La Trinità

Cari fratelli e care sorelle,

oggi è la prima domenica dopo Pentecoste, domenica in cui generalmente si medita sulla Trinità, difatti il primo passo della Bibbia che oggi abbiamo letto si riferisce proprio a questo tema: Gesù è risorto, come promesso è arrivato sui discepoli lo Spirito Santo e il Vangelo di Matteo si conclude proprio con la enunciazione della Trinità stessa. Ci viene detto che tutti gli atti di fede compiuti non saranno nel nome di un  dio qualunque ma in quello di un Dio uno e trino, Padre, Figlio e Spirito Santo.

Curiosamente, due anni fa mi sono trovata in questa chiesa a predicare sempre su questo tema e la predicazione si era concentrata su come la  Trinità sia, in fin dei conti, una manifestazione di amore da parte di Dio verso l’Umanità. il nostro Dio è un Dio vicino in diverse forme, non lontano e distante, ma partecipe dei nostri sentimenti e che ci ama, infatti racchiude in sé la figura del Padre perché ci accoglie come Figli e ci ama di un amore immenso, del Figlio che addirittura si fa carne e viene ad abitare in mezzo a noi sperimentando anche le nostre sofferenze umane, e ancora di più dello Spirito Santo che è risultato della Sua promessa di non lasciarci soli e che guida la Chiesa Universale.

La Trinità è un atto d’amore dunque, ma Dio, come sappiamo, vuole che questo suo amore verso di noi sia contraccambiato non solo a Lui ma anche al prossimo, e questo è quello che oggi il brano su cui ho scelto di riflettere ci propone.

In questo passo la legge del taglione potrebbe sembrare qualcosa di deplorevole, ma in realtà tale sistema non era altro che una conquista civile per affermare che il male fatto doveva essere contraccambiato con la stessa misura e non in maniera sproporzionata, occhio per occhio e dente per dente invece che occhio per la vita del tuo nemico, ad esempio. Qui Gesù però, nonostante la moderazione di tale sistema, ci chiede di andare oltre ancora e di amare i nostri nemici. Come sappiamo questa richiesta è veramente difficile da esaudire, specialmente verso chi ci perseguita, ci ha fatto del male o peggio, ha fatto del male a qualcuno a cui vogliamo bene.

Mi sono quindi chiesta come mai Gesù ci chieda una cosa così difficile, e l’unica risposta che ho trovato è che probabilmente ce lo chiede perché solo l’amore può disinnescare il male. Vi faccio una confessione personale: sono una grande fan di Un posto al sole,che per chi non lo sapesse è una telenovela italiana storica che va in onda tutte le sere. Per chi lo conosce e lo segue sa che in questo periodo il tema ricorrente è proprio la vendetta per il male subito e una frase pronunciata da uno dei personaggi a un altro mi è rimasta impressa: possibile che lui (riferito a colui che vuole far del male)  in tutti questi anni non abbia avuto nessuno che lo abbia amato e che gli abbia fatto passare questa ossessione per la vendetta?  Cari fratelli, per quanto il contesto da cui sia stata estrapolata questa frase possa essere profano la verità è proprio questa: il male che noi subiamo e che c’è può essere battuto solo con l’amore. L’odio, quando esercitato, genera altro odio in una spirale che sembra infinita e senza uscita, l’unico modo per appiattirla è andare contro corrente…

A questo punto ci potremmo chiedere come si potrebbe  fare per cercare di ottemperare almeno un minimo a questa richiesta della vita cristiana. Credo che forse una delle strategie possibili sia il non essere superficiali e andare a fondo in quel che accade, capirne le motivazioni.  Da circa un anno e mezzo mi trovo a operare con persone che hanno compiuto reati, quelle che la società scarta, quelle invisibili…. Alcuni hanno compiuto anche i reati più gravi come omicidi o tentati omicidi, sfruttamento della prostituzione, altri “semplicemente” spaccio di droga o maltrattamenti… Queste sono le persone che la nostra società odia, forse anche ragionevolmente. Ma se si prova ad andare oltre, si scopre che queste persone sono persone che a loro volta hanno subìto maltrattamenti, persone che non hanno appunto conosciuto l’amore o che semplicemente, come afferma anche qualche corrente sociologica, non sono riuscite a vivere secondo la legge perché con mezzi legali non riuscivano a mangiare…. Si può essere anche i peggiori criminali, ma la fame ci accomuna tutti e se qualcuno non si riesce a sfamare per vie legali userà delle scorciatoie. Certo, questo non vuole essere una giustificazione, la società per funzionare ha delle regole ben precise e in un paese civile è giusto che chi sbaglia paghi. Ma forse, provando ad andare oltre, si può guardare chi fa il male con una consapevolezza diversa, la consapevolezza che ogi uomo è portatore di un bisogno, che la maggior parte della volte è l’amore e altre volte anche semplicemente la fame e questa mancanza talvolta porta ad azioni scellerate.

