Ascoltiamo il lieto annuncio del Regno di Dio!

25 giugno 2017

Matteo 22, 1 – 14.

Gesù riprese a parlar loro in parabole e disse: «Il regno dei cieli è simile a un re che fece un banchetto di nozze per suo figlio. Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze, ma questi non vollero venire. Di nuovo mandò altri servi a dire: Ecco ho preparato il mio pranzo; i miei buoi e i miei animali ingrassati sono già macellati e tutto è pronto; venite alle nozze. Ma costoro non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari; altri poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero.Allora il re si indignò e, mandate le sue truppe, uccise quegli assassini e diede alle fiamme la loro città. Poi disse ai suoi servi: Il banchetto nuziale è pronto, ma gli invitati non ne erano degni; andate ora sulle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze!
Usciti nelle strade, quei servi raccolsero quanti ne trovarono, buoni e cattivi, e la sala si riempì di commensali. Il re entrò per vedere i commensali e, scorto un tale che non indossava l’abito nuziale, gli disse: Amico, come hai potuto entrare qui senz’abito nuziale? Ed egli ammutolì. Allora il re ordinò ai servi: Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti.Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti».

Cara comunità,

forse conoscete quei sogni strani ed imbarazzanti, nei quali improvvisamente ad un certo punto, in mezzo nella folla, – nella metro, durante la lezione a scuola o in una riunione importante, ci si rende conto di essere vestiti soltanto con una sciarpa.

Questi sogni sono tremendi, ma per fortuna – come tutti gli incubi che abbiamo – finiscono bene: il sognatore si sveglia e la tortura è finita.

Il testo previsto per la predicazione di questa domenica, NON permette una soluzione così immediata e risolutiva del problema:

l’ospite di cui racconta la parabola, che NON indossa un abito adatto, NON si sveglia da questo incubo nel suo letto accogliente.

Anzi, viene gettato “fuori nelle tenebre”. , lo attende la tortura, e molto probabilmente anche la morte…

La parabola sul regno di dio ci racconta la storia di un re, che celebra un banchetto di nozze per il suo figlio.

Il re invita quegli ospiti che EGLI considera importanti, – e li chiama tramite i suoi araldi due volte a questo banchetto – ma gli invitati si rifiutano:

alcuni ignorano semplicemente il suo invito,

ma altri insultano e uccidono gli araldi del re.

Preso della sua ira e della sua delusione profonda, il re manda le sue truppe per uccidere gli assassini e per ridurre in cenere le loro città.

Questa punizione non è l’unica conseguenza del comportamento degli invitati: il re vuole celebrare comunque le nozze di suo figlio; e quindi, decide di invitare a questo banchetto qualsiasi persona si trova a passare per strada.

Questa è la prospettiva del re, che nonostante il rifiuto del suo invito, riesce a realizzare il suo evento.

Ma la realizzazione del suo banchetto costa anche molte vittime: queste vittime sono i suoi servi, ammazzati invece del  loro padrone. Vittime sono i cittadini delle città, la cosiddetta popolazione civile, assolutamente innocente, perché nemmeno invitata a questo banchetto.

E vittima è anche l’ospite con l’abito sbagliato. E stranamente è proprio il suo destino che ci trascina cosi tanto in questa parabola, sollevando tante domande, come se fosse veramente così importante ciò che indossa a questo matrimonio, – sopratutto in questo caso, dove la persona è stata presa dalla strada e probabilmente non aveva nemmeno la possibilità di mettersi un vestito adeguato.

Non che le altre vittime valgano di meno o che le loro pene siano più opportune, no: ma il suo castigo in particolare ci sembra inadeguatamente duro.

Questo brano di Matteo, nella forma in cui ci viene presentato, ci rende insicuri, perché la storia, per come ci viene raccontata, non regge come annuncio della salvezza del Regno di Dio. Ma proprio per questo siamo invitati a decifrare ed indagare le rotture che incontriamo nell’ascolto di questo Vangelo:

(1. HAUPTTEIL)

In primo luogo vi sono gli ospiti che si presentano come un enigma a noi lettori, particolarmente quelli che vengono invitati DUE volte, così come era uso nel mondo antico, quando si invitava ad un evento:

un primo annuncio dell’evento e della data

e poi un secondo annuncio nel momento in cui la circostanza era ormai prossima. Questa ridondanza era semplicemente necessaria, perché nel mondo antico non esistevano agende, né tanto meno orologi da polso.

