ho; ma quello che ho, te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, cammina!» Lo prese per la mano destra, lo sollevò; e in quell’istante le piante dei piedi e le caviglie gli si rafforzarono. E con un balzo si alzò in piedi e cominciò a camminare; ed entrò con loro nel tempio camminando, saltando e lodando Dio.
Tutto il popolo lo vide che camminava e lodava Dio; e lo riconoscevano per colui che sedeva a chiedere l’elemosina alla porta «Bella» del tempio; e furono pieni di meraviglia e di stupore per quello che gli era accaduto. Mentre quell’uomo teneva stretti a sé Pietro e Giovanni, tutto il popolo, stupito, accorse a loro al portico detto di Salomone.

 

Cari fratelli e sorelle oggi riflettiamo su un altro brano degli Atti degli apostoli, credo di aver già detto che questo è il mio libro preferito della Bibbia perché narra di come pochi uomini e donne con la sola consapevolezza di avere al proprio fianco lo Spirito di Dio e quindi con la sola forza della fede, hanno dato vita ad una comunità del tutto nuova e destinata a spandersi per tutti i territori conosciuti: la chiesa.

Chiesa cristiana nata in quei giorni nella lontana Gerusalemme e che arriva fino a qui, su queste panche in via XX settembre dove uomini e donne provenienti da tutti i territori conosciuti adorano quello stesso Dio adorato da Pietro. Giovanni e tutti i primi credenti.

Il racconto è posto proprio all’inizio dell’opera missionaria della giovane comunità cristiana, Paolo non si è ancora convertito e gli apostoli Pietro e Giovanni ancora frequentano il Tempio e sono considerati Ebrei anche se seguaci di un presunto Messia morto da poche settimane.

Questo brano in particolare ha tantissimo in comune con la situazione attuale delle nostre chiese: il confrontarsi con la povertà.

Quella dello zoppo di questo capitolo è una povertà che proviene da una malformazione fisica che rende inabili al lavoro, all’epoca non esistevano le categorie protette, la legge 104, l’indennità di accompagno che al giorno d’oggi in Italia, è bene specificarlo questo, non in tutti i paesi di questo mondo, mitigano la povertà in questi casi.

Ma non è questo il problema, la povertà ha sempre una causa esterna: una malattia, una migrazione, il colore della pelle sbagliato, non è questo il punto della riflessione, qualunque sia la causa la chiesa ci si deve confrontare, oggi come allora.

Ma oggi come allora il problema è sempre quello: «Dell’argento e dell’oro io non ne ho», la chiesa, in questo caso la nostra chiesa: l’unione delle chiese metodiste e valdesi, di oro e argento non ne ha, vive costantemente sul filo del rasoio con i contributi che noi membri di chiesa, sempre più poveri, le doniamo per pagare stipendi, bollette e poco altro.

Sicuramente qualche singolo povero possiamo aiutarlo con il nostro denaro, sfamarlo per qualche tempo, regalare qualche indumento ma affrontare il problema della povertà e delle sue cause è una cosa al di fuori delle nostre possibilità.

Questo non vuol dire che non dobbiamo impegnarci per, come si dice a Roma, metterci una pezza

ma consapevoli che stiamo svuotando il mare con un secchiello,  la cosa non ci spaventa, anzi, ma si deve affrontare la situazione con realismo. Noi non siamo un ente di beneficenza laico, non siamo una fondazione bancaria, non siamo un gruppo di ex alpini associato alla protezione civile (con tutto il rispetto per gli ex alpini e la protezione civile).

Noi siamo gli eredi di Pietro e Giovanni, noi discendiamo dai primi credenti in Gesù Cristo di Gerusalemme, noi siamo una chiesa!!!

E questo vuol dire che noi abbiamo affianco a noi non un banchiere (che comunque poter pagare un po’ meglio i nostri pastori non sarebbe una cosa brutta) ma noi abbiamo affianco Nostro Signore, e questo vuol dire che al bisognoso che incontriamo per la strada possiamo rispondere:

«Dell’argento e dell’oro io non ne ho; ma quello che ho, te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, cammina!»