Vorrei concludere anche con un esempio più pratico e vicino a noi: poco tempo fa mi trovavo in una clinica per ritirare un importante risultato di una analisi. Ero molto nervosa e, ammetto, quando sono nervosa ho un carattere abbastanza fumantino. Siccome non  trovavo il posto esatto dove ritirare questo referto e i cartelli presenti si contraddicevano tra loro ho attaccato chi stava allo sportello. Mi sono comportata in modo aggressivo, e l’operatore ha risposto altrettanto…. Forse, vista da fuori questa storia dimostra che io ero in grande tensione per un importante risultato, e il mio interlocutore chissà, magari era pressato anche lui da vicende familiari o lavorative… non lo saprò mai, ma sicuramente se si avesse un minimo di dolcezza in più verso le persone il mondo potrebbe girare meglio di ora.

In questo periodo siamo in pandemia e abbiamo dovuto imparare ad amare a distanza, ma anche solo un pensiero credo che possa fare tanto.

Quindi fratelli, che il nostro essere cristiani possa portarci ad andare in profondità, a non soffermarci alle apparenze, che davvero Gesù ci guidi e ci porti ad amare ed essere testimoni della nostra fede. Amen

Francesca Agrò

Pentecoste

Sembra tutto chiaro, sembra tutto evidente. Un storia e la sua contro storia. Un tragedia e la sua soluzione.

Da Babele, la tracotanza umana respinta nella dispersione,  l’unità megalomane frantumata nella divisione … L’empia rivolta umana contro Dio che l’ha cerata … a Pentecoste, una nuova umanità che grazie allo Spirito ritrova in Cristo la comunione con Dio e quindi l’unità …

Babele come anti-Pentecoste, Pentecoste come anti-Babele …

La storia di Babele è tutta e solo nera? E’ solo una storia di peccato e castigo?

Un piccolo gruppo emigra da oriente, dove Caino era andato a finire (4,16) nel paese del vagabondaggio; cammina cammina, arriva nella grande piana di Babilonia e lì si stanzia.

C’era in tutta la terra, letteralmente, “un solo labbro e parole uniche”. Che vuol dire? Normalmente si pensa che l’umanità parlasse una sola lingua, che tutti avessero lo stesso lessico. Così la nostra traduzione. Stranamente, però, il capitolo precedente della Genesi ha già  fatto un lungo e complesso elenco di tutti i discendenti di Noè, lo scampato al diluvio, ognuno con la sua lingua (10,20.31). C’erano già “lingue, paesi e nazioni”. La storia di Babele vuole raccontare dopo quello che è successo prima?

C’è un’altra possibilità. “un solo labbro e parole uniche” non vuole indicare che non c’erano ancora lingue straniere, ma che tutti avevano gli stessi propositi, facevano gli stessi progetti. Non l’unità dell’idioma, ma l’unità degli intenti, gli stessi piani condivisi. L’umanità  tutta intenta ad uno stesso scopo, ottimisticamente lanciata in una sola direzione. Sappiamo che la propaganda degli assiri, che Israele aveva conosciuto a sue spese, diceva che il sovrano aveva  fatte avere “una bocca sola” ai popoli che sottometteva, li aveva ridotti a una bocca sola, cioè tutti obbedivano e non si ribellavano. L’unanimità, volontaria o estorta.

