, , , ,

Opportunità ecumenica

Da Riforma

Opportunità ecumenica: Quaresima e settimana di rinuncia

di Fabio Perroni e Luciano Lattanzi

Opportunità, conoscenza, fraternità, preghiera, scoperta, gioia.

Queste alcune parole chiave che hanno ritmato l’incontro ecumenico svolto, lo scorso 20 marzo, nella chiesa metodista di Roma insieme ai fratelli e alle sorelle della parrocchia cattolica di santa Maria degli angeli e dei martiri di piazza della Repubblica.

Un incontro che segue quello di novembre ospitato presso la parrocchia e alla preghiera comune durante la Settimana per l’unità dei cristiani.

A novembre, dopo una introduzione storica sulla chiesa metodista, si era riflettuto insieme sul Battesimo e sul rinnovamento del patto. Tema di questo secondo incontro, che ha visto una presenza di circa cinquanta di persone, era la Quaresima e la Settimana di Rinuncia. Don Franco Cutrone, parroco di santa Maria, e la pastora Mirella Manocchio, presidente Opcemi, hanno rispettivamente parlato di questo fondamentale periodo dell’anno liturgico sottolineando i valori e il senso profondo incarnandolo nella Scrittura e nella prassi quotidiana delle rispettive tradizioni cristiane. Al termine la pastora Joylin Galapon, oltre all’accoglienza iniziale come “padrona di casa”, ha illustrato come il periodo quaresimale e la settimana di Rinuncia sono vissute nelle Filippine, paese da cui provengono molti fratelli e sorelle della nostra chiesa.

Una riflessione comune a tutti e tre gli interventi, è stata il rischio di assuefazione e svuotamento di valori all’interno di questi momenti forti della nostra fede.
Vivere per routine senza un significato forte che porti una conversione e un’attenzione diversa, nuova, verso Dio e verso il prossimo. Don Franco ha posto l’attenzione delle due comunità sul senso quaresimale come momento di revisione di vita e di riflessione sulle motivazioni della fede stessa. Una conversione come risposta forte al patto di alleanza proposto di Dio. Un lasciarsi prendere per mano da Dio attraverso la sua Parola. La pastora Manocchio ha illustrato le basi teologiche ed etiche riconducibili al fondatore del metodismo, John Wesley , per spiegare le motivazioni profonde che portarono all’istituzione della settimana di rinuncia, dopo un’ampia riflessione sulla resa pratica della fede attraverso le opere di pietà (works of piety) e le opere di carità (works of mercy). Opere di carità che sono espressione stessa della fede come scriveva in uno dei suoi innumerevoli sermoni che “la fede senza le opere dell’amore è la grande peste della cristianità”.

Significativa, al termine della serata prima del momento conviviale, la testimonianza della pastora Galapon che ha descritto come, anche nelle difficoltà economiche vissute nelle Filippine, il valore profondo della Settimana di rinuncia vissuto come un concreto gesto di aiuto a chi vive situazioni al limite è parte fondante della vita di fede: una settimana dedicata alla preghiera, ai culti propri della settimana santa e al digiuno. Ricordando il senso teologico e spirituale della “rinuncia”.

In un momento dove le differenze creano muri, le nostre comunità con l’incontro, lo scambio, la conoscenza e la preghiera comune tentano di creare un percorso di amicizia e fraternità, che distrugge i muri dell’indifferenza e della paura dell’altro e nell’altro.

,

La Parole e le parole da portare

Sermone su: Isaia 50,4-9

Care sorelle e cari fratelli,

Tra le mille notizie drammatiche di questi giorni, colpisce per la sua particolare tragicità la morte di una donna al settimo mese di gravidanza, respinta al valico alpino dalle autorità francesi. L’ennesima storia di povertà, emarginazione, fuga alla ricerca di una vita nuova… negate e recluse da un sistema che ormai non riesce più a gestire in maniera umana i poveri che esso stesso produce. Lo sanno bene anche quelli tra noi che, all’alba della domenica, vanno a distribuire le colazioni ai senzatetto intorno a piazza della Repubblica.

Per capire meglio il problema, ho appena finito di leggere un libro di S. Baumann, Le nuove povertà. La sua analisi ci fa capire come la povertà sia stata percepita dalle culture umane nel tempo in modi molto differenti. Nel medioevo il povero garantiva a se stesso e al ricco la salvezza eterna. Con la modernità il povero diventa un potenziale operaio, in attesa di essere impiegato nella fabbrica e di svolgere il suo ruolo sociale; il welfare state è stato inventato anche per garantire che, in questo tempo di attesa, la situazione non degenerasse. Oggi, il capitale ha imparato a fare altissimi profitti con poca manodopera, e così i poveri sono diventati un peso inutile per l’economia. L’assistenza sociale è sempre più vista come insostenibile e ideologicamente ingiustificata. Si arriva così alla criminalizzazione del povero e dallo stato sociale si passa a quello di polizia, come ci insegnano gli Stati Uniti, il cui sistema carcerario è teso esattamente a questo fine. Il problema è che ci stanno convincendo con tutti i mezzi possibili che questo modo di pensare sia quello giusto. Ricordiamoci solo, però, che cosa è successo i Germania quando alcuni gruppi sociali sono state bollate come un inutile peso, anzi, come un pericolo per l’odine sociale…

Ebbene, ci tengo a dire che oggi, domenica delle Palme, noi ci prepariamo a festeggiare la Pasqua con la convinzione che non solo tutto questo è sbagliato, ma che c’è un’alternativa ben precisa. Gesù entra a Gerusalemme facendo capire che lui è il Signore del mondo e che in lui tutte e tutti noi, a partire proprio dai poveri e dagli emarginati, abbiamo un’altra possibilità. I poteri di questo mondo capiscono al volo il significato dell’azione di Gesù e, infatti, cercano di toglierlo di mezzo. Dio, però, lo resuscita e rimette in gioco la vita di tutti quelli che si fidano di lui. Nel Cristo risorto un nuovo sistema di valori, una nuova percezione della vita e dei rapporti umani è possibile, e noi siamo chiamati a realizzarla. Ma come?

