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Opere resilienti, come i rami d’ulivo

L’emergenza sanitaria ha colpito anche le Opere «che “rispondono” al Sinodo» delle chiese metodiste e valdesi

L’emergenza sanitaria ha colpito anche le Opere «che “rispondono” al Sinodo» delle chiese metodiste e valdesi e che stamane 23 agosto sono state chiamate a informare (alla presenza della moderatora della Tavola valdese, Alessandra Trotta) l’Unione delle chiese metodiste e valdesi, in assise in questi giorni con il suo Sinodo (il massimo organo decisionale dell’Unione delle chiese) sull’anno appena trascorso.

«Un anno difficile» è stato detto più volte dalle direttrici e dai direttori dei Centri. Opere – tra queste il Centro Agape di Prali (To), il Centro Ecumene di Velletri (Rm), il Centro diaconale La Noce di Palermo, il Servizio Cristiano di Riesi, il Collegio valdese di Torre Pellice -, che hanno «saputo reagire con efficacia alle limitazioni imposte dalla pandemia» e affrontare «i disagi le e le emergenze».

Opere resilienti, dunque, che hanno saputo «vincere le paure aprendo le loro porte e accogliendo le persone più bisognose con la consapevolezza che il Signore non ci lascia e non ci abbandona», ha ricordato il direttore del centro di Riesi, Gianluca Fiusco, presentando contestualmente un video sul Centro nel quale emerge la forza fisica, emotiva della raccolta delle olive, recepita dai delegati come una metafora della raccolta di anime; immagini che hanno  dato forza all’impegno dei Centri diaconali gestiti dalle chiese metodiste e valdesi.

L’apprezzamento del Sinodo è stato corale ed è passato attraverso le votazioni degli ordini del giorno presentati e approvati dal Sinodo. Dove il linguaggio inclusivo «dev’essere certamente dirimente» ha fatto notare la pastora valdese, Letizia Tomassone.

Opere, si è detto stamane «che hanno saputo sviluppare nuove modalità di aggregazione e di incontro in tempo di pandemia di covid; che hanno saputo sanare stabili con adeguamenti strutturali, con particolare attenzione alle accessibilità per tutti».

La prima parte della mattinata, dunque, è stata importante per rispondere e senza esitazioni a una domanda fondamentale che preoccupava la Commissione d’esame.

Per questi Centri – recita in sintesi il quesito – l’essere riconosciuti come centri di eccellenza, punti di riferimento per il territorio potrebbe offuscare in qualche modo «la loro evangelicità»?

Preoccupazione certo legittima.

Le testimonianze di oggi hanno dato risposte rassicuranti.

Il Centro ecumenico di Agape in questi giorni celebra i suoi settant’anni di attività ed è una testimonianza evangelica riconosciuta che va ben oltre i confini territoriali. Come ha evidenziato la direttora Lucia Leonardi.

Come «sempre più internazionale» è il Centro di Ecumene di Velletri (Rm): un’apertura verso l’estero che «è una bella sfida che segue il segno dei tempi» ha ricordato – dopo l’intervento della direttora Elvira Migliaccio – la presidente dell’Opera per le chiese evangeliche metodiste in Italia (Opcemi), Mirella Manocchio; ribadendo altresì l’esigenza di capire «alla luce dell’oggi, come poter esprimere nel migliore dei modi la testimonianza evangelica».

«Un anno che è stato difficile dal punto di vista psichico e fisico per tutti – ha ricordato anche Anna Ponente, direttora del Centro diaconale la Noce -. La Sicilia inizia questo nuovo anno di attività coni i dati covid non proprio rassicuranti. Strategie rigorose, quest’anno, hanno però permesso risultati importanti in ambito sociale, avvicinandosi ancor più di prima ai nuovi disagi, la marginalità, la povertà, la vulnerabilità di molte persone. Spesso amplificate dall’emergenza sanitaria».

Per parte sua, il Collegio valdese «ha recuperato con impegno il tempo perso, imposto dalle chiusure forzate in occasione del primo e secondo lockdown. Oggi – ha ricordato il preside Marco Fraschia – la presenza degli studenti è regolare grazie alle misure di prevenzione messe in campo». Attività in presenza che sono fondamentali e «prontamente ripristinate con iniziative che caratterizzano il nostro istituto», ha concluso Fraschia.