Purtroppo noi i segni che faceva l’apostolo Pietro non possiamo farli, le guarigioni miracolose sono al di fuori della nostra portata, ma possiamo fare un’altra specie di miracolo, possiamo portare la speranza, di più, possiamo portare la certezza che un altro modo di vivere è possibile.

Possiamo portare una stretta di mano, una parola di solidarietà, un momento di ascolto dei problemi degli altri, affianco al panino la chiesa può mettere, deve mettere, spesso sa mettere un qualcosa che il più delle volte è più importante di un panino, sa dare una parola, perché per chi vive da emarginato, da dimenticato, da lasciato indietro è più importante sapere che qualcuno non lo ha dimenticato e non intende lasciarlo indietro, vogliamo fargli sapere che ci sono donne e uomini che rispettando il mandato lasciato loro da Gesù Cristo che ci ammaestrò, come riportato nel Vangelo di Matteo, con queste parole: “In verità vi dico che in quanto lo avete fatto a uno di questi miei minimi fratelli, l’avete fatto a me”. Ed allora la chiesa darà ai bisognosi soltanto parole? Di speranza e di gioia ma soltanto parole?

No la chiesa di oggi come quella di ieri darà parole di speranza e di riscatto. E darà fatti concreti, perché la nostra chiesa è Marta e la nostra chiesa è Maria, non smetterà di dare panini, caffellatte, vestiti, coperte, rasoi e sapone ma non smetterà neanche di portare la parola del Signore in questo nostro mondo. Proprio una parola ed un fatto concreto come quelli che tanti anni fa Pietro e Giovanni seppero dare ad un povero zoppo ridandogli la cosa più importante che esista: la speranza nel futuro e la fede nel Signore. Amen

 

Predicatore Enrico Bertollini

Rinnovamento del Patto

Filippesi 4,10-13

Ho avuto una grande gioia nel Signore, perché finalmente avete rinnovato le vostre cure per me; ci pensavate sì, ma vi mancava l’opportunità. Non lo dico perché mi trovi nel bisogno, poiché io ho imparato ad accontentarmi dello stato in cui mi trovo. So vivere nella povertà e anche nell’abbondanza; in tutto e per tutto ho imparato a essere saziato e ad aver fame; a essere nell’abbondanza e nell’indigenza. Io posso ogni cosa in colui che mi fortifica.

 

Care sorelle e  cari fratelli nel Signore,

Il vivere di un collaboratore di Dio è profondamente legato a questo principio del benessere. Il suo stare bene non dipende dalla quantità di beni che ha, ma da quanto riconosce che tutto quello che ha ricevuto, è stato un dono Dio, cui ha risposto la Sua chiamata per annunciare il vangelo. Se manca qualcosa, spera di trovarla in Lui che lo rende sazio nel sua vita quotidiana. Una preghiera di ringraziamento rivolto a Dio prima di un pasto, è un esempio di una buona abitudine,  poiché sottolinea e ricorda il continuo sostegno ricevuto dal Signore e il riconoscimento che la propria vita è un dono.

 

In questa occasione dell’inizio dell’anno 2021, troviamo questo brano adatto alla nostra odierna situazione. In prima persona, parla lo stato d’animo di Paolo talmente impregnato e imbevuto dallo Spirito Santo che l’ha istruito, insegnato, e convertito la sua vita dopo l’incontro con Gesù. Egli ha scoperto che non poteva vivere più nel suo cammino senza la sua unica vera guida.

L’apostolo aveva attraversato molte difficoltà nella sua vita e non erano delle prove leggere, ma proprio in quelle situazioni aveva affermato la sua fede dicendo “Quando sono debole, allora sono forte” così come nel versetto 13, lo conferma: “Io posso in colui che mi fortifica”. Quando un credente canta un inno di lode al Signore in mezzo al suo dolore,  credo che sia un momento in cui Dio viene glorificato non per essere tormentato, ma per prenderlo in braccio e guarire il suo dolore. Quanti personaggi biblici avevano dimostrato la loro fede, cercando Dio come l’unico  rifugio nel tempo d’avversità?