Proviamo a seguire questo filo di pensieri. Qual è il proposito unitario, il progetto che tutti mobilita, senza cedimenti o dissensi? Sono due, preceduti da una innovazione tecnica: hanno imparato a costruire mattoni e a cuocerli e a usare come malta il bitume, che affiorava dal terreno.  Sono due, dicevamo: vogliono costruire una torre e una città. E’ ovvio che intendono una città cinta da mura, una città in grado di resistere.

Cosa voleva essere la torre? Una struttura difensiva, per l’avvistamento dei nemici? Oppure  uno dei quei templi a gradoni che sappiamo esistevano: quello di Babilonia (Babele), si chiamava Etemenanki ed era alto più di 90 metri, una altezza eccezionale, per allora.

Volevano che la torre fosse alta, con la cima in cielo.

Qui c’è uno snodo importante. Si cela qui il proposito di una scalata al cielo, per raggiungere lo spazio degli dèi e mettersi al loro livello? Una sorta di sfida alle divinità, una tentativo di superare la distanza tra il cielo degli dèi e la terra degli uomini con una “iniziativa dal basso”, pensata come inarrestabile? Una pretesa titanica? Una “ribellione contro l’Altissimo”, per dirla con parole bibliche? La  torre che svetta orgogliosamente come “simbolo di ateismo”?

Oppure “la cima in cielo” è solo una immagine per dire che volevano fare una torre molto alta, forse la più alta che si potesse fare o che si fosse mai vista, ma senza nessuna pretesa di ascendere al cielo. Così è in Deut 1,28 e 9,1  dove si parla di città fortificate fino al cielo per dire che avevano alte torri. In Isaia 14,13 viene rimproverato al re di Babilonia di aver detto: “Io salirò in cielo, innalzerò il mio trono al di sopra delle stelle di Dio  …” L’ sì che si parla di sfida a Dio …

Perché vogliono fare così? Per “acquistare fama” e “non essere dispersi”. “Acquistare fama” è “letteralmente “farsi un nome. Alcune volte l’espressione è usata per Dio … per esprimere la grandezza che gli si riconosce, la fama che ha ottenuto … ma Dio ha anche “fatto un nome” a Davide (2 Sam 7,9 // 1 Cr 17,8) e Davide stesso “si è fatto un nome” con i suoi successi militari (2 Sam 8,13). Qui, a Babele, “farsi  un nome” e il tentativo di non essere dispersi sono collegati; forse è solo la volontà di realizzare qualcosa che venga ricordato, attraverso chi porterà dopo di loro il loro nome … resistenza all’oblio, continuare nella memoria. Noi ce ne andremo, ma lasciamo qualcosa di memorabile … Oppure si tratta di delirante megalomania, ricerca di fame imperitura? Senso di onnipotenza o semplicemente ansia …?

“Dio scese a vedere…” Un’altra di quelle espressioni che noi troviamo “poco da Dio”, come se avesse bisogno di avvicinarsi perché da lontano, da sopra,  non vede … E’ un modo umano, “fiabesco” di parlare, ma forse è così che ci viene detto qualcosa di importante. Dio “scende” per il grido che sale da Sodoma (Gen 18,21); promette a Giacobbe che “scenderà con lui in Egitto”, cioè che non lo lascerà solo; Dio è sceso dagli schiavi in Egitto perché ha visto la loro afflizione e udito il loro grido (Es 3,8) e vuole “farli salire” alla terra della libertà; Dio scenderà per parlare con Mosè (Num 11,17.25; 12,5); Dio scende, quando si manifesta con la sua forza (es. Giud 5,13; : Sal 18,10 ; 144,5). Dire che Dio “scende” è un modo di dire non è indifferente, che gli sta a cuore come le cose vanno quaggiù …

Dio scese a vedere la città e la torre (v. 5).  La torre è già costruita (al v. 8 smetteranno di costruire la città). Non arriva al cielo, se Dio scende. Dall’inizio della creazione, varie volte Dio “ha visto”. Al cap. 1, ha visto ogni volta che ciò che aveva creato “andava bene”.  Prima del diluvio (Gen 6,5) ha visto che l’umanità che aveva creato non andava bene. Qui vede che ciò che gli uomini costruiscono non va bene.