→ Ma questi ospiti rifiutano l’invito.

Il perché non ci viene spiegato, ma non penso che sia molto importante. Piuttosto sembra importante che qui si tratta di un gruppo di persone, che fanno parte del tutto sin dall’inizio e che appartengono al re e a suo figlio. Perciò il racconto dà per scontato che loro sono invitati a questo evento, ma proprio loro rifiutano di andare.

Poi ci sono gli ospiti imprevisti, che festeggiano col re e con suo figlio, mentre gli ospiti precedentemente invitati sono assenti. Nessuno si sarebbe aspettato di vederli partecipare al banchetto del re, anche perché la loro partecipazione non sembra d’essere soggetta a nessun criterio: sono chiamati dalla strada, – buoni, ma anche cattivi.

Proprio perché questa parabola, non ci da più informazioni su questi ospiti, ci fornisce più possibilità di interpretazione. La più diffusa è quella che Matteo ci presenta qui la storia del suo popolo, come la comprende lui stesso:

In questa interpretazione il re rappresenta Dio, che manda i suoi profeti e apostoli al popolo d’Israele, per invitarli alla sua salvezza in Gesù Cristo. Ma loro non solo ignorano l’ invito di Dio, ma scherniscono ed ammazzano i profeti, perché si rifiutano di riconoscere il suo figlio. La città messa in cenere è molto probabilmente Gerusalemme, devastata per la mano dei romani nel anno 70 dopo Cristo.

Sembra che Matteo interpreti questa distruzione come punizione divina per questo rifiuto, mentre gli ospiti imprevisti rappresentano ai suoi occhi la comunità cristiana.

Certo che non è l’interpretazione più facile, perché può parere molto problematica alla luce degli avvenimenti degli ultimi secoli: le persecuzioni e il genocidio degli ebrei in Europa, che sono stati anche giustificati con letture del genere.

Ma cerchiamo di non fare l’errore dell’anacronismo e malinterpretare questo racconto fuori dal suo contesto temporale. Penso piuttosto che dobbiamo comprendere questo racconto di Matteo partendo dalla sua delusione e la sua sofferenza sul fatto che la maggior parte del suo popolo è rimasto con ciò che conosceva già e che non ha accolto questa speranza nuova in Gesù Cristo che invece l’evangelista ha trovato illuminante.

(2. HAUPTTEIL)

Matteo ci dà in questo testo la sua visione della storia di Dio col suo popolo. Ma il destino d’Israele non è il centro di questa parabola. Nemmeno con l’invito degli ospiti imprevisti, cioè con il nuovo patto che Dio stringe con tutti gli popoli, la parabola ha raggiunto il suo culmine.

Il racconto trova piuttosto una continuazione cruciale: tutto quello che è stato detto ci porta all’episodio dell’ospite senza abito nuziale, che ci ha colpito già all’inizio di questa predicazione.

L’intenzione di questo episodio finale potrebbe essere quella di respingere un malinteso, secondo il quale a causa dell’invito a caso, si potrebbe pensare che il comportamento degli ospiti imprevisti non abbia nessuna importanza.

Questo lascia già intendere la qualificazione morale degli ospiti, quando Matteo sottolinea che i servi raccolgono “quanti ne trovarono, buoni e cattivi”.

L’evangelista ci ricorda che non dobbiamo darci delle arie per essere invitati al banchetto, ma che anche noi stiamo sotto il giudizio di Dio.

E Matteo ci illustra abbastanza bene che cosa ci aspetta, se questo giudizio è negativo: la pena che il re ordina sul ospite viene descritta in modo molto dettagliato: il respinto viene gettato fuori nelle tenebre; dove sarà pianto e stridore di denti.

In considerazione a questa pena, la prospettiva che ci offre questo Vangelo sul banchetto nel Regno di Dio è terrificante e opprimente:

perché indossiamo l’abito che noi consideriamo giusto, ma che viene respinto dall’ospitante,

allo stesso modo, non possiamo sapere se riusciremo ad essere all’altezza di questo giudizio.

E rispetto a cosa toccherà agli ospiti invitati, non so quale azione abbia una conseguenza peggiore: respingere l’invito o andare lì nel timore di non essere adatti. Ma il messaggio sicuramente non può consistere nella mancanza di via d’uscita per noi.

Per capire meglio quest’ immagine dell’abito nuziale, è utile sapere che oltre ad annunciare un evento due volte, nel mondo antico era anche uso che l’ospitante mettesse a disposizione i vestiti per gli ospiti del matrimonio.