 

Care e cari,

l’apostolo Paolo aveva ricordato in questa epistola dell’opportunità della comunità dei Filippesi per rinnovare la sua cura nei suoi confronti. Ebbene. E’ una gioia per un pastore e una pastora sentire che i membri della sua comunità  manifestino una preoccupazione per la propria salute, una sollecitudine ai propri bisogni, ma bisogna anche sempre ricordare che il Signore, colui che crea la possibilità di poter trovare la risposta ad un bisogno in qualsiasi momento, reca serenità, crea uno stato di tranquillità. Una dimostrata mossa pacifica è un frutto di quella fede riposta a lui che dona ciò che è necessario nel momento giusto.  Scoprire nella vita di fede, nel tempo di scarsità e al contempo nella stessa sazietà è come gustare un pezzo di pane durante la santa cena e ricevere una parola di conforto e di consolazione durante la predicazione nel nome di Gesù Cristo. La nostra sazietà non dipende mai dall’abbondanza dei nostri averi, ma come ci sentiamo sazi anche nell’avere avuto poco in quantità, ma tanto in sensazione da non dimenticare più il gusto provato.

Ora che rinnoviamo i nostri impegni di chiesa dobbiamo ricordare e rispondere a queste domande:

Quale chiesa vogliamo essere?

Che chiesa siamo in via XX settembre?

Siamo una chiesa povera e nello stesso tempo siamo una chiesa per i poveri , per i bisognosi di vera accoglienza?  Quale chiesa di Dio siamo?  Gesù è il capo? Paolo è la guida di questa comunità come ai tempi della formazione delle varie chiese che non si erano mai arresi di condividere nel portare il peso del fratello e della sorella in Cristo?

Ci rendiamo conto di quanto impegnativo essere chiamata una chiesa del Signore. Domenica scorsa quando abbiamo fatto il giro per il breakfast time, uno dei nostri amici che vive per la strada ci aveva condiviso il suo bisogno di avere una coperta per poter dormire. Ci ha raccontato che quella notte aveva camminato per riscaldarsi, non potendo dormire a causa del freddo. All’inizio gli avevo detto: “Te la porteremo domenica prossima”, ma poi alcuni del gruppo mi hanno ricordato che forse ne abbiamo una in Sala Sbaffi, giustamente non potevamo più aspettare fino a domenica prossima. Come poteva infatti ancora resistere al freddo per altri 5 o 7  giorni?

La richiesta del bisogno è talmente urgente. Non c’è tempo per aspettare.

I bisogni della comunità sono tanti e variegati, ma se ci affacciamo fuori riusciremo a trovare tante risposte ai bisogni degli altri, che può trovarsi anche tra le nostre capacità, così  è necessario che un pastore o una pastora, un discepolo o una discepola di Gesù debba imparare molto ad essere contento/a in tutte le situazioni in cui si trova, c’è tanto bisogno di condividere ciò che si per saziare chi lo riceve.

Preparare la colazione alle persone senza dimora è ormai diventata impegnativa per la comunità, ma grazie a Dio ci ha dato questa opportunità nel farla.  Come diceva John Wesley: <<Fate tutto il bene che potete con tutti i mezzi che potete, in tutti i modi che potete, in tutti i luoghi che potete, tutte le volte che potete, a tutti quelli che potete, sempre finché potrete.>>

 

L’inizio di questo nuovo anno, Venerdì 1 gennaio 2021, l’apostolo Paolo evidenza un fatto che in qualsiasi momento, in qualsiasi situazione questo verso <<13Io posso ogni cosa in colui che mi fortifica>> l’aveva sostenuto e che potrà sempre essere un richiamo a ciascuno e ciascuna di noi ogni giorno per iniziare ogni principio un punto di  partenza della  nostra giornata.

Caro collega, cara collega, che il Signore ci dia il suo potere di compiere qualsiasi azione per noi poi al servizio degli altri per stare-bene.

 

Preghiera:

Signore Dio, ti preghiamo per i nostri predicatori e predicatrici locali che non manchino la gioia di aiutarci.

Ti preghiamo per il nostro breakfast time, è un tempo in cui dedichiamo nel servire chi sono meno fortunati di noi. Ci rendiamo conto che avere un tetto in cui poter riposare, mangiare, vivere in comunione con i membri della famiglia è un dono.

Ti preghiamo che non sprechiamo il nostro tempo. Che lo possiamo  dedicare allo studio della tua parola per essere ancora più pronti a spendere per gli altri.