Che cosa non  va bene? Questo: l’unità di intenti che accomuna tutti gli umani è solo l’inizio e così nulla sarà loro impedito  di ciò che si proporranno di fare. Qui  forse è il punto del contrasto tra Dio e gli umani. Le stesse espressioni usate qui si trovano soltanto, in tutta la Bibbia, nel discorso in cui Giobbe (42,2) riconosce che  Dio “può tutto  e nessun progetto gli è precluso”.

Questo fare senza limiti viene interrotto. “Avanti, scendiamo e confondiamo la loro lingua in modo che, letteralmente, uno non ascolti più il labbro dell’altro”: pluralità degli idiomi o, anche e soprattutto, crisi dell’unità di intenti? Disperdiamoli, disseminiamoli … in un certo senso riconduciamoli così ai loro limiti, impediamo la confusione tra possibilità che si hanno e  illusioni, progetti velleitari e totalizzanti …

Dio parla al plurale. Come in 1,26: “facciamo l’umanità a nostra immagine …” e in 3,22 “Ora l’umanità è diventata come uno di noi …” Plurale maiestatico? L’immagine di una corte divina?

Sia come sia, la costruzione della città viene interrotta, i suoi abitanti dispersi, disseminati. E si ironizza sul nome della città. “Porta del cielo” voleva dire Babele … qui babele viene collegato – in ebraico ci sono suoni affini – al verbo della confusione. Le tante lingue che si sentivano nella grande città sono lette come il segno di un limite posto all’unità totalizzante … e totalitaria …

Come dobbiamo leggere la nostra storia? Come la consumazione di un dramma, come terribile atto punitivo di Dio? Come polemica contro le ambizioni del progresso e della civiltà? Oppure come reazione di Dio per difendere l’umanità da se stessa, non per avvilirla e ricacciarla indietro, per ricondurla ai suoi limiti, ma anche alle sue possibilità, senza illusioni che necessariamente saranno frustrate? Un punire e prevenire insieme … più prevenire che punire? Forse tutto è raccontato più con ironia che con il senso della tragedia.

Anche a Pentecoste, possiamo e forse dobbiamo rispecchiarci nella storia di Babele. Siamo ancora una umanità così. Progrediamo, ma ogni conquista ha un risvolto, porta con se anche le illusioni di Babele e l’ansia di Babele. Ci seduce il pensiero che, andando avanti così, nulla ci sarà impossibile e niente ci fermerà. Le nostre ambizioni e le nostre velleità ci impediscono di fare i conti con la realtà e con i nostri limiti. E così perdiamo ciò che è possibile per ciò che non può essere disponibile. Anche nella dispersione e nella pluralità delle lingue, illusioni e ambizioni totalizzanti sono sempre fra noi e dentro di noi.

A noi, che la storia di baele fa vedere come siamo, a noi Pentecoste annuncia che Dio scende ancora, per un’umanità così, con il suo Spirito che crea realtà nuove e certe.