Il presidente del comitato del Collegio valdese Roberto Canu, ha ricordato quanto la “tempesta” causata dal covid sia stata pesante per gli studenti e che dunque si sta predisponendo «l’apertura di uno sportello per il sostegno psicologico».

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Una Facoltà valdese di teologia sempre più vitale e interconnessada

Oggi all’esame del Sinodo delle chiese metodiste anche l’operato della Facoltà Valdese di Teologia

Oggi pomeriggio «all’esame» del Sinodo delle chiese metodiste e valdesi (il massimo organo decisionale dell’Unione delle chiese) c’era la Facoltà Valdese di Teologia di Roma: il più antico Istituto in Italia per lo studio universitario della teologia evangelica.

Fondata nel 1855 a Torre Pellice (To), si traferì prima a Firenze a Palazzo Salviati dal 1860 al 1921, poi nell’attuale sede di Roma in via Pietro Cossa, accanto alla chiesa valdese di Piazza Cavour.

«L’esigenza di quella che oggi si chiama “formazione” fu avvertita nel movimento valdese sin dal suo sorgere nel medioevo. In seguito all’adesione alla Riforma protestante, i valdesi strutturarono la loro chiesa secondo il modello riformato calvinista ed incrementarono il livello della preparazione teologica dei pastori».

Rivolgendosi all’assemblea sinodale il Decano della Facoltà valdese di teologia, il pastore Fulvio Ferrario, ha ricordato quanto la pandemia, malgrado la sua tragicità, abbia di fatto stimolato «l’utilizzo di nuove tecnologie (didattica a distanza) e favorito interazioni telematiche», incentivando così «nuove iscrizioni (studenti a distanza)» e che sempre in questi anni «sono state attivate nuove collaborazioni atte a migliorare la comunicazione istituzionale verso l’esterno; cresciuta anche grazie al potenziamento del sito web».

Una Facoltà, emerge, dunque, sempre più viva e vitale. Sempre più «ricca», grazie alla presenza di nuovi studenti e sempre più interconnessa con le realtà che la circondano. Dunque, una facoltà al passo con i tempi.

Ferrario, inoltre, ha ricordato che quest’anno «si è registrato oltre all’aumento di studenti iscritti, anche un aumento di semplici interessati ai singoli corsi proposti (una rete proficua), sempre grazie alla possibilità di poter usufruire di lezioni online»; infine ha ricordato che le spese fisse sono diminuite e sono stati avviati investimenti grazie ai quali si sono potuti effettuare lavori di ristrutturazione interni alla Facoltà.

Oggi il Sinodo ha anche approvato l’ordine del giorno che nomina la pastora Annegret Reitz-Dinse al ruolo di professoressa (straordinaria) per la cattedra di Teologia pratica.

Una Facoltà, quella valdese di teologia di Roma, che si caratterizza per la compresenza di due elementi: la consapevolezza delle proprie radici protestanti e riformate e una accentuata sensibilità ecumenica. Gli studenti per lo più sono membri delle chiese protestanti italiane, ma vi sono anche molti stranieri di appartenenza protestante e molti studenti evangelici (provenienti da tutte le denominazioni), cattolici, oppure interessati alle tematiche delle scienze bibliche e teologiche pur non appartenendo ad alcuna chiesa.

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In presenza e a distanza: come stiamo cambiando?da

da Riforma

Il Sinodo ha iniziato una riflessione dedicata all’incidenza del Covid nelle chiese

Come ci ha cambiato il Covid? Anzi, come sta continuando a cambiarci? Come influenzerà il nostro modo di vivere la fede? Come ha influito sulle nostre chiese, ma anche sulle altre e anche sulle altre fedi religiose? Intorno a questi interrogativi si è sviluppata una bella discussione nel pomeriggio della domenica, nell’ambito della “vita della chiesa” del Sinodo valdese e metodista, che ha appena nominato Valdo Spini e Marco Fornerone rispettivamente presidente e vice del seggio che conduce i lavori. Lo spunto la Commissione d’esame, che “istruisce” i lavori sinodali, l’ha trovato in una serie di domande poste nell’autunno del 2019 dalla Tavola valdese. Nessuno immaginava all’epoca, ovviamente, a che cosa saremmo andati incontro, ma quelle riflessioni erano e rimangono attuali.