La parola di Isaia ce ne dà un esempio eloquente. Nel “terzo canto del servo”, il profeta è rappresentato come colui che ha il dono di parlare come un maestro, ma che ogni giorno deve prima di tutto ascoltare la voce di Dio, proprio come uno scolaro. Eppure il profeta ne ha di esperienza, ha un rapporto diretto con Dio, è uomo che conosce il suo tempo e la sua gente. Proprio la sua condizione di profeta lo porta allo scontro duro con i suoi avversari, contro coloro, cioè, che non possono accettare la Parola del Signore, e quindi tormentano e perseguitano il profeta. La prima cosa che fa, però, e di mettersi in ascolto della parola di Dio: anche lui deve ricevere ogni giorno l’insegnamento dal Suo Signore, proprio come uno scolaretto. Ogni mattino il Signore apre il suo orecchio alla Sua parola, che lo ammaestra. La stessa cosa vale per ogni discepolo del Signore. Abbiamo il dono grande, direi il privilegio, di poter portare al mondo la parola di Dio, ma siamo anche chiamati all’umiltà di aprire ogni giorno la Bibbia e imparare, affinché le parole di Dio non si confondano con le nostre parole. Perfino i discepoli di Gesù, che erano con lui ogni giorno, riuscirono a comprendere quel che era avvenuto la domenica delle Palme solo dopo aver ricevuto la buona notizia della resurrezione.

A proposito dell’ascolto della Parola, in questi giorni sta accadendo un fatto che non ci può lasciare indifferenti: fine mese chiude l’agenzia italiana della Società Biblica Britannica e Forestiera. Chiude dopo 210 anni di lavoro capillare per la diffusione della Bibbia in questo paese. Senza il suo servizio il protestantesimo italiano non esisterebbe. Tocca alla Società biblica in Italia trovare le modalità per portarne avanti l’eredità, ma questo sarà possibile solo se troveremo le forze per farlo: le nostre chiese credono ancora nel progetto della diffusione della Bibbia? In questi tempi di crisi, cioè di “giudizio”, il mondo ha bisogno di persone che sappiano vivere coraggiosamente la loro vocazione ad essere gli araldi dell’evangelo, pur nell’umiltà di chi sa farsi discepolo ogni giorno, per aiutare con la parola chi è stanco.

Solo se ci saremo posti all’ascolto dell’evangelo, della Parola, potremo agire in questo mondo per dire ad alta voce che un’altra via è possibile, che si può vivere la nostra relazione con l’altro e con l’altra partendo dall’amore di Dio. C’è una speranza per tutte e tutti, anche e soprattutto per i poveri, per gli emarginati, per quella gente che oggi l’economia considera un peso inutile. E, anche se ci sentiamo stanchi e demotivati, e se vediamo intorno a noi persone che hanno perso la speranza, ricordiamoci la nostra vocazione ad essere araldi della Buona Notizia! Il mondo ha bisogno di una parola di conforto: gli sfruttatori sono sotto il giudizio di Dio, il quale sta dalla parte delle vittime e propone a tutti, in Cristo, una via di riconciliazione tra esseri umani e tra esseri umani e Dio. Dobbiamo trovare il coraggio di dirlo a muso duro come il profeta, perché in questo il Signore ci accompagna. Abbiamo bisogno di farlo anche nei piccoli gesti quotidiani che possono sembrare una goccia d’acqua nell’oceano, ma che conservano il loro valore di testimonianza. Pensiamo al progetto delle colazioni ai senzatetto, pensiamo anche ad un progetto lontano nello spazio ma che la nostra chiesa, tramite l’8×1000 ha deciso di finanziare: la ricostruzione della casa delle donne di Kobane, nel Kurdistan. I curdi sono di nuovo sotto attacco e forse questa volta saranno i turchi a distruggerla un’altra volta. Ma noi saremo con chi vorrà ricostruirla, testardamente, perché là dove c’è violenza, ingiustizia, sopraffazione, noi dobbiamo essere presenti con gesti profetici.

Gesù, dunque, viene a Gerusalemme come luce del mondo, per una sua ultima e definitiva manifestazione come Messia, come Signore di questo mondo. C’è ancora una possibilità per i suoi contemporanei, ma i suoi avversari irrigidiscono ancora di più la loro posizione e si preparano ad ucciderlo. Come il servo sofferente di Isaia, egli si prepara al martirio, ad obbedire fino alla fine. I suoi discepoli guardano la scena, ma non comprendono. Capiranno dopo la resurrezione. Noi siamo come loro, chiamati ad una vocazione importante, ma allo stesso tempo discepoli, che devono imparare e studiare ogni giorno. Per poter così portare con coraggio, testardamente, quella parola che dischiude il senso della vita, che svela la verità, che ci aiuta a comprendere le contraddizioni di questo mondo e le nostre. Quella parola che siamo chiamati a portare e che, sola, può rimettere in piedi chi è stanco, liberare chi è oppresso, e manifestare la luce là dove sono le tenebre.

Amen

prof. eric Noffke

Il perdono di Dio

Numeri 21,4-9 (I serpenti ardenti e il serpente di rame)

 

Care sorelle e cari fratelli nel Signore, il testo della predicazione tratto dal libro di  Numeri  cap. 21, dal 4 al 9 ci invita oggi a riflettere sul modo specifico di Dio di riconciliarsi con il popolo d’ Israele ed  è anche un modo di riconoscere la severità di Dio nell’emanare il suo giudizio al popolo in ribellione, e la grazia ridonata  a lui dopo averlo riconosciuto che è Dio da temere. Il popolo era stato condannato a morte a causa del suo mormorare, della sua protesta e obiezione alla volontà di Dio e di Mose. Infatti, il castigo era la pena di morte. Dio mandò loro i serpenti ardenti, infuocati che con i loro morsi emanavano veleni, così che molti del popolo morirono. Ma con l’ammissione del peccato e la confessione di aver protestato esso ha ricevuto il perdono,  e così non morì più nessuno.