Quindi si poteva andare ad un matrimonio con i vestiti del quotidiano, perché lì si riceveva un vestito come tutti gli altri ospiti e tutti erano vestisti in modo adatto. Un uso molto pratico direi.

Ma allora mi chiedo se il nostro timore è giustificato, dal momento che non importa come arriviamo al banchetto, visto che riceveremo lì gli abiti adatti. Il nostro sforzo consiste davvero solo nell’indossare i vestiti che riceveremo?

Abbiamo visto che l’invito ci viene offerto, improvvisamente e a caso, così come siamo: buoni o cattivi, spesso entrambe le cose contemporaneamente. In questo invito Dioci offre la sua grazia, perché non potremo mai essere all’altezza di poter partecipare.

Accettarla significa, detto con il pensiero di Lutero mettersi l’abito nuziale e rendersi degno, che è nient’altro che: vivere in fede, che provoca le opere dell’amore.

L’abito nuziale è la vita del cristiano, che sa che il momento del banchetto arriverà, ma non sa quando. E infatti in questa occasione gli ospiti vengono improvvisamente interpellati. Ma uno di loro non indosserà l’abito che dovrebbe.

È il SUO destino che ci illustra che siamo tutti chiamati, ma non tutti compiamo la nostra grande responsabilità. La responsabilità di di stimare la vita che ci è stata donata da Dio.

Crudo ma chiaro Matteo ci spiega, che non basta essere invitati al banchetto, considerandosi ospiti, ma che dobbiamo anche essere riconoscibili come tali, indossando l’abito che ci è stato offerto, cioè vivere come cristiani in fede e in amore.

Cari e care, confesso d’essere sempre di nuovo sconvolta della profondità dell’annuncio, soprattutto quando lo incontriamo nascosto in un testo così pretenzioso e denso di un Vangelo che non è solo spaventoso, ma anche pieno di buona notizia per noi. Lo è perché finisce con un grande banchetto, al quale noi tutti siamo invitati. Ed è un banchetto che in ogni caso prenderà luogo, – e questo è il messaggio importante di questa parabola: Che ognuno che sente amore per l’ospitante e il suo figlio parteciperà a questo evento.

Anna Vinatzer.

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Padre nostro

EDUARD LOHSE,
Paideia, Brescia, 2013,
pp. 150, Euro 16,00

Il pregio di questo commento al Padre nostro è quello di calare la preghiera cristiana più famosa all’interno dell’ambiente giudaico da cui è scaturita, analizzandola da quella prospettiva per coglierne sia la continuità con la tradizione giudaica sia gli elementi originali che essa propone. Il testo è suddiviso in tre capitoli, seguiti da un’appendice. Il primo capitolo prende in considerazione la tradizione del Padre nostro, le differenti versioni di Matteo e Luca, l’originale aramaico e il testo greco, suggerendo che nella sua forma primaria la preghiera doveva avere un andamento poetico, e infine prende in esame le preghiere giudaiche del tempo di Gesù, in particolare quelle scoperte a Qumran, lo Shemà, il Qaddish e le Diciotto Benedizioni, concludendo che Gesù ha sicuramente attinto a questa ricca tradizione, ma l’ha poi rielaborata in modo originale. Il secondo capitolo analizza le sette petizioni del Padre nostro, soffermandosi su ogni singola parola, di cui viene ricercato il significato, anche attraverso il confronto con il suo uso nel giudaismo. Ad esempio, l’autore analizza il significato del termine Padre in alcune preghiere giudaiche, dove la designazione di Dio come Padre è strettamente unita alla maestà divina e non è mai pronunciata da un singolo, a differenza del Padre nostro, in cui essa indirizza l’orante verso un atteggiamento di fiducia. La richiesta della venuta del Regno è compresa alla luce dell’escatologia giudaica, da cui Gesù riprende la nozione di signoria di Dio, svincolata però dalle sue connotazioni politiche, ed è collegata alle parabole contenute nei Vangeli su questo tema (il seme che cresce da sé, il granello di senape, il lievito e il seminatore). La petizione del pane occupa uno spazio particolare per l’analisi del termine greco tradotto generalmente con “quotidiano”, ma che è un termine rarissimo in tutta la letteratura antica, la cui radice potrebbe riferirsi al verbo essere o al verbo andare, conducendo a significati anche teologicamente diversi: basti pensare alla traduzione latina della Vulgata, dove il pane quotidiano è definito “ultraterreno”. La richiesta del pane è poi messa a confronto con il Discorso della montagna, che, con il suo invito a non preoccuparsi per il domani, sembra mal conciliarsi con la petizione del Padre nostro. Sulla questione del perdono si analizza la differenza tra Luca e Matteo, che usano, rispettivamente, il presente e il passato del verbo “rimettere”: l’impostazione matteana, che potrebbe alludere ad una reciprocità contrattuale (l’uomo otterrebbe il perdono solo se ha perdonato a sua volta), viene invece da Lohse spiegata con una diversa traduzione dell’originale aramaico. Anche qui la petizione viene affiancata ad una parabola, quella del servo spietato, per sottolineare il rapporto tra preghiera ed azione. Il terzo capitolo riepiloga il significato complessivo del Padre nostro e analizza l’uso della preghiera nel primo contesto cristiano, ad esempio nella Didachè: la preghiera di Gesù diventa simbolo dell’unione tra giudei e cristiani, che potrebbero “riscoprire il legame che li unisce in virtù della storia comune”. Interessante, anche se appesantita da una certa ripetitività, è l’Appendice, in cui l’autore esamina il commento al Padre nostro effettuato dai Riformatori e quello presente in diversi catechismi cattolici o in autori moderni, sia cattolici che protestanti, per ribadire l’importanza ecumenica di questa preghiera che, come disse Tommaso d’Aquino, nonostante le divisioni all’interno della cristianità, “rimane il bene comune e un appello urgente per tutti i battezzati”.
Antonella Varcasia