prof. Daniele Garrone

Il nome al di sopra di ogni nome

Efesini 1,20-23
15 Perciò anch’io , appresa la vostra fede nel signore Gesù e l’amore (che avete) verso tutti i santi, 16 non cesso di ringraziare per voi facendone memoria nelle mie preghiere 17 affinché il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno Spirito di sapienza e di chiarezza nella conoscenza di lui 18 tale da illuminare gli occhi del vostro cuore, perché possiate intendere qual è la speranza della sua chiamata, quale la ricchezza della sua gloriosa eredità fra i santi, 19 e quale la straordinaria grandezza della sua potenza in favore di noi credenti secondo l’efficace intervento della sua forza vigorosa, 20 che egli dispiegò nel Cristo risuscitandolo dai morti e facendolo sedere alla sua destra nei cieli 21 al di sopra di ogni principato e autorità e potenza e dominazione
e ogni altro nome che si nomina non solo nel mondo presente ma anche nel futuro ; 22 e sottopose tutte le cose sotto i suoi piedi e lo diede (nella sua qualità di) capo su tutte le cose alla chiesa, 23 che è il suo corpo, la pienezza di lui che riempie tutto in ogni sua parte .
Celebriamo oggi la sollennità dell’Ascensione al cielo di Gesù. Abbiamo ascoltato il racconto nell’evangelo di Luca: quaranta giorni dopo la sua risurrezione, Gesù sale definitivamente al cielo. Per la verità, la festa liturgica era giovedì e in molte nazioni, come la Germania, la Svizzera o anche la Francia, che una volta erano cristiani, essa è ancora una festività civile. In Italia, no. Lo è l’Assunzione di Maria, il 15 agosto, ma non l’Ascensione di Gesù. Un po’ strano; o forse no, in questo paese.
Il mondo antico conosce molti personaggi importanti, profeti (pensiamo a Elia), eroi semidivini (Romolo), che ascendono al cielo e, in tal modo, si vedono riconosciuta l’autorità di Dio stesso. La divinizzazione dell’eroe, nell’antica Roma quella dell’imperatore, era un atto politico: se l’imperatore è divino, lo è lo stato, lo è Roma. Chi comanda nel mondo non è solo il più forte, il più brutale, il più cinico: comanda per diritto divino. Il potere sa essere anche generoso: con chi obbedisce e, più ancora, con chi adora . Obbedire al potere che si vuole divino è la condizione elementare per vivere in pace: meglio ancora, appunto, se ci si prosterna di fronte a chi siede sul trono.
L’epistola agli Efesini ha qualcosa da dire a questo proposito. Le forze che governano il mondo sono numerose e qui vengono chiamate: principati, autorità, potenze e dominazione. C’è però uno che è al di sopra di tutte quante, perché l’unico vero Dio ha posto ogni cosa sotto i suoi piedi: quest’uno è il Cristo risorto. Per orecchie cristiane, come le nostre, può apparire un’affermazione abbastanza scontata: celebrare Cristo, aggiungendo un titolo all’altro, una benedizione all’altra, ci costa poco. In realtà, quello di Efesini è un discorso molto pericoloso, non solo nel mondo antico. L’autore ci dice: quando i potenti della terra reclamano autorità assoluta, non date loro retta. Uno solo ha questa autorità. Non ci si inginocchia davanti al potere, né politico né religioso: è una bestemmia. Solo il Risorto o, come lo chiama l’Apocalisse, colui che era morto, ma ora vive nei secoli dei secoli, merita che ogni ginocchio si pieghi davanti a lui. Anche questo, dunque è un messaggio politico, come quello degli imperatori romani: solo, di segno opposto. Non il Cesare di turno, ma questo Gesù risuscitato da Dio è colui al quale il mondo è sottoposto. Lo stato, il potere politico e anche di quello ecclesiastico hanno il loro diritto, che è importante, ma relativo. La solennità dell’Ascensione proclama che il Risorto è il signore dei signori: usa il linguaggio del potere, per affermare che Dio solo regna sul mondo e sulla storia. E che dunque ogni potere umano è discutibile, se necessario contestabile.
Milioni di cristiane e cristiani, in tutti i tempi, sono morti per testimoniare questo evangelo. La città nella quale viviamo è piena di ricordi di questa testimonianza, nei primi secoli: dalle catacombe ai luoghi associati alla memoria dei martiri. A migliaia sono anche morti per testimoniare la signoria di Cristo contro la chiesa che la voleva usurpare: Cristo è il luogo – tenente (alla lettera: colui che tiene il posto) di Dio, ma il papa non è il luogotenente di Cristo. Molto spesso, per il papato dei secoli scorsi, celebrare l’Ascensione ha voluto dire: poiché Cristo è in cielo, qui in terra comando io. Cioè l’esatto contrario dell’evangelo di questo giorno. Io oggi posso dirlo con tutta tranquillità e magari qualche cattolico sarà d’accordo con me. Ma moltio evangelici sono stati uccisi per aver detto molto, ma molto meno.
Tornando al desiderio di onnipotenza del potere politico, esso va ben oltre Roma antica.. Pochi giorni fa è stato ricordato il centenario della nascita di una ragazza, Sophie Scholl, che è morta a 22 anni, assieme a diversi suoi coetanei, per dire che Hitler non era un Dio: e che siccome, invece, voleva farsi passare per dio, era in realtà un avanzo dell’inferno, un demonio. E si potrebbero elencare gli altri martiri del Novecento, uccisi dai regimi terroristici dei più diversi colori. La solennità dell’Ascensione è pericolosa, questa è la verità, perché pericoloso è Gesù: Erode ne aveva paura, Ponzio Pilato anche e il potenti di oggi sono degni allievi dei tiranni del passato. Gesù è tranquillizzante, innocuo, solo quando è ridotto a un’immaginetta, che magari lo vede svolazzare, come un passerotto o un angelo, tra cielo e terra. Colui che è asceso al cielo, invece, lo ha fatto per liberare la terra dai falsi dei. E questi ultini reagiscono e colpiscono.
Secondo l’epistola, tuttavia, vi è un luogo nel quale l’autorità del Risorto è presa sul serio. Un luogo che è ripempito della sua presenza, animato dalla libertà che promana da questo imperatore celeste che abbatte gli imperi terreni: questo luogo è la chiesa. Attenzione: non vuol dire, ripetiamolo, che la chiesa e i suoi capi sono onnipotenti. Questa è la caricatura dell’evangelo dell’Ascensione. Che il Signore dei signori, colui al quale Dio ha sottoposto il mondo, pervade e riempie la chiesa significa invece questo: ciò che la società, il mondo, non ha ancora riconosciuto, e anzi si ostina a negare, è già vero nella chiesa. E’ vero già ora, nella chiesa, che chi guida è in realtà al servizio: non però a parole, ma nei fatti. E’ vero già ora, nella chiesa, che non c’è un monopolio del potere maschile. E’ vero già ora, nella chiesa, che chi ha più soldi non è più importante di chi ne ha meno. La condivisione del pane e del vino, tra noi, non è un rito magico celebrato da uno stregone, ma l’opera di colui che, secondo sua madre, ha rovesciato i poitenti dai troni e ha innalzato gli umili, e quindi ci ha messi tutti in cerchio, per celebrare la sua memoria, cioè la sua presenza vivente. La chiesa è questo, sì o no?
Credo che possiamo osare rispondere: noi non siamo la chiesa dell’Ascensione come dovremmo, come vorremmo e nemmeno come potremmo. Però lo siamo un po’, non per merito nostro ma per grazia di Dio. Ed è questa la promessa rivolta alle nostre piccole comunità: essere segno della presenza di quel Signore che libera il mondo dai finti signori che vorrebbero trasformarci in servi.
Amen
prof- Fulvio Ferrario