Molti del popolo però non hanno potuto confessare il loro peccato contro Dio e Mosè quindi hanno subito la pena di morte a causa dei serpenti che rappresentavano il castigo, la punizione del loro peccato. Era Dio che li ha puniti.

 

Oggi, questi  versetti ci invitano anche a fare un auto- esame(autocritica), ricordare il  peccato commesso nella ribellione, nel  mormorio quando abbiamo parlato  con parole di protesta e di obiezione a ciò che Dio voleva che fosse fatto, con un atteggiamento di sfiducia, di rinnegamento, e d’impazienza. Per il Dio dell’AT la sfiducia (perdersi la fiducia in lui) era il peccato più grave perché era irrimediabilmente causa della pena di morte, come viene qui dimostrato.

Nel capitolo precedente al nostro brano, due persone care per questo popolo erano appena scomparse. Miriam era morta, poi poco dopo Aronne. 30 giorni di pianto, cordoglio per il fatto che erano scomparsi Aronne e Miriam dalla vista di una comunità di credenti.

 

Si capisce allora che la comunità di Israele era sfinita, era stanca, non aveva più la forza di camminare e ha perso la speranza a quella promessa di poter raggiungere la terra promessa. Lei non aveva più la forza d’andare avanti per seguire la sua meta verso la promessa di Dio.

 

Nel deserto, il popolo di Israele ha vissuto per 40 anni come ci racconta il libro di Numeri e molti  non  raggiunsero la terra promessa.

Nel deserto, loro hanno vissuto in modo semplice, hanno sperimentato un modo infantile di credere in Dio. Dio verso di loro  si infiamma con la sua ira e poi ritorna ad essere compassionevole mediante l’intercessione, le parole d’implorazione del suo servo Mose in molte occasioni.

Allora Mosè supplicò il Signore, il suo Dio, e disse: «Perché, o Signore, la tua ira s’infiammerebbe contro il tuo popolo che hai fatto uscire dal paese d’Egitto con grande potenza e con mano forte? Perché gli egiziani direbbero: Egli li ha fatti uscire per far loro del male, per ucciderli tra le montagne e per sterminarli dalla faccia della terra!?» Calma l’ardore della tua ira e pentiti del male di cui minacci il tuo popolo. Ricordati di Abramo, d’Isacco, e d’Israele, tuoi servi, ai quali giurasti per te stesso…»  Esodo 32,11-13
La relazione di Dio con il popolo di Israele  in questo caso ci chiarisce anche oggi come siamo noi credenti.

Che cosa era che manteneva il loro rapporto? La cura, la guida che assicurava Mosè  con la sua presenza  e anche il suo castigo ogni volta che commettevano il peccato, ogni volta che trasgredivano il suo comandamento.  Un castigo per raddrizzare il loro comportamento per poi andare avanti per raggiungere la terra promessa come un popolo fedele.

Certamente, non fu un cammino facile per Israele!

Allora, sicuramente  il popolo d’Israele al contempo non visse in modo semplice perché aveva delle regole da seguire e i comandamenti per acquisire la vera vita.  Dio l’ha liberato dalla schiavitù in terra d’Egitto, ha avuto la manna per nutrirsi giorno dopo giorno. Nonostante ciò, c’era sempre occasione di protestare, di mormorare, e lamentarsi davanti a Mose e a Dio. Il tempo nella casa d’Egitto, nonostante il lavoro gravoso che compiva e il maltrattamento che subiva, veniva rievocato con  nostalgia, e il popolo d’Israele sognava ancora la consolazione del cibo che lo rendeva soddisfatto e sazio, cioè la carne  che  lo consolava in mezzo allo schiavitù. Dicevano: «Avevamo pentole di carne e mangiavamo pane a sazietà» Esodo 16, 3. Così, fino alla fine del suo peregrinare abbiamo questo ricordo che causa di ribellione nei confronti di Dio. La carne che lo aveva nutrito ha avuto un ruolo importante, è una trappola del maligno, di satana in cui cadere in tentazione e nello stesso tempo un modo dispettoso di rivolgersi a Dio.

 

La scelta di questo brano ha a che fare con il tempo della passione, il  tempo riservato per ricordarci di tornare a Dio e cambiare la nostra mentalità e si scandisce in questa sequenza.

Il credente ha ricevuto la promessa  grazie alla fede,

poi segue la protesta che è frutto dell’impazienza,

poi si ritorna alla consapevolezza,

e di conseguenza c’è il tempo della confessione,

e poi il tempo del perdono.

Quindi, la riconciliazione comporta un rinnovamento dell’impegno per l’alleanza fatta da Dio per il suo popolo eletto.  Credo che vediamo in noi la replica di questa esperienza in quanto discendenti (eredi ) del popolo degli  Israeliti.

 

Teniamo in mente questo procedimento della salvezza d’ Israele in questo episodio, il timore verso Dio significa per il popolo d’Israele  riacquisire nuovamente la vita per proseguire il cammino che lo aspetta.

Il popolo d’Israele ha confessato il suo peccato tramite Mosè e anche tramite lui Dio ha trovato un rimedio per riconciliarsi. Dio ordina di creare qualcosa di simile a quello che ha mandato per dimostrare la sua ira contro chi bestemmia, contro chi trasgredisce alla sua volontà.  E’ un’immagine che ha causato la morte di molti  e al contempo ha dato nuova vita: dal serpente ardente al serpente di rame.

Adesso abbiamo questa occasione di ammettere anche noi che spesso mormoriamo, spesso ci lamentiamo, spesso protestiamo per le nostre incessanti insoddisfazioni. Questi sono i motivi del nostro parlare contro Dio che non vogliamo nemmeno confessare perché non li consideriamo nemmeno più un peccato. Questo brano ha descritto l’esperienza di vita del popolo d’Israele  e anche la nostra quando mormoriamo perché Dio non ci ha dato quello che crediamo possa  soddisfare il nostro bisogno.