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La fragilità del male”

BONHOEFFER Dietrich,
Piemme, Milano, 2015,
pp. 176, Euro 17,50

L’incontro con il pensiero di Bonhoeffer è sempre edificante, anche quando è sotto forma di frammenti, appunti, meditazioni, come è il caso di questa raccolta di scritti inediti, che documentano l’interesse del teologo tedesco per il tema del male lungo un intero ventennio, dal 1925 al 1945. I frammenti non sono però distribuiti cronologicamente, in modo tale da poter cogliere l’evoluzione del pensiero di Bonhoeffer, bensì per tematiche: l’esperienza del male, che prende in esame, in particolare, la paura, il dolore, la morte, la guerra, la solitudine, il peccato; il rapporto tra Dio e il male, e quindi la collera divina, il diavolo, la violenza e la sofferenza testimoniate nella Scrittura, compresa la passione di Gesù; la vittoria sul male, cioè l’amore, il perdono, la pace, il conforto della Chiesa, la speranza, la preghiera. Al centro di tutto è la croce: chi la ama ama anche la sofferenza e considera il dolore come una forma di benedizione, attraverso la quale Dio ci chiama a sé. Dio per primo è un Dio che soffre e quindi rende santa la sofferenza; perfino la morte diventa bella, in quanto rappresenta il passaggio alla nostra vera patria, regno di gioia e pace. Dopo aver preso atto dell’esistenza del male nel mondo, Bonhoeffer vede in Cristo crocifisso l’unica soluzione: si può superare la sofferenza solo sopportandola, perché, per chi crede, essa ricade su Cristo. Il cristiano deve portare la croce: più cerca di scrollarsela di dosso, più essa diventa pesante, perché “è il giogo di se stesso, che si è scelto da solo”, mentre Gesù invita a deporre il proprio giogo e a portare il suo, che è leggero e che dà pace e gioia, perché ci rende certi della sua vicinanza. Sono parole molto dure, ma, in fondo, Bonhoeffer invita a seguire Gesù, intraprendendo la via dell’amore: perciò egli insiste sulla necessità dell’amore e del perdono, sul compimento della volontà del Signore, che può essere espressa in modo semplice, nella vita quotidiana, amando i nostri cari, aiutando i bisognosi, praticando la misericordia, amando i nostri nemici, perché il nemico vive nell’odio e quindi ha più bisogno del nostro amore. Chiude il libro un capitolo sulla responsabilità, in cui Bonhoeffer invita a comprendere la bontà di Dio come responsabilità nei confronti dei fratelli: nel momento in cui ringraziamo Dio per ciò che ci ha elargito, pur essendone indegni, dobbiamo ricordarci di tutti i fratelli che non sono stati privilegiati allo stesso modo. Il male allora ci appare fragile: esso può essere vinto quando, con un atto responsabile, ci si oppone ad esso, facendo maturare dentro di noi i valori dell’amore, della pace, della calma, della gioia, della gentilezza, della mitezza, della fede.