Assemblea dei membri di chiesa

Domenica 9 maggio dalle ore 9.30 si terrà l’assemblea dei membri della chiesa metodista di Roma, via XX settembre, presso il nostro tempio.

Al termine dell’assemblea, avremo un mini-bazar con prodotti alimentari, torte dolci e salate, marmellate, pasta fresca organizzato dal gruppo femminile!

Vi aspettiamo numerosi, perché il contributo di ognuno e ognuna è prezioso!

 

Il comandamento del Signore e le nostre opinioni

1 CORINZI 7, 18-31

 

Quante preoccupazioni, quante sofferenze, umiliazioni, delusioni l’apostolo Paolo aveva dovuto affrontare a causa delle divisioni, dei disordini, delle rivalità che avevano iniziato a caratterizzare la vita della chiesa di Corinto, da lui fondata durante il suo secondo viaggio missionario.

Eppure, questo settimo capitolo della prima lettera ai Corinzi è rivelatore di qualcosa che ce li fa sentire un po’ più vicini, che ci rende più comprensivi, forse, nei loro confronti.

Ci rivela quanto difficile e faticoso sia il passaggio dal proprio retroterra culturale ad una vita veramente plasmata dall’Evangelo.

Quanto la comprensione delle esigenze dell’Evangelo, della vita nuova in Cristo siano condizionate dalla mentalità e dalle esperienze del mondo; dal c.d. “contesto”.

Quanto forte possa essere la tensione fra la radicale novità dei presupposti su cui si costruisce una comunità di fede e il suo continuare ad esistere nella sfera di dominio delle preoccupazioni mondane, una sfera fatta di relazioni da cui nascono vincoli e legami, impegni, responsabilità. Quanto sono compatibili queste relazioni con la dignità, il ruolo, la libertà, la vocazione scoperti nella nuova dimensione di fede ?

