Tra libertà e responsabilità

25 settembre 2016

Romani 14,13-19

Care sorella e fratelli,

eccoci confrontati con un brano di una lettera che l’apostolo Paolo aveva rivolto alla comunità cristiana di Roma. Che bella coincidenza!

Certo ho avuto qualche perplessità a scrivere un sermone su questo testo ad una chiesa nella quale sono appena giunta mentre Paolo si rivolgeva ad una chiesa che conosceva bene, di cui sapeva la storia e la composizione e di cui comprendeva le dinamiche interne.

Per me non è ovviamente così, ma credo che ugualmente le parole dell’apostolo siano molto attuali e possano aiutare noi tutti nella riflessione.

Ancora una volta l’apostolo è chiamato a dirimere controversie e dispute nate nel seno di comunità cristiane cercando di offrire una risposta in termini pastorali, ed ancora una volta, come era già successo a Corinto, la comunità si presenta divisa in due gruppi: i deboli ed i forti nella fede.

Differenti sono le opinioni di esegeti e storici su come identificare i due raggruppamenti, ma generalmente si propende per identificare i “forti nella fede” con cristiani che si sentono liberati dai vincoli a leggi alimentari, all’osservanza di digiuni o di particolari giorni sacri; mentre i deboli con coloro che ritenevano che l’ubbidienza a prescrizioni alimentari e rituali fosse una parte integrante della loro risposta di fede a Gesù Cristo, pur se non finalizzata al raggiungimento della salvezza.

Al di là di come identificare i due gruppi, la discussione che qui prende corpo sembrerebbe contrapporre due fronti: uno legato ancora all’asservimento alle leggi di purità ed un altro liberato da queste costrizioni rituali che guarda alla vita del Regno.

Insomma qui sembrerebbe esservi uno scontro tra libertà e asservimento nella fede. Ed è significativo che ‘un giorno una parola’ indichi tale brano per questa domenica se pensiamo che in questa data nel 1870 proprio qui, nella Roma appena liberata dal potere temporale dei papi, è stato celebrato il primo culto evangelico pubblico nella città.

Ma se leggiamo più attentamente questo testo ci rendiamo conto che l’accento è posto maggiormente nel rapporto tra libertà e responsabilità.

Paolo si schiera chiaramente con i forti, con chi ha in amore la libertà in Cristo Gesù, ma ricorda a costoro la necessità di non provocare scandalo nei deboli per evitare che questa sia occasione di caduta al fratello o alla sorella e quindi di distruzione della comunione. Proprio coloro che si ritengono forti nella fede, adulti al confronto di altri che sono ancora come bambini, sono quelli chiamati ad assumersi perciò stesso una maggiore responsabilità.

Al contempo, però, non dice a costoro che la soluzione risiede nell’accettare tout court l’osservanza di tali precetti alimentari e di particolari festività per compiacere i deboli.

La chiesa che Paolo prospetta ai romani è una comunità in cui è operante la diversità riconciliata tra i credenti in virtù della comune appartenenza a Cristo: «Nessuno di noi infatti vive per se stesso, e nessuno muore per se stesso; perché, se viviamo, viviamo per il Signore, se moriamo, moriamo per il Signore. Sia dunque che viviamo o che moriamo, siamo nel Signore» afferma al versetto 7.

L’apostolo in realtà ammonisce gli uni e gli altri, rei di aver intaccato lo spirito di fratellanza che deve animare i membri della comunità cristiana il cui centro di unità è il rapporto totalizzante con Cristo, l’appartenenza a lui.

Se volessimo porre in parallelo le situazioni descritte nel brano di Romani e le nostre esperienze comunitarie forse avremmo qualche difficoltà nell’individuare i due gruppi poiché ognuno ed ognuna di noi ritiene a buon conto di essere forte nella fede, ed anche perché nel nostro ambito difficilmente si trovano gruppi legati a prescrizioni alimentari e a festività.

Ciò non toglie che tra noi permangano diverse sensibilità teologiche e liturgiche legate pure ad ambiti culturali e nazionali differenti, opinioni e modi diversificati di portare avanti la propria vocazione, magari una divisione tra chi vuole esprimere la propria testimonianza in ambito cultuale e di preghiera e chi invece vede anche l’impegno politico come espressione del proprio vissuto di fede.