 

Antonella Varcasia

Non c’è spazio per la depressione nella Chiesa

18 giugno 2017

1Giovanni 4,16d-21.
Dio è amore; e chi rimane nell’amore rimane in Dio e Dio rimane in lui. 17 In questo l’amore è reso perfetto in noi: che nel giorno del giudizio abbiamo fiducia, perché qual egli è, tali siamo anche noi in questo mondo. 18 Nell’amore non c’è paura; anzi, l’amore perfetto caccia via la paura, perché chi ha paura teme un castigo. Quindi chi ha paura non è perfetto nell’amore. 19 Noi amiamo perché egli ci ha amati per primo. 20 Se uno dice: «Io amo Dio», ma odia suo fratello, è bugiardo; perché chi non ama suo fratello che ha visto, non può amare Dio che non ha visto. 21 Questo è il comandamento che abbiamo ricevuto da lui: che chi ama Dio ami anche suo fratello.

Care sorelle e cari fratelli,

sovente si parla di crisi della nostra chiesa, almeno a livello nazionale. Si parla della diminuzione del numero dei membri di chiesa, dei problemi finanziari, di una spiritualità addormentata ecc. Discorsi che si ripetono alle assemblee di chiesa, al circuito, al distretto, al sinodo… Al di là delle questioni contingenti, però, trovo che due siano le caratteristiche (e direi anche le ragioni) di questa crisi: da una parte una brutta depressione, dall’altra l’aumento della conflittualità un po’ a tutti i livelli.

Affrontiamo prima questa depressione e le sue ragioni. Una degli aspetti peggiori della depressione è che chi non ne soffre non la riconosce fino in fondo come una vera malattia. La frase classica è: «hai tutto, stai bene, che cosa ti manca, scuotiti di dosso questa indolenza e reagisci». Peccato che sia proprio questo il problema, almeno in buona parte dei casi. Chi è depresso, infatti, pensa di non avere le energie per uscire dalla sua condizione, e il fatto di non sentirsi preso sul serio non fa altro che aumentare la mancanza di autostima: «se non riesco a uscire da una situazione così poco grave, vuol dire che sono davvero una persona da nulla!»

Sovente, dunque, un modo per combattere la depressione è ricostruire l’autostima della persona malata. Per cui riflettiamo sulla nostra condizione di chiesa depressa e vediamo se e come possiamo ricostruire una nostra autostima. Senza nasconderci o sminuire le difficoltà contingenti, dovremmo ricordarci che ci è stato affidato un messaggio che ha cambiato il mondo degli ultimi duemila anni e che, ogni volta che è stato vissuto nella sua purezza, ha aiutato persone sofferenti a trovare conforto e persone umiliate e trovare il proprio riscatto. È una Parola bella, importante, e soprattutto è una Parola che quando agisce può spostare le montagne. C’è un libro su Lutero di parecchi anni fa che si intitola: Lutero, la parola scatenata. Se ci liberiamo dalle nostre catene, se lasciamo la Parola risuonare nelle nostre orecchie e tra le panche delle nostre chiese, potremo sentire di nuovo questa forza in azione: lo Spirito soffia, apriamo le nostre vele e lasciamoci portare.

Siamo anche eredi di una storia bella e importante, nel nostro paese e nel mondo, quella del protestantesimo. Una storia di fede, di libertà, di responsabilità, una storia di grande attualità, proprio oggi che di nuovo si accentuano le diseguaglianze, che la povertà continua a diffondersi in un mondo dove la guerra miete sempre nuove vittime, dove i ricchi fomentano la guerra tra poveri, dove la povertà è prima di tutto una povertà di idee e di progettualità… Quella di Dio è una storia di salvezza e di vita che, quando viene narrata tra le mura delle nostre chiese, può di nuovo coinvolgere nuove persone, perché ritrovino il loro rapporto con Dio e si uniscano al nostro progetto di chiesa, una comunità di sorelle e fratelli che accoglie e raccoglie in un unico corpo le numerose diversità che compongono questa umanità travagliata. In una parola, noi abbiamo ricevuto una bella storia, un bel messaggio: mi pare che abbiamo delle belle ragioni per ritrovare la stima in noi stessi, visto pure che è il Signore stesso ad averci chiamati.