Questo capitolo mette insieme le risposte date dall’apostolo Paolo ad una serie di quesiti posti dai membri di chiesa sul tema del matrimonio,

Ascoltiamo alcune delle voci che hanno interrogato l’apostolo.

Dicci Paolo: una volta convertiti, non è vero che è meglio astenersi dai rapporti sessuali; anche se si è sposati, per mantenersi più puri ?

Non è addirittura meglio separarsi, così ciascuno (persino la donna!) è più libero per mettere a frutto i suoi doni per la missione evangelica ? 

E se uno ha una figlia, non è meglio che non la faccia sposare, in modo che resti vergine e come tale possa meglio consacrarsi al servizio divino, come fanno le vergini consacrate al servizio degli Dei pagani, nei templi greci?

E se poi, prima della conversione,  ci si è sposati con dei pagani, che non condividono la nuova fede, beh, almeno in questo caso non è certo che è meglio divorziare, per evitare conflitti e limitazioni derivanti dall’incomprensione del coniuge non credente, che cosa si ha più a che spartire ?

Nell’intreccio di culture, filosofie, religioni, tradizioni, etnie che caratterizza la società in cui vive, il credente cristiano riflette su ciò che è compatibile, coerente, preferibile.

Lo fa rispetto alle classificazioni in cui la società in cui vive incasella gli esseri umani, e da cui fa dipendere ruoli e valori: il matrimonio, dunque, al quale si riferisce il binomio sposati/non sposati; come l’appartenenza etnica (al quale si riferisce il binomio circoncisi/non circoncisi); e lo status sociale del binomio schiavi/liberi.

I quesiti posti a Paolo dai Corinzi negli anni 50 dopo Cristo, non sono forse quelli che noi oggi porremmo.

Ma il tema della tensione fra dentro e fuori, fra prima e dopo non ci è certamente estraneo, fa sorgere nuovi quesiti.

Quale rilevanza attribuisco io alle appartenenze che derivano dalle relazioni familiari, sociali, etniche che caratterizzano la mia vita ?

Quanto queste appartenenze e le reti di relazioni in cui sono immerso influiscono sulla definizione della mia identità.

Quanto confliggono con l’unica identità, quella nuova in Cristo, che dovrebbe contare, che preme nella mia vita, che chiede di crescere, di avere spazio, di ridefinire i vari ambiti della mia esistenza?

Paolo risponde, esaminando una ad una le affermazioni di chi gli ha scritto: “quanto alle cose di cui mi avete scritto”; quanto – si potrebbe dire – alle soluzioni che mi avete riferito di avere adottato…”

Le sue riflessioni e valutazioni rispetto al tema del matrimonio e della scelta di celibato/nubilato, sono chiaramente condizionate da una convinzione che si rivelerà infondata, ma che ancora per un po’ di tempo dominerà la vita delle prime comunità cristiane: quella cioè che la “parusia”, il ritorno di Cristo e dunque la fine del tempo del mondo presente, con il pieno avvento del Regno di Dio fosse vicinissimo e preceduto da grandi tribolazioni.

Il tempo è ormai abbreviato….

In quel contesto, e partendo da questa premessa, Paolo aveva scelto per sé il celibato (non certo per esigenze di purezza, ma di maggiore libertà nella missione e di minore esposizione di congiunti e familiari a sofferenze per le crescenti ostilità e persecuzioni).

Molte sue risposte sembrano conservatrici: “ognuno resti nella condizione in cui si trovava quando Dio lo chiamò”. Ma queste sono le risposte che Paolo sente di potere fornire in relazione a quel contesto, in cui non ha senso mettere in discussione ordini sociali, perché “il tempo è ormai abbreviato” e “la figura di questo mondo” (le sue strutture, le sue regole) “passano” …

Sia pure con questi limiti, in ogni caso, dall’approccio di Paolo possiamo trarre diversi insegnamenti preziosi, che sono ancora validi per affrontare i nostri quesiti, le nostre tensioni e forse anche per la edificazione della vita comunitaria, per le scelte che su come vogliamo camminare insieme come chiesa, come comunità di credenti

1) Il primo insegnamento, lo traiamo dal modo in cui Paolo presenta la maggior parte delle sue conclusioni: “Non ho comandamenti dal Signore” (cioè: non sto esprimendo una dottrina che Dio stesso impone a tutti), ma “esprimo il mio parere”.