 

Ora, chi pecca e riconosce di aver peccato davanti a Dio riceve il perdono guardando Gesù sulla croce. Ecco, care sorelle e cari fratelli nel Signore, oggi il nostro lezionario ha proposto  la  meditazione di questo brano che narra il peregrinare di Israele, l’itinerante perenne.

È un fatto molto importante nella vita del popolo. Inserire per la nostra predicazione questo brano dell’AT,  ci ricorda quando un serpente per la prima volta ha agito tra due persone, Adamo ed Eva, ora i serpenti sono di nuovo in scena per svolgere il loro ruolo specifico, recare la vita o la morte. Dio per mezzo di loro ha manifestato il castigo, la condanna verso un popolo che con le sue parole ha provocato la sua ira. Ci fa impressione immaginare la terra deserta in cui strisciano i serpenti per  poi  arrivare a mordere una massa di gente. Per  aver parlato male a Dio e a Mose, a causa di aver maledetto Dio, gli israeliti hanno avuto la pena di morte.

 

L’analisi del brano fatta da un ‘esegeta sulla rivolta del popolo d’Israele contro Dio ha voluto delineare il significato vero qui della parola contro, il popolo ha perso la fiducia in Dio.

Che cosa è il serpente ?  E’ il simbolo di vita. Il serpente è l’eterna sintesi di  morte e di vita, oggetto tanto di malanimo quanto di venerazione.

E’ l’essenza vitale del suolo; ogni anno cambia la pelle, simbolo del vecchio sé, un ‘eterna giovinezza, i suoi occhi penetranti scintillano come null’altro-simbolo di saggezza umana.

Il serpente è un potente simbolo di vita e di morte. L’asta con serpente di rame si ferma tra i morti che non vogliono guardare lo strumento di salvezza scelto da Dio e quelli che invece lo fanno, si salveranno.

L’evangelo di Giovanni 3,14-16 dice: E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che il Figliuol dell’uomo sia innalzato, affinché chiunque crede in lui abbia vita eterna. Poiché Iddio ha tanto amato il mondo, che ha dato il suo unigenito Figliuolo, affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia vita eterna.

Le parole di Gesù evidenziano la volontà di Dio di dare la vita eterna a tutti coloro che guarderanno a Gesù e crederanno in Lui.

L’immagine del serpente innalzato da Mosè è collegata da Giovanni all’immagine di Gesù innalzato e crocifisso. Ma l’innalzamento di Gesù si riferisce tanto alla sua morte in croce quanto alla sua risurrezione dai morti.

Così, nel vangelo di Giovani la croce ha dunque, come l’asta, il bastone di Mosè, un doppio significato: simboleggia tanto il veleno della morte quanto la potenza di Dio, che dona la vita a tutti coloro che credono in lui e a lui guardano per salvezza e nuova vita. Amen.

past. Joylin Galapon

È una bella persona

Testo del sermone Filippesi 1,15-21

Care sorelle e cari fratelli,

“È una bella persona!” Spesso utilizziamo questa formula, o altre formule simili, per introdurre a una nostra scelta di campo. “È una bella persona. Per questo di lui/di lei mi fido!”, oppure: “È una bella persona quell’uomo, quella donna che è responsabile. Per questo mi sento di aderire.” E più si tratta di questioni che esulano da criteri di oggettività, più puntiamo sulla nostra sensazione, sulle nostre intuizioni riguardanti le qualità caratteriali e l’affidabilità della persona che ci parla, che ci fa una proposta o una richiesta. Quando si tratta delle cose veramente importanti nelle nostre vite, sembra impossibile distinguere tra la “cosa” e la “persona”. O ci fidiamo della persona, e poi siamo anche disposti a venirle incontro, o non ci fidiamo e poi: fine! Oggi, però, ci è proposto per le nostre riflessioni un brano dell’apostolo Paolo che va abbastanza controcorrente a questa nostra abitudine. Leggiamo dalla Lettera ai Filippesi, capitolo 1, i versetti da 15 a 21:

Alcuni predicano Cristo anche per invidia e per rivalità; ma ce ne sono anche altri che lo predicano di buon animo. Questi lo fanno per amore, sapendo che sono detenuto per la difesa del vangelo; ma quelli annunciano Cristo con spirito di rivalità, non sinceramente, pensando di provocarmi qualche afflizione nelle mie catene. Che importa? Comunque sia, con ipocrisia o con sincerità, Cristo è annunciato; di questo mi rallegro, e mi rallegrerò ancora;  so infatti che ciò tornerà a mia salvezza, mediante le vostre suppliche e l’assistenza dello Spirito di Gesù Cristo  secondo la mia viva attesa e speranza, poiché non ho nulla di cui vergognarmi; ma con ogni franchezza, ora come sempre, Cristo sarà glorificato nel mio corpo, sia con la vita, sia con la morte.  Infatti per me il vivere è Cristo e il morire guadagno.

Per comprendere queste affermazioni, dobbiamo un attimo dedicarci alle circostanze in cui sono state messe per iscritto. L’apostolo Paolo è in catene; si trova in prigionia. Da un lato, la sua detenzione non può essere eccessivamente dura; altrimenti non potrebbe ricevere e scrivere lettere; inoltre vediamo pochi versetti prima del nostro passo che non è solo ma accompagnato dal suo alunno Timoteo. Dall’altro lato, però, si capisce anche che Paolo si confronta con l’ipotesi di non uscire vivo da questa condizione: Forse sì, non lo esclude, ma al tempo stesso si prepara mentalmente anche all’altra opzione, trovando consolazione nel pensiero che nell’uno come nell’altro caso sarà in unione con Cristo. È stato discusso molto se la detenzione in cui Paolo scrive la lettera sia quell’ultima, a Roma, oppure una precedente, magari a Efeso, di cui la narrazione degli Atti degli Apostoli non dà testimonianza. Colpisce anche che, se capiamo bene i versetti che abbiamo sentito prima, c’è qualche collegamento, non spiegato nei dettagli, tra la prigionia e una concorrenza tra diversi apostoli cristiani, alcuni dei quali si approfittano dell’eliminazione di Paolo dallo spazio pubblico per esibirsi. Sembra perfino che il presupposto che l’apostolo si trova in carcere per motivo della sua testimonianza cristiana, come sottolinea lui, non sia da loro accettato. Sicuramente non saremo noi stamattina a dirimere tutti questi problemi. Ciò che per noi conta è che Paolo si esprime in vista dell’eventualità di essere giunto a capolinea, il che lo induce a riflettere sul rapporto tra la predicazione di Cristo e la buona o cattiva volontà del predicatore. E comprendiamo anche che tra lui e questi altri apostoli c’è un abisso di malafede e sfiducia. Umanamente, non hanno più nulla da dirsi; accadde così anche nella prima comunità cristiana.