Naturalmente, con questo non voglio ricadere nel rischio che rammentavo all’inizio: nel cercare di recuperare l’autostima, non dobbiamo sminuire la portata della nostra malattia. L’analisi della nostra situazione rimane una necessità: dobbiamo curarci, non basta riscoprire ciò che di bello abbiamo. E, nella storia della Chiesa, l’unica cura che abbia risollevato le chiese è sempre stata una bella iniezione di Bibbia. A questa dobbiamo tornare, con decisione. Sarebbe bello se la pubblicazione della Bibbia della Riforma (prevista per l’inizio di ottobre) potesse essere uno stimolo in questa direzione.

Questo ci aiuterà anche a guarire dalla prima conseguenza della depressione, cioè la difficoltà di avere e mantenere decenti rapporti interpersonali. Non so perché nella nostra chiesa, in generale nel mondo evangelico (ma sospetto che sia una malattia comune a tutte le chiese), si scambia la fraternità con la libertà di trattare male il prossimo. Troppo sovente una cattiva gestione dei rapporti interpersonali crea danni gravi, talvolta irreversibili. La mancanza di fraternità, o un’idea sbagliata di fraternità, può rovinare non solo intere giornate, ma anche far allontanare le persone dalla chiesa, facendo disperdere enormi energie nella gestione dei conflitti. Anche questo non va sottovalutato e non per nulla la prima preoccupazione dei consigli di chiesa protestanti tradizionali era la gestione della disciplina nella chiesa. Abbiamo tutte e tutti dei caratteri difficili e dire una parola sbagliata al momento sbagliato è molto facile, ci caschiamo tutti. Ma guai a noi quando ci caschiamo!

Come non si scherza con la depressione, anche la conflittualità è una malattia seria dove non basta la buona volontà, ma servono autodisciplina e, nei casi peggiori, disciplina. Se la domenica mattina ci svegliamo che abbiamo solo voglia di mordere, torniamo a dormire, leggiamoci un libro. È meglio non venire in chiesa a rovinare la giornata agli altri, se non siamo disposti alla conversione! In chiesa dobbiamo portare il meglio di noi stessi, per poter vivere anche a casa o al lavoro dei rapporti positivi. La chiesa dev’essere un rifugio dove troviamo buonumore, consolazione, conforto, dove veniamo a ricaricare le batterie… Ma quante volte le nostre comunità non sono capaci di vivere questa vocazione? Si possono affrontare anche difficili discussioni in maniera fraterna e costruttiva e non è necessario far finta di non essere arrabbiati, se lo siamo. Ma ogni sentimento va espresso nella maniera adeguata. Come dice Giovanni: non si può amare Dio senza amare il prossimo. Quindi, occhio a come parliamo e a quello che diciamo!

Un’ultima cosa: queste due brutte malattie, la depressione e la conflittualità, da dove hanno origine? Il testo della Prima Lettera di Giovanni è illuminante: dalla paura. Il contrario dell’amore è proprio la paura, non l’odio! La depressione nasce dalla paura, la paura di non essere all’altezza, di non essere degni, di non avere le forze, di quello che gli altri possono dire o pensare… Quante paure! Proprio come la nostra società, che vive le nostre stesse dinamiche! Una società depressa che non ha più autostima e non è più capace di esprimere un minimo di coesione, di rispetto per il prossimo, di amore per l’altro o l’altra… Anche noi credenti abbiamo paura, di mille cose: di dove trovare i soldi per tenere in piedi la baracca, di non essere omologati in questa società, di essere rifiutati, di suscitare reazioni negative… Quante paure abbiamo, che ci portano a dimenticare l’amore, prima di tutto l’amore per Dio e poi l’amore per il prossimo? Paura di perdere un posto acquisito nella chiesa? Paura di essere messi in discussione? Paura di non essere accettati? Che paure abbiamo, per cui non riusciamo più a vivere l’amore di Dio e ci lasciamo andare a discussioni inutili, quando non dannose? Riflettiamoci, seriamente come seriamente dobbiamo prendere questi due mali che ci affliggono.