Si trattava, due anni fa, di cominciare a pensare a quali delle strutture organizzative e funzionali delle nostre chiese siano da ripensare (perché pensate in epoca di numeri diversi nella consistenza delle chiese) e quali invece rimangano irrinunciabili. Ora la Commissione d’esame ha ritenuto che questi interrogativi ricevessero nuovi spunti proprio da questa situazione di emergenza, venendone aggiornati: forse qualcosa potrà servire anche quando l’emergenza stessa – speriamo – sarà stata superata e nell’intendimento della Commissione stessa, si esprime l’esigenza di una visione di lungo periodo, una nuova prospettiva da ricercare per la vita di fede di singoli e comunità.

Dal dibattito sono emerse chiaramente due linee, che non bisogna interpretare come se fossero alternative: una tendenza sottolinea con gratitudine i benefici che le nuove tecnologie e strumenti informatici hanno fornito, venendo a sopperire alla presenza fisica ai culti e alle riunioni, ai catechismi e agli studi biblici, addirittura consentendo che potessero seguire gli eventi persone impossibilitate per problemi personali di mobilità a essere presenti, oppure persone di altre località. Un’altra tendenza, invece, vede la pur utile pratica di culti e altri eventi telematici come legata solo all’emergenza, sottolineando che nulla potrà mai sostituire il contatto umano, di persona, la fisicità dei locali di culto.

In realtà l’elemento più bello e produttivo di questa discussione, non breve e destinata a riprendere (il Sinodo ha infatti votato la costituzione di una commissione ad hoc che riferirà nel prosieguo dei lavori), sta nel fatto che nessuno degli interventi riconducibili all’una o all’altra tendenza ha negato le ragioni della tendenza opposta. Cioè a dire: chi lamenta la non-fisicità delle piattaforme informatiche non nega che proprio a queste ci siamo aggrappati come a un salvagente. Al tempo stesso non si ritiene che esse siano la panacea per tutti i motivi di sofferenza delle chiese, e questo lo riconosce anche chi le ha utilizzate con profitto.

Altri motivi, estranei al Covid, erano già presenti nei dibattiti degli ultimi anni, ed erano stati segnalati da indagini statistiche, approfondimenti sociologici: quando l’emergenza sarà alle nostre spalle sarebbe opportuno ripartire da lì, come si stava facendo a più livelli, chiedendosi su che cosa sia urgente intervenire, dai linguaggi ai meccanismi di funzionamento della macchina chiesa e alle strutture intermedie che, nonostante tutto, nonostante restrizioni e lutti, hanno fin qui continuato a rendere visibile la realtà delle singole comunità e della chiesa tutta.

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Dalla fiducia alla Speranza

da chiesavaldese.org

Intervista ai neo consacrati

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Afferrati dall’amore di Dio

Il sermone del culto di apertura del Sinodo

Riportiamo qui di seguito la predicazione tenuta dal pastore Winfrid Pfannkuche in occasione del culto di apertura del Sinodo delle chiese metodiste e valdesi che si è svolto domenica 22 agosto nel tempio di Torre Pellice

 

I CORINZI 12,31b; 13

Care sorelle e cari fratelli,

l’apostolo aveva appena parlato del corpo di Cristo. Eccolo qui. Nella gioia. Per Monica, una nuova diacona. E per Gabriele, un nuovo pastore. E per essere finalmente, in qualche modo, anche nuovo, insieme.

Certo, quel che conta non è il corpo, ma che è di Cristo. Conta l’essere di Cristo. Guai a fissarsi sul corpo, sulla chiesa. È la chiesa di Cristo. Noi cristiani parliamo troppo di chiesa, parliamo troppo di cristiani e di cristiane, e troppo poco di Cristo e con Cristo. Siamo troppo autoreferenziali. Siamo fissati su noi stessi. Sulla nostra immagine. Quel che conta non è il corpo, ma che sia di Cristo.

Attenzione però: tra i vari gruppi in conflitto fra di loro nella chiesa di Corinto c’era anche un gruppo che si diceva «di Cristo». Le formule giuste e pulite non ci salvano, dobbiamo scendere nella sostanza, mai avere paura di approfondire per evitare eventuali conflitti, approfondire perché nella profondità c’è l’amore di Dio.