Ora, però, colpisce ancora in più quello che Paolo dice. Egli introduce una netta distinzione tra questi rapporti, ovviamente del tutti avvelenati, tra i predicatori e l’unica cosa che conta veramente: l’annuncio di Cristo, la trasmissione del messaggio della sua crocifissione e risurrezione. Argomentando così, egli distingue anche tra il vissuto soggettivo con cui questo avviene e il fatto determinante. Può darsi che qualcuno si approfitti della sciagura di Paolo; può perfino darsi che qualcuno si esibisce come apostolo soltanto per fargli male, per farlo stare ancora peggio nel suo carcere. Sì, può darsi che questi “colleghi” (nel senso peggiore della parola) agiscano per malafede ed è altrettanto possibile che lui stesso per questo soffra ancora in più. Ma in fondo non importa, come scrive alla comunità di Filippi, che per Paolo è una comunità di fratelli fidati e di amici che lo sostengono fedelmente: “Che importa? Comunque sia, con ipocrisia o con sincerità, Cristo è annunciato; di questo mi rallegro, e mi rallegrerò ancora”. Si  rallegra, perché il vero motivante del suo apostolato è la diffusione della parola di Cristo, e se questo avviene va sempre bene. Poi, in coda, c’è un piccolo ritorno di auto-referenzialità anche presso Paolo, e forse questo ci consola: lui si dichiara fiducioso che proprio così, agendo in malafede, i suoi cari colleghi contribuiscano alla “salvezza” sua, che ovviamente coincide con l’attesa di liberazione. Le mosse giuridiche che Paolo a questo punto presuppone ci sfuggono ma forse non sono neanche così importanti per noi.

Sono state delle “belle persone” l’apostolo Paolo da un lato e i suoi cari colleghi dall’altro? Temo che dal punti di vista dei cristiani a loro contemporanei sia dipeso dal punto di vista: sempre gli uni erano belle persone e gli altri no, erano bugiardi, ipocriti, incapaci ecc. Proprio in questo quadro di riferimento, pieno di veleno e pregiudizi, emerge l’attitudine di Paolo stesso, che era un uomo che, quando lo riteneva necessario, non evitava le contrapposizioni e i confronti. Dichiara qual è la sua priorità: che la parola di Cristo, la parola di sincerità e speranza sia trasmessa. A fronte di questo criterio, l’orgoglio personale e le rivendicazioni d’autorità devono rientrare a un livello secondario. E lo possono anche: se viviamo o se moriamo, dice Paolo, se abbiamo successo o se falliamo, se riusciamo a esibirci o se finiamo in un angolo cieco, valgono comunque sempre due cose: anzitutto, siamo mortali – per Paolo questa è, quando scrive la lettera, una prospettiva molto concreta, ma poi vale per tutti, anche per chi in questo momento è “di grido”; secondo punto: se viviamo o se moriamo, se ci riusciamo o no, siamo comunque sempre in Cristo, morto e risorto per noi. Questo è ciò che può dare anche alle nostre pretese la giusta misura, perché vale anche per noi e per i nostri tentativi di “fare chiesa” e di proseguire nella vocazione dell’annuncio di Cristo. Nell’anno 1530, alla dieta di Augusta, gli evangelici sottoposero all’imperatore Carlo V una confessione di fede. Nel settimo articolo leggiamo: “Invero la Chiesa è l‘assemblea dei santi nella quale è insegnato puramente l‘Evangelo e sono amministrati rettamente i sacramenti.” Sì, chiesa c’è laddove la parola di Dio è trasmessa nelle forme della predicazione e dei sacramenti. Questo è ciò che conta. La questione invece chi sia il soggetto a farlo rientra a un livello molto secondario. La frase che vi ho citata è formulata in passivo, ovvero in modo che l’attore grammaticalmente non è neanche preso in considerazione. L’essenza della chiesa non dipende dai messaggeri ma dal messaggio. Per noi questo vuol anche dire: laddove il vangelo è proclamato chiesa c’è e non le manca nulla per essere chiesa, indipendentemente da questioni denominazionali ed ecumeniche. Il regno di Dio non dipende da noi, né in quanto siamo persone singole, né in quanto siamo una specifica organizzazione religiosa; il regno di Dio magari si manifesta esattamente laddove noi pensiamo che sia più lontano, laddove ci sono quelli che noi guardiamo con sospetto e in maniera prevenuta. Ci sentiamo ridotti nella nostra importanza da queste considerazioni? Soltanto se in realtà cerchiamo il nostro, non Cristo. Ma, è questo è il punto su cui Paolo insiste, proprio l’azione di quelli che noi osserviamo con sospetto e avversione contribuirà alla salvezza nostra, perché mette a nudo le piccole e grandi auto-referenzialità che motivano anche la nostra testimonianza: vogliamo tanto essere delle “belle persone”, affidabili e rispettate, anche noi. Ma il messaggio di Cristo, che è sempre messaggio di croce, decostruisce queste speranze autoreferenziali, la nostra ricerca di “bellezza”. Possiamo solo pregare che ci sia dato che lo possiamo vivere come una liberazione, come “salvezza”.