Ritornare all’evangelo, alla Parola di Dio che ce lo annuncia, dunque, potrà curare questi mali. Io credo che, nel nostro piccolo, la nostra comunità di via XX Settembre abbia vissuto e vinto, almeno in parte, queste malattie (cosa che non ci rende immuni per il futuro!). Pensate dove saremmo adesso, se non avessimo accolto le varie sfide che abbiamo incontrato sulla nostra strada, sfide di accoglienza di persone nuove, sfide per costruire una comunità accogliente e simpatica, dove ritrovarsi insieme per vivere l’amore di Cristo. Noi possiamo essere una comunità che dà l’esempio alla nostra chiesa nazionale, per ritornare a guardare con ottimismo alla nostra missione e vocazione: affrontare e vincere la paura per tornare a vivere l’amore di Dio e del prossimo. La strada ormai la conosciamo, proseguiamo con coraggio per la via che il Signore ci ha indicato e per la quale ci accompagna. Amen

past. Eric Noffke

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La Riforma protestante nell’Europa del Cinquecento

di LUCIA FELICI,
Carocci, Roma, 2016,
pp. 326, Euro 29,00
Un saggio esaustivo dal punto di vista storico, per l’approfondita analisi delle origini, della diffusione e dell’articolazione del movimento riformatore del XVI secolo, ma anche un testo di piacevole lettura, strutturato secondo due direttrici: una, verticale, ricostruisce la storia della Riforma attraverso il tempo, a partire dall’analisi dei secoli precedenti, dove si possono rintracciare i primi germi di insoddisfazione religiosa, politica e sociale, proseguendo con la genesi del movimento, il suo consolidamento e la sua diversificazione in varie tipologie, nell’ambito sia della Riforma magisteriale sia di quella radicale. La seconda direttrice, orizzontale, analizza la propagazione del movimento nei paesi europei, con speciale riferimento all’Italia. Particolare rilievo assume la ricerca delle motivazioni che sono all’origine della nascita della Riforma e della sua diffusione a livello europeo. Le motivazioni religiose si legano con quelle politiche, economiche, culturali e sociali: non solo la decadenza della Chiesa, ma anche il desiderio di autonomia dei sovrani europei rispetto al centralismo romano; lo sviluppo dell’Umanesimo e degli scambi internazionali; l’affermarsi della stampa; le proposte di rinnovamento di intellettuali come Erasmo: tutto ciò favorì l’apertura delle menti e la circolazione delle idee, preparando il terreno alla protesta luterana e alla sua trasformazione da semplice disputa teologica in un processo di rottura con la tradizione romana. La complessa articolazione della Riforma è affrontata attraverso luoghi e protagonisti e molto spazio viene dato alle persecuzioni di anabattisti, antitrinitari e nicodemiti e al significato storico della ricerca eterodossa, che portò all’elaborazione dei moderni concetti di libertà e tolleranza, di universalismo e di relativismo religioso. In Italia lo sviluppo fu condizionato dalla presenza della Chiesa, dall’eredità rinascimentale, dall’indipendentismo repubblicano, dall’anticlericalismo, dalla frammentazione politica, tutti elementi che plasmarono la Riforma italiana in modo originale, favorendo lo sperimentalismo dottrinale e la rielaborazione autonoma. In Europa la Riforma fu accolta, tollerata o respinta, a seconda dell’influenza di diversi fattori, come il sostegno politico della Chiesa agli stati coinvolti nel conflitto confessionale o l’opera di evangelizzazione dei gesuiti. Generalmente, la tolleranza rispose più a esigenze pratiche che al riconoscimento di un ideale di libertà, così come l’accoglimento o il rifiuto delle nuove dottrine dipesero dalla convenienza delle alleanze politiche. Il saggio sottolinea infine l’impatto avuto dalla Riforma non solo sulla vita spirituale, ma anche sulla società e sulla cultura, i cui valori furono completamente trasformati: l’idea del tempo e del lavoro, il ruolo della famiglia e della donna, l’assistenza sociale e la circolazione culturale, l’atteggiamento positivo nei confronti della scienza, che contribuì alla nascita del pensiero storico-critico, nonché la relativizzazione del concetto di verità, rivelatasi fondamentale per lo sviluppo del pensiero moderno. Antonella Varcasia

Benedite quelli che vi perseguitano. Benedite e non maledite – culto contro l’omofobia

11 giugno 2017

Romani 12.14

 

Dunque, non so voi ma, dopo aver letto questo testo, il mio primo pensiero è stato “ecco, bell’idea, noi sono anni che lottiamo affinché cessino violenze, aggressioni e discriminazioni verso persone omosessuali e transessuali; e poi arriva Paolo che dice cosa? Benedite quelli che vi perseguitano?! e magari poteva anche aggiungere state cheti e non vi ribellate! Ma io gli faccio un fondello così!”. Poi, ecco, diciamo che ho fatto un paio di respiri profondi e a mente lucida ho ritenuto che sarebbe stato poco proficuo fare un sermone su quanto mi sembrino fuori luogo queste parole dell’apostolo. E sapete che vi dico? La mia ritrovata calma è stata premiata, se così vogliamo dire, qualche versetto dopo. Al versetto 20 della medesima lettera Paolo scrive «Anzi, «se il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare; se ha sete, dagli da bere; poiché, facendo così, tu radunerai dei carboni accesi sul suo capo»».