Ora questo corpo di Cristo cammina. Il Sin-odo, il cammino condiviso, insieme. Ma anche qui non basta fissarsi (e in tal modo fermarsi) sull’essere insieme e sul camminare insieme. Quel che conta non è il nostro camminare, bensì la via sulla quale camminare insieme.

Ora l’apostolo ce la mostra, e la chiama la via per eccellenza. Non la chiama la via «giusta» o «la retta via» da buon pedagogo bacchettone. Ma la via per eccellenza, in greco iperbolen, l’iperbole, sì: la passione, l’entusiasmo, la bellezza, l’arte, la vitalità mediterranea. Non è solo una via giusta, retta, dritta, sobria, modesta, politicamente corretta. Neppure solo una via secondaria, provinciale, nascosta ai più, più per esperti, una nicchia, una via segreta fuori dal grande traffico. Mai può essere una scorciatoia o una circonvallazione. Ma la via per eccellenza. Sì, esiste un protestantesimo che non perde di vista la passione, la bellezza e l’arte, che non ignora di essere indirizzato alla via per eccellenza.

E poi segue l’inno all’amore. Ancora una volta dobbiamo cambiare l’immagine: dal corpo al cammino, e dal cammino al canto. Il Sin-odo diventa sin-tonia, sin-fonia. La musica, la nostra arte e la nostra bellezza preferite. Ritrovare l’armonia della coralità, delle diverse voci e strumenti che nei disaccordi ritrovano l’accordo, che ritrovano nell’inno all’amore l’altolà della loro esistenza. Certo, veramente non è un inno che si cantava, ma un testo d’istruzione. Un testo d’istruzione che ci insegna anche in che modo istruire. Non è un libretto d’istruzioni, la nostra chiesa non è un libretto d’istruzioni di 100 pagine in venti lingue diverse. La chiesa, con tutte le sue stonature, è un inno. Ma anche qui vale: non è il nostro cantare, non è l’inno, ma quel che conta è l’amore.

Tre sono le strofe di quest’inno. Qui siamo alle prove per cantarle insieme. Ci vogliono prove, anche un duro e faticoso lavoro, non vien da sé, anche se conosciamo bene l’inno, anche se l’abbiamo sempre cantato, predicato e amato.

Ecco, la prima strofa:

Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi amore, sarei un rame risonante o uno squillante cembalo. Se avessi il dono di profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza e avessi tutta la fede in modo da spostare i monti, ma non avessi amore, non sarei nulla. Se distribuissi tutti i miei beni per nutrire i poveri, se dessi il mio corpo a essere arso, e non avessi amore, non mi gioverebbe a niente.

Diventa immediatamente il canto del Sinodo delle nostre chiese: avessi una forte spiritualità, avessi una vita di preghiera intensa! Avessi una predicazione profetica, una teologia chiara e una salda fede! Avessi una diaconia che incide, persone che si impegnano fino in fondo, testimoni autentici fino al martirio! Senza se e senza ma. Andassero tutti questi doni d’accordo fra loro, camminassero davvero insieme, senza dover stabilire chi è il più grande fra loro! Guai a chi punta su un solo dono, peggio: sul proprio dono, in trincea contro altri doni. Dal tenore: ci vuole più spiritualità! e spara sulla teologia; ci vuole più predicazione! e spara sulla diaconia; ci vuole più diaconia! e spara su tutti; ci vuole più impegno! e spara sulla fede, ci vuole più fede! e spara sull’impegno.

Mi metto nei panni di Monica e Gabriele (che sono panni simili ai miei): devo avere una forte spiritualità e preghiera, una buona conoscenza e una robusta teologia, una fede incrollabile, impegno fino in fondo e, alla fine, devo dare la mia vita in sacrificio per la causa. Devo avere tutti quei doni e devono andare d’accordo fra loro, sintonizzarsi nel mio ministero. Povero me, povera me! E povera chiesa!

È bene sapere che da alcune discipline delle prime chiese risulta che persone eccellenti che hanno sfiorato il martirio avevano il divieto di predicare. È bene sapere che predicavano persone come Saulo, forte con la penna, debole «in presenza». È bene sapere che una sola cosa conta, per non perderti nelle infinite aspettative, soprattutto in quelle del tuo proprio ingombrante e impietoso io. L’amore. E tutte quelle cose vi saranno date in più. Ma appunto date, e non messe in scena. Eccellenti non siamo noi, non eccelliamo né siamo Eccellenze, la via, e solo la via, è quella per eccellenza.