Infine, qualcuno potrebbe dire: scusami, il messaggio della giustificazione per fede è un messaggio profondamente relazionale: non trasmette qualcosa di oggettivo, una qualità da acquisire, ma parla di come Dio ha risanato il suo rapporto con noi e come noi, di conseguenza, ci ritroviamo in una relazione risanata con lui. Come sarebbe possibile prescindere dalla dimensione personale e dall’autenticità e credibilità personale del testimone? Inoltre, parlare di Dio non è più un discorso oggettivabile, in cui sarebbe possibile separare il contenuto da chi parla. È sempre testimonianza personalmente impegnata. Sì, è vero tutto questo! Nonostante ciò, non soltanto la Confessione di Augusta ma anche l’apostolo Paolo stesso hanno osato non di separare la cosa dalla persona ma di distinguere comunque tra questi due livelli. Poiché come persone restiamo quelli che siamo – la parola di cui siamo diventati portatori invece non sarà mai la “nostra” in termini di proprietà. Poche ore prima di morire, il riformatore Martin Lutero scrisse su un cedolino una piccola riflessione che indirettamente riflette queste parole di Paolo e con cui vorrei chiudere. Scrisse Lutero: “Nessuno comprende Vergilio nelle sue Bucoliche senza essere stato pastore o contadino per almeno cinque anni. Credo che nessuno comprenda Cicerone nelle sue lettere senza essersi impegnato per vent’anni in un organismo statale eccellente. Nessuno pensi di aver gustato a sufficienza le Sacre Scritture senza aver governato la chiesa, assieme ai profeti, per almeno 100 anni. Attorno a Giovanni Battista per primo, Cristo poi e infine gli Apostoli c’è un immenso miracolo. Non devi tentare questa Eneide divina ma venerare inchinato le sue tracce! Noi siamo mendicanti. Questo è vero!”. Amen.

prof. Lothar Vogel

 

 

 

 

 

 

Tutta la creazione di Dio è molto buona!