Paolo insegna, quindi, a distinguere fra il comandamento del Signore e le nostre opinioni, anche quelle delle persone più autorevoli, che si mettono, con coscienza davanti alla parola di Dio per cercare di capire che cosa il Signore vuole, che cosa è veramente conforme alla sua volontà. Incoraggia, quindi, in ciascuno un processo di discernimento, senza risposte preconfezionate: un modello per la discussione all’interno delle chiese.

2) Il secondo insegnamento riguarda proprio il modo in cui vivere le tensioni relative ai rapporti mondani, alla rete di relazioni ed appartenenze che derivano dal nostro vivere nel mondo, con i suoi ordini, i suoi schemi culturali e le sue strutture sociali.

E ci dice che è inevitabile, alla luce del comandamento di Dio (per come esemplificato, anzi incarnato da Gesù stesso), sottoporre tutto ad un ripensamento critico;

ma questo lo si può, anzi lo si deve fare con la serenità (senza gli appesantimenti di risentimenti e di carica violenta) che nasce dalla consapevolezza che, per quanto importanti, le appartenenze del mondo, le classificazioni che ne derivano, sono “relative”.

Relativo il pianto ed il riso; relativi i possessi che se ne ricavano; come le privazioni che si subiscono.

Queste appartenenze e queste relazioni non vanno dunque mai assolutizzate, esponendosi a due rischi opposti: quello di trasformarle in idoli (la famiglia; la classe sociale; l’etnia, come fonte di sicurezza, di prestigio, di privilegio) o, al contrario, in fantasmi, in spauracchi di cui avere paura, pesi da cui sentirsi schiacciati.

Ed invece, sono di per sé prive di valore davanti al Signore e non rilevanti ai fini della salvezza: “Voi tutti che siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. (quindi) non c’è qui giudeo né greco (circoncisi/incorcincisi); non c’è né schiavo né libero, non c’è né maschio né femmina (marito/moglie; celibe/nubile), tutti siete uno in Cristo”:

E non hanno neppure il potere di condizionare in modo assoluto la libertà interiore che si trova quando è Cristo a dimorare in noi, radicandosi nel nostro cuore: voi siete stati riscattati a caro prezzo – ricorda Paolo- e qualunque sia la vostra condizione siete affrancati dal Signore, dunque, non diventati schiavi di nessun essere umano !

La realtà nuova di Cristo può essere vissuta, quindi, qualunque sia la condizione nella quale ci si trovi, in un equilibrio difficile, ma non impossibile: un equilibrio fra il rifiuto di vincoli opprimenti, che pretendono di forzare la coscienza, da una parte; ma anche della pretesa (pericolosa ed illusoria) di una autonomia individuale assoluta, che porta ad escludere qualunque legame ed impegno.

In questo equilibrio – difficile, ma non impossibile – le relazioni e le appartenenze del mondo, vanno orientate nello spirito del reciproco servizio e della reciproca sottomissione; senza gerarchie, senza ricavarne sensi di superiorità/inferiorità; impegnandosi a viverle, invece, come spazi in cui può sempre operare – anzi in cui certamente opera – la potenza trasformatrice di Dio.

3) Il terzo insegnamento è che il comandamento di Dio va sempre vissuto in relazione al contesto: non possiamo mai sottrarci, fratelli e sorelle, alla fatica di valutare ciò che è giusto, ciò che è bene, in relazione alle situazioni concrete e reali, ai tempi storici che ci troviamo a vivere, che non sono quelli di Paolo, non sono neppure quelli dei nostri nonni.

E di farlo in spirito di libertà responsabile, che cioè si fa carico dell’altro/ dell’altra; e di amore.

Voglia essere questo lo Spirito che guida i nostri passi, il nostro cammino di crescita nell’amore, di “santificazione” (per usare il linguaggio a noi caro)

Sia questo lo Spirito che guida i nostri passi, dentro e fuori la comunità, nel tempo breve o lungo che dovrà trascorrere prima che la figura di questo mondo passi per sempre.

Amen

dica. Alessandra Trotta