Il punto centrale di Paolo, comunque, rimane: non un’uniformità che appiattisce, ma la solidarietà tra diversi deve caratterizzare la comunità cristiana, la mutua accoglienza in cui i deboli e i forti devono sapersi accettare come fratelli e sorelle nella loro alterità.

«Vivere vuol dire essere in solitudine. Nessun uomo conosce gli altri. Ogni uomo è solo»

È un’affermazione lapidaria e priva di speranza questa di Hermann Hesse, ma ad ogni buon conto ci sentiamo di dire che non sia del tutto vera?

Pensiamo un momento alla realtà che ci circonda, alle sfide epocali emerse con la globalizzazione: la tecnologia ci permette di essere in contatto con tutti in ogni parte del globo eppure aumenta il numero di coloro che muoiono in solitudine senza che nessuno se ne accorga; oggi è possibile raggiungere con voli velocissimi nazioni e continenti a noi lontanissimi eppure vi sono uomini e donne che per attraversare un lembo di mare o scavalcare un muro perdono la vita.

Nella moda, nella musica e nel cibo si mescolano colori, suoni e profumi di tutto il mondo eppure vediamo quanto sia difficile accogliere e rispettare la diversità vivente dell’altro quando ci tocca!!!

E nelle nostre chiese? Pensiamoci!

Sicuramente è più facile ed offre maggior sicurezza accogliere e dialogare chi è a noi simile secondo l’adagio “il simile ama il suo simile” e quando ciò non può avvenire, ecco allora emergere un atteggiamento di giudizio, una reazione colma di paura. È questa paura la radice del razzismo, dell’emarginazione, della censura di opinioni differenti e discordanti.

«Accoglietevi gli uni gli altri, come anche Cristo vi ha accolti per la gloria di Dio» è invece la risposta conclusiva del ragionamento di Paolo nel capitolo 15 ed anche se qui la terminologia dell’amare non compare in modo esplicito, l’accogliere a cui l’apostolo si riferisce in contrapposizione al giudicare, mi pare che si muova lungo la stessa direttrice.

E qui l’apostolo utilizza non a caso un imperativo perché questa non è una possibile opzione tra le altre, ma è una scelta di campo basilare e su questa sì che si gioca l’aderenza o meno alla fede rivelata da Gesù Cristo.

Accogliete nel pieno rispetto chi è diverso, non solo chi è simile a voi – viene affermato con forza –  perché Dio stesso ha operato proprio così nei vostri confronti.

Lui, l’Altro per eccellenza, ha voluto condividere la nostra alterità nei suoi confronti in Gesù Cristo fino a soffrire e morire come uno di noi, per poi risorgere e così accoglierci come fratelli e sorelle rinati e innalzati alla gloria di Dio.

Questo pone ognuno di noi dinanzi ai propri limiti e al tempo stesso offre un nuovo orientamento per spezzarli, così da permettere ad ognuno di noi di saltare al di là della propria ombra e di capire con chi gli è prossimo che – come dice Bohnoeffer – <<sia lui sia io non possiamo vivere in nessun modo delle nostre parole e azioni, ma solo dell’unica parola ed azione che ci unisce nella verità, cioè la remissione dei peccati in Gesù Cristo >>.

Ma un altro punto vorrei sottolineare del discorso di Paolo che, secondo me, ci potrebbe permettere di avere uno sguardo alto e altro sulla questione.

Quando l’apostolo Paolo afferma in modo lapidario che “il Regno di Dio non consiste né in vivanda né in bevanda, ma è giustizia, pace e gioia nello Spirito santo” offre a noi cristiani di ogni tempo e luogo l’opportunità di sollevare il capo dalle nostre a volte sterili dispute, dalle nostre controversie liturgiche e cultuali per porre lo sguardo verso l’orizzonte del Regno e il cammino che questo traccia per noi tutti.

Ed è solo su questo terreno che ognuno di noi può incontrare l’altro, su un terreno dove gioca solo l’amore di Dio che spinge noi tutti ad assumerci la responsabilità dell’altro in tutta la sua interezza, senza fermarci al solo ambito comunitario, ma operando secondo tale prospettiva anche in quello societario.

Amen 

Past. Mirella Manocchio