Questa prima strofa è un tipico testo di una scala di valori. Grandi valori vengono elencati, dalla spiritualità al martirio. Ma una sola è la priorità. Qui si stabilisce la priorità. Il primo comandamento. Lo sh’ma jisrael. Ecco: l’inno all’amore è il nostro sh’ma jisrael. Ristabilire la priorità, quotidianamente, ogni giorno. L’agàpe, l’amore di Dio e l’amore per il prossimo. In questa priorità ci ritroviamo tutti. E non ci perdiamo per vie non meglio definite.

Paolo riesce a dire queste cose non solo dell’amore, ma anche con amore. Non solo ci istruisce, ma ci insegna anche come istruire. Dire a quei corinzi che sono dei montati, gonfiati che rischiano di soccombere nel proprio io pieno di doni, valori e buona volontà, dire a loro di non essere buoni a nulla, con parole che sono diventate uno dei pezzi più belli della letteratura universale. Questa è la bellezza, la musica, l’arte apostolica della nostra predicazione. E qui siamo per imparare insieme quest’arte del dire la verità con amore, e di comunicare l’amore con verità.

La seconda strofa è il centro, il cuore dell’inno, dell’istruzione. Ora il soggetto è l’amore. Ora l’amore diventa un soggetto, una persona che prende in mano la situazione, che prende in mano la nostra esistenza, il nostro ministero, le nostre chiese. 16 volte amore. Solo all’inizio e alla fine, l’apostolo pronuncia la parola amore, agàpe. In mezzo: l’amore c’è, comanda, come se non ci fosse. Si apre uno spazio per noi in questo amore, in questo inno all’amore. E qui facciamo quel che piace a tanti: una piccola «animazione» che ci mette letteralmente in gioco: immetti in questa parola amore ciò che ami veramente. Se sono sincero, ciò che amo veramente è anzitutto me stesso. Sentiamo come suona:

Io sono paziente, io sono benevolo; io non invidioio non mi vantonon mi gonfionon mi comporto in modo sconvenientenon cerco il proprio interesse, non m’inasprisconon addebito il malenon godo dell’ingiustizia, ma gioisco con la verità; soffro ogni cosa, credo ogni cosa, spero ogni cosa, sopporto ogni cosa. Se sono sopravvissuto nel mio orgoglio fino a questo punto, ora arriva il colpo finale: io non verrò mai meno.

E, più altruista, posso immettere anche la persona che amo, i miei cari, possiamo immettere le nostre comunità, le nostre chiese: non sopravvivranno al colpo finale, alla croce dell’inno all’amore: anche le nostre chiese verranno meno.

È chiaro, l’apostolo, notoriamente non un grande esperto di fidanzate, fidanzati o famiglie (di comunità invece sì), qui canta Cristo, solo Cristo, senza mai pronunciare il nome, racconta la vita di Gesù: Cristo è paziente, è benevoloCristo non si vanta, non si gonfia, soffre ogni cosa, crede ogni cosa, spera ogni cosa, sopporta ogni cosaÈ il Cristo crocifisso e risorto che non verrà mai meno. Ecco l’amore fattosi carne, immessosi in noi, come noi ci siamo immessi nella sua parola, che ci libera da noi stessi, dalla dittatura del nostro io gonfiato iperbolico, ingombrante e impietoso, prendendo in mano le nostre coscienze, le nostre esistenze, le nostre chiese. Ed ecco perché è l’amore la più grande, perché è Cristo, Dio stesso, in persona. Ed ecco perché è vero: si è immesso in quell’amore fino in fondo.

Di questo Dio non abbiamo altra immagine che Gesù Cristo. E di questo Cristo dobbiamo fare attenzione a non farci l’immagine sbagliata: non è una singola persona che ricordiamo con un ritratto. Questo Cristo ce l’abbiamo solo come «foto di gruppo», in azione con altri. La sua immagine è la tavola della cena, l’agàpe, il Cristo in azione, interazione, con il mondo tanto amato, da darsi, spendersi. La sua immagine siamo noi insieme, noi chiese in interazione con il mondo tanto amato da Dio, da darsi, spendersi, come solo il suo amore sa fare.