GIORNATA MONDIALE DI PREGHIERA

meditazione tenuta dalla Pastora Mirella Manocchio

presidente OPCEMI

Genesi 1,1-31
Cara sorelle e cari fratelli,
leggendo le note geostoriche sul paese di Suriname ho scoperto che fa parte della regione amazzonica della Guiana il cui nome in lingua Kalina vuol dire “terra di molte acque” ed in effetti la zona e in particolare proprio Suriname è percorsa da miriade di fiumi e torrenti che hanno permesso alla lussureggiante vegetazione tropicale di crescere, di dar vita ad una meravigliosa biodiversità patrimonio naturale dell’Unesco e di aver quindi contribuito, insieme ai tanti minerali che si trovano nel sottosuolo, a far classificare nel 1995 dalla Banca Mondiale Suriname come il diciassettesimo paese più ricco al mondo per le sue risorse naturali.
Eppure scorrendo le stesse note geo-storiche si capisce come queste grandi ricchezze naturali, per l’enorme valore economico, sono diventate loro malgrado la sciagura del paese, sfruttato in epoca coloniale e postcoloniale fino ad oggi dove le estrazioni illegali di minerali costituiscono una delle cause maggiori dell’inquinamento proprio delle acque.
Come se ciò non bastasse, i cambiamenti climatici e il conseguente innalzamento del livello del mare rischiano di far sparire sotto il livello delle acque molta parte della zona costiera che copre circa il 15% del territorio.
Capite bene come tutto questo si ripercuota pesantemente nella vita delle persone e perché le donne del Suriname abbiano voluto stimolare la nostra attenzione su un tema che ci tocca tutti e sempre più da vicino.
Queste nostre sorelle nella fede non hanno però voluto partire dall’etica teologica per aiutarci a riflettere sul nostro approccio ai temi ecologici, ossia: cosa possiamo fare noi come credenti? Quali stili di vita conformi al Vangelo possiamo adottare nel nostro approccio alla creazione tutta?
Certamente domande importanti che un po’ tutti ci facciamo e che meritano risposte adeguate.
Ma per farlo con consapevolezza e davvero come credenti, non soltanto come cittadine e cittadini impegnati ecologicamente e socialmente, le nostre sorelle ci hanno voluto far partire dalla teologia fondamentale rimandando ad una riflessione sull’origine del creato voluta da Dio.
E allora guardiamo a questo testo che tante discussioni e pure tante divisioni ha portato nel mondo cristiano. Non voglio fare con voi una lettura che sottolinei le questioni di genere pure in esso insite e nemmeno puntare alla diatriba tra creazionisti che prendono letteralmente il brano ed evoluzionisti che vogliono confutarlo su basi scientifiche.
A noi oggi interessa capire qual è il messaggio profondo che questo testo ci offre, quale riflessione vuole far emergere nel nostro vissuto quotidiano di credenti.
Innanzitutto ci dice che la creazione non è un atto casuale, fortuito, ma un preciso atto di volontà di Dio ed un atto di amore. Perché dico questo?
Perché all’inizio la terra è informe e vuota, un magma indistinto, insomma il caos. E, come ci spiegano gli esegeti Dio, opera la creazione per separazione, separa la luce dalle tenebre, le acque dalla terra e via di seguito, e imprimendovi un ordine progressivo che culmina nella creazione umana e l’istituzione dello shabbat.
Dio fa tutto ciò chiamando all’esistenza la creazione attraverso la sua Parola che ha un valore performativo, ossia fa, mette in atto, crea quello che dice: “Dio disse: ‘sia luce!’ e luce fu.”
Eppure prima della Parola di Dio vi è un altro soggetto che guarda alla creazione ancor prima che essa divenga tale, quando ancora è un caos informe: lo Spirito di Dio che aleggia sulla superficie. Dio guarda a questo caos, vi aleggia sopra attraverso il suo Spirito e già si prefigura la bontà e bellezza che ne può venir fuori. Ecco l’amore di Dio per la creazione che si esprime prima ancora che essa sia, come una madre che ama il figlio o la figlia che ha in grembo e già si prefigura un futuro di gioia, benessere e bellezza per il nascituro!
E cosa accade al momento in cui il nascituro viene al mondo? Qual è la prima cosa che ci viene da dire quando vediamo un bimbo o una bimba appena nati?
“Ma che bella bambina!”
Non pensiamo certo se questa sarà una brava bambina, ma ciò che ci salta agli occhi è la bellezza armonica di quel piccolo corpo, la sua splendida e fragile completezza.
Ecco cosa esclama Dio quando vede l’opera della sua Parola: la sua creazione è bella, dà gioia nel vederla!
E sempre per rimanere nel paragone genitoriale, quando Dio chiama all’esistenza le varie parti della sua creazione non può che benedirle ossia non può che augurare loro il meglio per il futuro, proprio come farebbe un genitore con i figli appena nati.
Dio interloquisce subito con la sua creazione e non l’abbandona a se stessa appena creata, ma esprime il suo amore nella benedizione – crescete e moltiplicatevi – che è anche un impegno da parte sua perché certo un piccolo bambino non potrà crescere bene se non ha accanto genitori premurosi.
Non è un caso che il teologo Walter Bruegemann parla di un atteggiamento divino nella creazione improntato alla prossimità e alla distanza. La prossimità tra creatore e creatura, scrive, “è dovuta alla costante sollecitudine di Dio nei confronti della sua creazione (…) e dell’altrettanto sollecita risposta della creazione. (…) E tuttavia, in questa prossimità fiduciosa c’è una distanza che consente alla creazione libertà d’azione. La creazione non è sopraffatta dal creatore. Egli non solo ne ha cura, ma la rispetta lasciandole libertà nel rapporto. (…) La grazia di Dio consiste nel fatto che la creatura che egli ha chiamato all’esistenza, ora egli la lascia esistere.” (Genesi, Claudiana, pag. 48)
Nell’insieme della creazione vi sono anche gli esseri umani, creati per ultimi e nella somiglianza con Dio, ai quali viene rivolta una benedizione più complessa delle precedenti perché viene detto che oltre a essere fecondi, moltiplicarsi e riempire la terra essi dovranno rendersela soggetta e dominare gli animali.
Queste parole di Genesi sulla creazione umana, nell’immaginario cristiano e non, hanno rimandato per secoli l’idea – utilizzata poi a sostegno di pratiche economiche di sfruttamento – che il genere umano fosse qualcosa di diverso e staccato dal resto della creazione, tanto da poterla usare e sfruttare a piacimento come suo possesso speciale ricevuto da Dio.
Un atteggiamento questo che colpì profondamente i pellerossa quando incontrarono i primi europei. Loro che invece avevano un approccio alla natura basato sull’idea che gli esseri umani sono figli della terra, quindi parte integrante del Creato su cui soffia il Grande Spirito.
Vi dice qualcosa questa loro comprensione della creazione?
Eppure – come oggi sottolineano tanti esegeti e teologi – nel testo di Genesi vi sono elementi che avrebbero dovuto portare a una concezione non troppo dissimile da quella dei pellerossa.
La creatura umana è creata ad immagine e somiglianza di Dio e questo dovrebbe aiutarci a comprendere il messaggio che vuole consegnare all’umanità tutta perché se l’immagine divina veicolata dalla Bibbia è un mandato di potere e responsabilità nei confronti della creazione come quella esercitata da un pastore sul suo gregge oppure quella di sollecito amore materno e paterno, allora comincia a delinearsi anche quale può essere il reale valore del mandato affidato all’umanità.
Non sfruttamento e dominio assoluto e coercitivo, ma sulla scorta dell’agire di Gesù di Nazareth, figlio di Dio per eccellenza, servizio e sollecitudine nel garantire il benessere di tutte le creature cosicché la promessa che ciascuna di essa ha ricevuta possa essere fruita appieno.
Ecco questa comprensione del dettato biblico, un tempo portata avanti per lo più dalla mistica e da pochi studiosi isolati quali Albert Schweitzer o Teilhard de Chardin, con il passare del tempo è divenuta patrimonio dei molti – pensiamo alle assemblee ecumeniche di Basilea e Graz o a quelle del CEC di Camberra e Porto Alegre o ancora alla Carta Ecumenica – e ha portato la comunità dei credenti a comprendere la natura non come organismo vivente messo al servizio dell’essere umano, ma come patner con cui l’umanità è interconnessa similmente a Noè, l’uomo fedele a Dio rispetto all’umanità corrotta, che si salva solo assieme agli animali.
Ebbene se ci spostiamo dal mondo biblico al nostro, stiamo assistendo ad approcci più consapevoli nei confronti della salvaguardia del creato e delle sue risorse a livello delle potenze mondiali, soprattutto considerando il fatto che le risorse non sono inesauribili. Peccato che questo nuovo atteggiamento sia dettato per lo più da ragioni economiche, le stesse che al contempo frenano certe decisioni di drastico controllo, quali ad esempio la riduzione di emissione di anidride carbonica, perché considerate nocive per lo sviluppo economico-finanziario delle nazioni.
Certo nel rivolgerci a chi ragiona solo in termini di profitto e di potere, l’unico modo per far si che ci senta da quell’orecchio è quello di parlare lo stesso linguaggio.
Ma per noi credenti l’approccio non può essere solo utilitaristico, anche perché la questione della salvaguardia del creato va sempre connessa col modo in cui le risorse esauribili del nostro pianeta vengono distribuite. Se circa il 20% della popolazione mondiale gode di quasi l’80% delle risorse planetarie mentre circa un terzo della popolazione globale ha un’alimentazione insufficiente, se l’acqua da diritto viene trasformata in bisogno economicamente sfruttabile, allora quello che le chiese sono chiamate a fare diventa un discorso profetico di giustizia sociale. Questo ce lo dicono anche le nostre sorelle del Suriname.
Ritengo che fin dalla Scuola Domenicale sia necessario spiegare biblicamente e mostrare coi fatti che il Signore ci ha creati come parte integrante della sua meravigliosa creazione e che ce l’ha affidata per conservarla nella sua bellezza e splendore, facendo in modo che il godimento delle sue ricchezze permetta il benessere di tutti e non solo di una parte dell’umanità.
È un discorso che cambia prospettive e azioni sia nel quotidiano, sia nel complesso delle relazioni economico-sociali della terra, ed è il compito originario affidatoci da Dio come suoi figli e figlie.
Ebbene se non cercheremo con tutte le forze di portarlo avanti la creazione tutta, come dice l’apostolo Paolo in Romani 8, continuerà a gemere e ad essere in travaglio nell’attesa impaziente della manifestazione dei figli e delle figlie di Dio e di essere liberata dalla schiavitù della corruzione.
Chiudo le mie riflessioni con un brano tratto da un libro di Jurgen Moltmann che parafrasa Agostino nelle ‘Confessioni’: “Quando amo Dio, amo la bellezza dei corpi, il ritmo dei movimenti, la lucentezza degli occhi, gli amplessi, i sentimenti, gli odori, le tonalità di questa variopinta creazione. Vorrei abbracciare tutto quando amo te, Dio mio, perché io Ti amo con tutti i miei sensi nelle creature del Tuo amore, Tu mi aspetti in tutte le cose che mi incontrano.” (Lo Spirito della vita, Queriniana, pag. 119)
Amen