Ti ringraziamo per la forza che ci dai ogni giorno.

Ti ringraziamo per la tua fedeltà che ci serve per non perdersi d’anima.

Ti preghiamo per ogni bisogno che trovi risposta nella nostra vita comune.

Ti rimettiamo nelle tue mani il mondo come una barca in cui siamo tutti insieme portati in viaggio in questo tempo di coronavirus. Il vaccino di speranza ci tenga vivi.

La tua potenza e il tuo potere di guarirci ci dia una vita rinnovata in te.

Tutto questo te lo chiediamo nel nome di Gesù Cristo, nostro Signore. Amen 

 

past. Joylin Galapon

Il sì di Dio

II Cor: 1: 18-22

Ora, come è vero che Dio è fedele, la parola che vi abbiamo rivolta non è «sì» e «no». Perché il Figlio di Dio, Cristo Gesù, che è stato da noi predicato fra voi, cioè da me, da Silvano e da Timoteo, non è stato «sì» e «no», ma è sempre stato «sì» in lui. Infatti tutte le promesse di Dio hanno il loro «sì» in lui; perciò pure per mezzo di lui noi pronunciamo l’Amen alla gloria di Dio. Ora colui che con voi ci fortifica in Cristo e che ci ha unti è Dio; egli ci ha pure segnati con il proprio sigillo e ha messo la caparra dello Spirito nei nostri cuori.

Non bastava la prima visita? No, l’Apostolo aveva annunciato una sua seconda visita a Corinto, che poi non aveva potuto compiere. E’ però affranto dal dispiacere.

Scriverà poi…..1 Avevo infatti deciso in me stesso di non venire a rattristarvi una seconda volta. 2 Perché, se io vi rattristo, chi mi rallegrerà se non colui che sarà stato da me rattristato? 3 Vi ho scritto a quel modo affinché, al mio arrivo, io non abbia tristezza da coloro dai quali dovrei avere gioia; avendo fiducia, riguardo a voi tutti, che la mia gioia è la gioia di tutti voi. 4 Poiché vi ho scritto in grande afflizione e in angoscia di cuore con molte lacrime, non già per rattristarvi, ma per farvi conoscere l’amore grandissimo che ho per voi.

Non si tratta infatti di un semplice cambio di programma. Vi sono stati tumulti a Efeso e Paolo vuole evitare che la sua nuova visita a Corinto provochi o riaccenda scompiglio, dopo la sua prima visita che era stata burrascosa.

Ricordiamo già come esordì con la prima lettera ai Corinzi: E io, fratelli, quando venni da voi, non venni ad annunciarvi la testimonianza di Dio con eccellenza di parola o di sapienza; 2 poiché mi proposi di non sapere altro fra voi, fuorché Gesù Cristo e lui crocifisso. 3 Io sono stato presso di voi con debolezza, con timore e con gran tremore; 4 la mia parola e la mia predicazione non consistettero in discorsi persuasivi di sapienza, ma in dimostrazione di Spirito e di potenza, 5 affinché la vostra fede fosse fondata non sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio.…

Vi sono state delle difficoltà a Corinto, delle discussioni. Un componente della Chiesa aveva dato luogo a turbativa ed era stato redarguito, era stato messo in minoranza.

Scriverà infatti Paolo ancora: 5 Ora se qualcuno è stato causa di tristezza, egli ha rattristato non tanto me quanto, in qualche misura, per non esagerare, tutti voi. 6 Basta a quel tale la punizione inflittagli dalla maggioranza; 7 quindi ora, al contrario, dovreste piuttosto perdonarlo e confortarlo, perché non abbia a rimanere oppresso da troppa tristezza. 8 Perciò vi esorto a confermargli il vostro amore; 9 poiché anche per questo vi ho scritto: per mettervi alla prova e vedere se siete ubbidienti in ogni cosa. 10 A chi voi perdonate qualcosa, perdono anch’io; perché anch’io quello che ho perdonato, se ho perdonato qualcosa, l’ho fatto per amore vostro, davanti a Cristo, 11 affinché non siamo raggirati da Satana; infatti non ignoriamo le sue macchinazioni. 