Ora abbiamo fatto questa riscoperta di Dio e di noi stessi, del Cristo, come in uno specchio ci siamo specchiati in questo inno all’amore, in modo oscuro.

Ora ci immettiamo con questa nostra vocazione, con questa nostra istruzione in Cristo che non verrà mai meno nella terza strofa, in questo mondo in cui tutto ha il suo limite, il suo tempo, tutto è precario, passeggero, mortale. Abolizioni, cessazioni – in parte, tutto solo in parte. Tutto viene meno.

La profezia nella predicazione dell’inno all’amore di Tullio Vinay che 70 anni fa aveva inaugurato il Centro Ecumenico di Agàpe ha lasciato un profondo segno nella biografia di tanti e tante, quasi tutti e tutte voi. Un’esperienza di amore dopo l’assoluto venire meno di tutto della seconda guerra mondiale. È venuta meno? La nostra spiritualità, la nostra forza positiva e propositiva, sì, sono venute meno in questi anni. Certo, siamo in buona compagnia di tutte le creature, gemiamo insieme a loro: anche la biodiversità, gli animali, le stesse lingue in senso proprio in buona misura sono minacciate dall’estinzione. Sì, certo, anche le nostre chiese, in questi anni, sono venute meno.

Rileggere, anzi ritrovarsi nell’inno all’amore e ripartire da qui oggi, comporta una cosa: smettere di ragionare come bambini che vogliono tutto e non rinunciano a niente. Ripartire, ricostruire da persone che sono passate per la croce dell’inno all’amore. Ripartire, ricostruire da persone che hanno visto venire meno così tanto. Ripartire, ricostruire oggi che gli ultimi testimoni oculari della shoà e della seconda guerra mondiale se ne stanno andando, e le nostre teste formate nel ‘900 si perdono, nel pieno di una pandemia che allo stesso tempo ha accelerato e acutizzato la nostra presa di coscienza di un mondo tecnologico, scoperto dai più quasi a sorpresa. La nostra sfida rimane: ricostruire sul fondamento della parola del Cristo. Riapprezzarla, rinnamorarsene, fino in fondo. Quale costruzione sarebbe oggi il nostro Amen! all’inno all’amore, allo sh’ma jisrael dell’agàpe di Dio?

Non lo so, lo scopriremo solo vivendo, camminando, discutendo insieme. Posso, possiamo, forse come l’apostolo solo mostrare una via, questa via, e costruire sulla via di questa parola per eccellenza.

Ma una cosa la so e la confesso insieme a voi: la sfida di guardare in questo specchio, di avere il coraggio di immettersi, di immergersi in queste parole, di passare per la croce dell’inno all’amore, sgonfiare il proprio io, rinunciare a sé stessi, rimane sempre più grande di ogni altra sfida che troviamo sul nostro cammino. La sfida per eccellenza. La nostra priorità: l’amore che richiede sempre una decisione, una scelta chiara.

Di questa via per eccellenza sappiamo che alla fine qualcosa dura, rimane. Camminando insieme su questa via, qualcosa di noi rimane: la fede, la speranza, l’amore.

Non sono semplicemente la mia, la tua, la nostra fede, la nostra speranza o il nostro amore. Anche qui ci precede il Cristo: sono la sua fede, la sua speranza e il suo amore. Ma lo Spirito li ha posti, li ha immessi in noi. Con stupore apprendiamo, sentiamo che Dio ha messo tutta la sua fiducia, tutta la sua speranza, tutto il suo amore in voi, cari Monica e Gabriele, come in tutti noi. Lontani da ogni mielosa retorica dell’amore, afferrati dall’amore di Dio, dal quale nulla e nessuno ci potrà mai separare, sappiamo ora in chi abbiamo creduto. In Cristo Gesù.

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Giovedì in nero

Durante l’ultimo Sinodo, appena concluso a Torre Pellice, è stato approvato un ordine del giorno che sensibilizza le chiese contro la violenza sulle donne aderendo all’iniziativa “Giovedì in nero”.

Thursdays in black è la Campagna di sensibilizzazione, nata in seno al CEC diversi anni fa, che si oppone allo stupro e alla violenza. Ogni giovedì, chi riconosce la violenza contro le donne come una piaga delle nostre società – chiese incluse – è invitato a indossare indumenti neri.