​​​​Past. Mirella Manocchio

,

Quaresima e settimana di rinuncia

Il prossimo appuntamento tra la nostra comunità e la parrocchia cattolica di santa Maria degli Angeli di piazza della Repubblica sarà martedì 20 marzo alle ore 19.00 presso il salone della chiesa metodista di via Firenze 38.
durante l’incontro approfondiremo due temi centrali per ogni singola comunità in questo specifico momento dell’anno liturgico:

la quaresima

la settimana di rinuncia

 

Seguirà un momento conviviale!

Riforma su Breakfast Time Roma

Quando il buon esempio è contagioso

Dopo Milano, anche la chiesa metodista di Roma attiva Breakfast Time, servizio di aiuto ai senzatetto

In questi giorni di freddo intenso e neve, si intensificano le iniziative per aiutare le persone più bisognose: stazioni ferroviarie che diventano dormitori, volontari armati di coperte e cibi caldi che “pattugliano” centri e periferie per portare conforto a chi vive in strada.

Esattamente un anno fa avevamo parlato qui dell’iniziativa nata all’inizio del 2016 all’interno della comunità metodista di Milano, battezzata Breakfast Time. Un buon esempio che è risultato “contagioso”, infatti anche la chiesa metodista di Roma ha da poco avviato un progetto analogo. Stesse pettorine rosse, stesso calore umano accanto a quello “fisico” delle bevande e delle coperte, stessa voglia di aiutare i meno fortunati.

Domenica 25 febbraio c’è stata la prima uscita, come ha raccontato ai microfoni di Radio Beckwith evangelica Fabio Perroni, uno dei coordinatori, che spiega: «L’esperienza di Milano è stata contagiosa, ci è piaciuta fin dall’inizio. I fratelli e le sorelle di Milano ci sono stati molto vicini con i loro consigli, una di noi è andata a Milano per vedere il loro lavoro, ma anche l’approccio con le persone. Ad esempio ci hanno insegnato come approcciarci, non svegliarli se stanno dormendo, interagire se lo vogliono, ma senza disturbare troppo. Abbiamo copiato quasi tutto, a cominciare dal nome della iniziativa, che in questo modo diventa più riconoscibile».

L’esempio di Milano è stato utile anche nel stabilire la cadenza: «Inizialmente si era pensato a una cadenza quindicinale, ma i fratelli di Milano ci hanno consigliato di cominciare subito con un appuntamento settimanale, più facile da ricordare. Abbiamo accettato il consiglio, vista la situazione di emergenza di questi giorni e anche perché il numero di volontari che hanno aderito è stato più alto del previsto».

Il gruppo è formato da una quindicina di volontari, che si alterneranno in gruppi di 5 nelle varie uscite domenicali. Per il momento sono tutti membri della comunità metodista, ma si prevedono anche delle collaborazioni con associazioni e chiese sensibili. Infatti, spiega Perroni, «abbiamo già preso contatti con il portale Roma altruista che fa da trait d’union fra volontari e associazioni che cercano volontari per le proprie iniziative, in modo poterci avvalere anche di volontari che provengono da altre realtà». Inoltre, spiega ancora Perroni, «è già arrivata la disponibilità della parrocchia cattolica vicina al tempio metodista per alcuni pacchi alimentari, e durante la settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, a fine gennaio, hanno fatto una colletta per questo progetto».

L’avvio della parte operativa giunge dopo 3-4 mesi di organizzazione e confronto fra le varie persone disponibili, con alcuni «sopralluoghi per vedere dove si fermavano maggiormente le persone, in modo da organizzare un itinerario di circa un’ora e mezza di servizio, che ruota nella zona intorno al tempio metodista: via Nazionale, piazza Esedra, ministero del Tesoro, via XX settembre, fino al teatro dell’opera, via Torino, tutte zone centrali vicino alla stazione Termini».

Il lavoro dei volontari prevede anche la preparazione della “colazione” solidale: «Prepariamo noi i cibi nella cucina nei locali della chiesa, e portiamo le bevande nei termos In questi giorni la cosa più importante è una bevanda molto calda, poi per questa prima uscita abbiamo offerto un panino con frittate e verdure, una merendina e un frutto».

Sul sito www.metodistiroma.it si trova una pagina dedicata al progetto con un form da compilare per segnalare la propria disponibilità. C’è anche una pagina Facebook per seguire le attività del gruppo, Breakfast TIME – ROMA (https://www.facebook.com/BreakfastTimeRoma/).