Quindi vi erano stati dei problemi a Corinto e Paolo a freddo aveva capito che era bene per quella comunità di risolvere i suoi problemi in autonomia, senza attendere una autorità esterna, un intervento decisivo di un’autorità superiore. Insomma che occorresse che le parti in lite trovassero un modus vivendi tra pari. Forse tra i motivi per cui Paolo non torna a Corinto c’è anche questo.

A Corinto però vi è chi approfitta di questa apparente defaillance dell’Apostolo per attaccarlo, per accusarlo di essere volubile nelle sue decisioni, un’accusa rivolta a lui, il più zelante degli Apostoli!

Lo accusarono subito di leggerezza e di contraddittorietà. Questo sarebbe stato, secondo i detrattori di Paolo, un tipico comportamento carnale, dettato dalla carne, centrato sull’io egoistico e non sulla ricerca della volontà di Dio e sull’amore per i fratelli.

Ti aspettavamo, e invece non sei ritornato! Non hai mantenuto fede alla tua promessa. Noi contavamo su di te, e tu ci hai abbandonato…

Paolo respinge queste accuse, ma non lo fa come potremmo fare noi, dicendo che un conto sono i piani di viaggio, altra cosa la loro realizzazione – difficile anche oggi a volte: mi è stata annullata una prenotazione -, e specialmente di quei tempi in cui si viaggiava con una triremi…

No, l’Apostolo per questa occasione, pur avendo a disposizione molteplici ragioni, tira in ballo la fedeltà di Dio.

Infatti se Dio è fedele, l’Apostolo che incarna il suo messaggio non può essere una banderuola che un momento dice bianco e poi dire nero.

La coerenza dell’Apostolo è radicata nell’essenza stessa di Cristo, il Figlio di Dio. Cristo non oscillava tra il sì e il no con le sue promesse, non ritrattava. Cristo è lui, proprio lui un sì. Il sì di Dio. E il Signore è venuto, tra di noi. Il Natale!

Vi è dunque un legame di fedeltà che vincola l’opera evangelica: Dio è fedele, Cristo è fedele nel realizzare le promesse di Dio, la predicazione apostolica è fedele in quanto pronuncia l’amen, il così sia alla gloria di Dio. All’amen, al così sia, alla risposta alla vocazione ogni credente è chiamato a rispondere.

L’Apostolo rivendica proprio l’importanza di questo passaggio.

La chiesa cristiana infatti non può avere dubbi proprio su questo punto: e cioè che le promesse della Parola di Dio vanno ad effetto sempre e comunque. Dio  stesso ha pronunciato un sì, in Gesù Cristo. E’ un sì definitivo, che chiude le porte ai tanti no e ai tanti dubbi umani.

Per la comunità cristiana dunque al dubbio deve subentrare una certezza, quella che l’Apostolo, e non solo lui, ha predicato: la lieta novella, l’evangelo, recato dal Figlio di Dio, Gesù Cristo, il sì definitivo di Dio. E’ questa la più profonda convinzione dell’Apostolo, è ciò che l’Apostolo vuole trasmettere.

Il Signore è venuto tra noi, ha mantenuto la sua promessa, ha salvato l’umanità, ha aperto le porte del Cielo, nonostante il peccato dell’uomo.

L’attesa non di Paolo, ma quella di Dio, non è stata vana. Così come lo aveva promesso, il Signore che aveva annunciato la salvezza ha donato suo Figlio affinché di fronte alla palese dimostrazione del suo grande amore tutte le ginocchia si piegassero e tutti i cuori si convertissero e riconoscessero che Cristo è il Signore.

E se anche Paolo non ha potuto mantenere la promessa fatta, per ragioni umane, per un calcolo di amore, e non potrà tornare a Corinto, quello che importa è che la promessa di Dio è stata mantenuta, il sì di Dio è stato pronunciato per l’Eternità e l’Evangelo della salvezza da quel momento in poi sarebbe stato proclamato al mondo.

Il Signore è con noi, lo è stato dal giorno del suo arrivo e lo è anche oggi con noi. L’attesa speranzosa non è stata vana, non è andata delusa, ma si è avverata, entrando nelle vite di ogni credente e nelle nostre vite e suscitando nuova energia, nuovo entusiasmo e vera gioia per la predicazione dell’Evangelo, nuova rivoluzione, promessa adempiuta per tutti, quella promessa adempiuta per ricordare la quale facciamo festa, come sempre in questi giorni. In questi giorni, nel ricordo del Natale, noi rispondiamo al Signore con la nostra vocazione che ci chiama, ci mobilita e che ci fa rispondere al sì definitivo, al decreto eterno di Dio in Gesù Cristo con il nostro Amen.