Il sinodo ha invitato le chiese ad organizzare iniziative ogni giovedì e pubblicizzarle nell’ambito locale. 

Il Consiglio ecumenico delle chiese ha, quindi,  deciso di pubblicare ogni giovedì una serie di interviste a persone che operano come «ambasciatori»contro la violenza di genere.

Come riportato da Riforma.it  Agnes Abuom è la prima a essere intervistata sul sito internet del Consiglio ecumenico delle chiese (Cec) nel nuovo ciclo di incontri redazionali dedicati alla Campagna internazionale del Giovedì in nero. Abuom – originaria del Kenya – è la moderatora del Comitato centrale del Consiglio ecumenico delle chiese (Cec).

Qui potete trovare sul sito di Riforma l’intervista alla moderatora del Comitato Centrale del CEC.

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Sinodo, la quarta giornata

La quarta giornata sinodale si apre con il cultino. La parola chiave di oggi: figli di Dio
La domanda “Chi siamo?” attraversa i tempi e le culture: dall’iscrizione del Tempio di Apollo a Delfi (Conosci te stesso) all’ode di Pindaro (diventa ciò che sei, avendolo appreso) all’osservazione di sartre sul cameriere che non “è “ ma “fa” il cameriere, al Sl 8 (chi è l’uomo perché tu te ne curi?) a Gal. 4, 6-7 (tu non sei più servo ma figlio). Differenza tra essere e fare. Fragilità dell’uomo. Nella dimensione della natura noi siamo creature come tutto ciò che è creato, ma nella dimensione della storia siamo figli di Dio.

La sessione dei lavori inizia con la relazione del decano della Facoltà Valdese di Teologia sulle attività e prospettive della nostra Facoltà. Andamento degli studenti, i progetti in entrata e in uscita Erasmus, il master interculturale con ricadute positive sulle nostre chiese, le finanze ecc.

Ampio dibattito, attento e puntuale. Tutti concordano sulla grande offerta formativa e accademica che offre la nostra facoltà sia per i candidati al pastorato sia per coloro che ricercano una formazione biblica e teologica

L’analisi e la discussione prosegue sull’operato dell’ufficio otto per mille e l’approvazione dell’operato.

Nel pomeriggio, dopo l’approvazione di alcuni ordini del giorno sulla CSD e su alcune situazioni locali, si discute la situazione sullo schema di una liturgia comune battesimale comune elaborata dal primo distretto e dalla diocesi di Pinerolo. Il Sinodo viene informato che la proposta di liturgia, purtroppo, è stata bloccata e rigettata da Roma.

Si passa alla votazione dei due documenti BMV il primo sul fine vita è il secondo sull’ecumenismo. Documenti che non rappresenteranno la posizione ufficiale  della chiesa , ma autorevoli orientamenti.

 

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Il mercoledì del sinodo

Terza giornata del sinodo delle chiese metodiste e valdesi. Giornata più tecnica su modifiche statutarie di alcuni enti delle nostre chiese.  unica parentesi inziale l’esame dell’operato dell’OPCEMi, approvato all’unanimità.

Vogliamo solo segnalarvi alcune piccole riflessioni del cultino di questa mattina.

Parola chiave della riflessione del culto di apertura della giornata: il tempo. Riferimenti a ecclesiaste e a “momo e i ladri del tempo” di Michael Ende. Relatività del tempo: le ore passano più o meno in fretta sulla base di quello che stiamo vivendo. Ciclicità del tempo: nella nostra vita come nella natura tornano ciclicamente periodi di riso e di pianto. Rapporto tra Contingenza ed eternità: Dio ci dà una scala a pioli per salire a contemplare la sua eternità, ma noi, attaccati alla scala per paura di cadere, la intravediamo solo in parte. Dobbiamo fermarci ogni tanto a guardare il tempo presente per capire dove siamo e la direzione che stiamo prendendo. Il tempo è un dono per il quale dobbiamo ringraziare Dio, che ci dà la possibilità di riempirlo con la vita che viviamo. Sta a noi riempirlo con una vita dedicata al prossimo.
Dobbiamo arrenderci al tempo, cioè affidarci a Dio.