Predicatore  Andrea De Girolamo,

La Parola era Dio

Giovanni 1,1-5

In principio era la Parola e la parola era con Dio e la parola era Dio. In principio lei era con Dio. Tutto fu fatto per mezzo di lei e senza di lei non fu fatta una sola cosa di ciò che è stato fatto. In lei era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce brilla nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta.

Care sorelle e cari fratelli nel Signore, quando ero piccola, avevo notato che uno degli addobbi per il  Natale nelle Filippine è il PAROL, una decorazione che si appende solitamente sopra la porta della nostra casa, o in qualsiasi altro posto; è importante che sia in alto in modo tale che la stella intorno al cerchio si veda bene. Possiamo paragonarlo alla nostra corona di avvento in cui l’ultima candela che si accende, rappresenta Gesù, la luce del mondo. Ciò che vedete sullo schermo è un’immagine che rappresenta molto bene quel Parol maiuscolo che Parola oggi dice nel vangelo di Giovanni. Ora, associando il parol in tagalog con la PAROLA in italiano mi convince sempre di più quanto eravamo stati già vicini prima che ci conoscessimo. La nostra comunione con la Parola di Dio che è Gesù Cristo di cui i profeti, i nostri antenati israeliti ne avevano già parlato. Gesù disse nel libro dell’Apocalisse: “Io Gesù, ho inviato il mio angelo per testimoniarvi queste cose sulle chiese. Io sono la radice e la discendenza di Davide, la stella lucente del mattino.” La stella che aveva guidato i magi, l’ultima  candela  che accendiamo nel giorno di Natale è la luce che porta a Gesù, quella luce che  ogni mattina risplende nella nostra vita. Così tutte le cose hanno un senso per noi ora.

Infatti, nella mia terra nativa “ang PAROL”  è uguale a “la Parola”, ciò significa che i popoli anche senza essersi incontrati prima con la Parola incarnata in Gesù e le parole che parlano su di lui si erano già legate da un’unica fonte “Dio”. E saperla dopo gli incontri di dialogo e di scambio di parole, tra i popoli che sono in cammino  si rivela più che mai la radice di entrambi, come ogni cosa è strettamente correlata fra di loro. E’ la realtà che ogni uomo e ogni donna può scoprire nella chiesa di Dio. Non è un mistero ma è già data a loro disposizione.

Durante il periodo in cui facevamo il culto bilingue ho sentito dire spesso da molti ospiti che hanno soltanto capito queste parole: Diyos/Dio, Hesus/Gesù, Espiritu Santo/Spirito Santo. Come l’evangelo è uguale all’ebanghelyo. Dio è uguale a Dios/ Diyos. Gesù Cristo è uguale a Hesu-Cristo. I nostri amici e amiche cinesi chiamano anche Ieso. Questa è la parola di buona notizia di Giovanni. Questa testimonianza è veritiera e si accomuna la nostra affermazione su chi crediamo, l’unico Signore di tutti. Se riflettiamo bene, da queste tre nomi derivano le parole giuste che fanno bene al corpo e all’anima di una persona. Queste parole esistono perché hanno creato l’uomo e tutti gli esseri viventi. Perciò in esse “L’io sono” cioè Dio vi abita, laddove gli uomini e le donne si comunicano bene, quelle parole di bene. La parola di benedizione sono di Dio, come lo benedicono, lo glorificano, lo pregano i popoli.

In questo giorno di natale, quanto  avrei preferito dedicare il mio tempo in silenzio, meditando solo alla PAROLA, solo a Lei, ciò che il vangelo secondo  Giovanni ha sottolineato nel suo prologo. Possiamo far scorrere nella nostra mente tutto ciò che riguarda la Parola che sono stati ascoltati, testimoniati, insegnati, fatti da coloro che ci avevano preceduti.  La nostra mente ha la capacità di parlare con noi stessi di questa Parola senza aprire la nostra bocca. Ma La parola ci invita, ci induce a comunicare è così tante parole sono state dette su quell’unica PAROLA. E’ così  fu iniziato in contempo la testimonianza di Dio di pari passo con quella PAROLA. Dio rivelò se stesso con la nascita della parola.

Grazie al prologo del Vangelo secondo Giovani, ha messo in principio indicandoci Essa come poi diventa la via, la verità, e la  vita. Poiché chiunque crede in lui non perisca ma abbia vita eterna, parola che salva, che guarisce.

In principio era la Parola. L’inizio di tutto era la Parola. Non esisteva niente se non la Parola. Infatti, in Lui tutte le cose hanno avuto i nomi propri e il senso delle loro esistenza. In questo istante, ci dedichiamo solo a quella PAROLA, la contempliamo perché ci è stata piena di grazia(come diceva Maria), essa ci ha accompagnati in quest’anno al culto, allo studio biblico, al luogo in cui siamo stati chiamati a testimoniare; Questa Parola ha parlato per mezzo di noi. Abbiamo dedicato la nostra vita per testimoniare quella parola che abbiamo ascoltato e letto nelle Sacre scritture e nelle testimonianze di vissuto di molti che hanno creduto e che credono ancora. Dall’unica Parola di Dio, ne abbiamo tratto tante cose, tante parole, soggetti e oggetti delle nostre meditazioni.

Oggi celebriamo il natale in maniera diversa dalle nostre abitudini: i momenti di condivisione e convivialità fra i nostri cari membri di famiglia, amici con tanto di scambi di regali e festeggiamenti. E’ passato un altro anno in cui la chiesa non ha mai smesso di annunciare l’evangelo, la buona notizia in  Gesù Cristo, il figlio di Dio incarnato. Noi pastori e pastore, siamo stati incaricati ad annunciare la Parola e noi ci siamo impegnati giorno dopo giorno a studiarla, e a capire il modo migliore per proclamarla. Le nostre parole non sono sempre state sufficienti per parlare, raccontare su Dio (Lui) ma per questo motivo che dobbiamo continuare a perseverare a dare ancora il nostro meglio al tempo che ci è di fronte.

Domenica scorsa abbiamo anticipato il culto di Natale perché fosse stato trasmesso in eurovisione alle ore 10,00 dalla Rai 2, oggi. Noi abbiamo constatato quanto è stato l’impegno richiesto per la preparazione della trasmissione di una bella testimonianza fatta dalla rubrica del protestantesimo. Che cosa è questa fisionomia che ha assunto ormai la chiesa di via XX settembre che l’ha testimoniata da volti diversi, ma che parlano del loro unico Dio? E’ un orgoglio di appartenere a questa chiesa. Maria diede alla luce il figlio di Dio incarnato in Gesù, è stata una donna benedetta. Le donne pastore continuano a farsi carico di questo ruolo di portatrice e di mediatrice di quella Parola che illumina. Con timore e tremore, preghiamo che  Dio continui a compiere la sua volontà.

Il nome di Dio non dovrebbe essere strumentalizzato: usato o parlato in vano come dice nelle dieci parole di Dio. Per questo motivo dobbiamo continuare ancora la nostra missione sia personale che collettiva. Testimoniare il nome di Dio significa seguire sempre le indicazioni che aveva lasciato come immagine del volto di Gesù nei suoi fatti. Egli ci fa tornare sempre al nostro dovere di dare spazio al nostro vicino,  crearne un luogo per dire questo posto è per noi due. Dove due o tre sono riuniti lì c’è Dio.

Care sorelle e cari fratelli impariamo l’alfabeto di Dio: l’A,B,C di Dio è un linguaggio di inclusione, ma nello stesso tempo chiama per nome ciascuno e ciascuna per mettere in atto la sua volontà di operare con i vari doni spirituali che sempre sono i suoi modi di operare. Gesù crea una comunità inclusiva e ne prende cura dei membri poiché agiscano insieme in perfetto collegamento per la loro reciproca edificazione.

Care e cari Buon natale a voi. che il Signore ci accompagna in questo tempo. Che non ci perdiamo la speranza che in lui abbiamo  ricevuto.  Amen.

 

past. Joylin Galapon