Alla luce di questo versetto le precedenti affermazioni hanno improvvisamente assunto tutto un altro aspetto. E così mi sono chiesto, stai a vedere che lo stesso principio dei carboni accesi vale anche nella dinamica benedici chi ti maledice? Se prendiamo per buona questa teoria la dinamica cambia parecchio; ma andiamo con ordine.

Riprendiamo dal primo pezzo di Romani 12.14 “benedite – quelli – che vi perseguitano”. Benedire, come anche il perdonare non è un qualcosa di banale, se fatto dal profondo del cuore. Nella benedizione c’è anche la dimensione della condivisione, io benedico un’azione quando ritengo che quell’azione rispecchi pienamente la mia opinione, la mia deontologia e la mia persona. Come posso dunque benedire il mio aggressore? Come posso essere d’accordo con il suo gesto violento nei miei confronti fino al punto di benedirlo? Significa forse che me lo merito? Significa che tutte le discriminazioni di cui sono vittima sono la giusta conseguenza del mio comportamento? Cosa sono dunque i loro gesti? L’ultimo disperato tentativo di salvarmi da una via deviata dalla moralità corrotta? Dalla mia sessualità contro natura?

No, assolutamente no. La violenza non ha giustificazione, mai! Chi rinuncia al dialogo e passa all’aggressione, che sia verbale, fisica, psicologica o anche tutte queste assieme, ha semplicemente rinunciato alla sua intelligenza e si è lasciato prostrare dai sentimenti di rabbia, rabbia spesso scaturita dalla paura dell’ignoto, del diverso, di ciò che la loro mente reputa controsenso. Benedire i nostri aggressori significa dimostrare loro che l’alternativa alla violenza esiste, vuol dire dimostrare loro che noi siamo più forti dei loro insulti dei loro calci dei loro abusi. Subire per poi maledire, in questo caso, assumerebbe la stessa capacità di cambiamento dell’espressione infantile “specchio riflesso”. Rispondere al male con altro male non può che portare ad un’escalation di violenza, la violenza si spegne solamente con l’amore, che nel testo di Paolo si trasforma in benedizioni, persino contro i persecutori.

Mi rendo conto che in questo momento sembrano solamente parole, molti di voi staranno magari pensando che la realtà è molto più cruda. Ed io vi do ragione, questa è la teoria, la pratica è molto più faticosa.
Ma se avessimo deciso che tanto non c’è nulla da fare, cosa ci faremmo noi qui? Per ricordare le vittime non c’è bisogno necessariamente di un culto, anzi, le veglie sono decisamente una formula più appropriata. Noi siamo qui perché abbiamo deciso di dire a tutti coloro che ci voglio male che la nostra fede è più forte dei loro pugni, che noi non siamo soli, che le vittime non rimangono sole, che la persona a terra non rimarrà a terra ma si rialza, e contro qualunque aspettativa non brama la vendetta, anzi fa qualcosa di ancora più forte, è pronta a perdonare la tua debolezza, la debolezza che ti ha portato alla paura, la paura che ha innescato il tuo gesto.

Benedire, dunque, non significa sottomettersi o trasformarsi in vittime silenti che subiscono senza fiatare. Benedire significa guardare l’aggressore a testa alta e con decisione affermare che si è liberi dalle catene dell’odio.
Cari fratelli e care sorelle, resistere all’impulsività dei sentimenti non è mai facile; e nessuno pretende che lo sia. Paolo con le sue parole non ci sta ammonendo, ci sta invitando a riflettere sulle nostre azioni e reazioni, ci sta invitando a fare la differenza.

Possano dunque i nostri gesti accompagnare nei fatti le nostre parole. Amen

Giovanni Bernardini

 

lo Spirito di Dio, il Trasformatore

4 giugno 2017

Ora vado
Non mi chiedete: dove vai? Ma conviene che io vada .
Se non vado…non verrà
Ma se vado lo manderò.
E quando verrà … vi guiderà.

Cari fratelli e care sorelle, questa che vi ho appena riportato non è una conversazione telefonica tra persone che si accordano sul da farsi, ma uno degli annunci più straordinari di tutto l’Evangelo.
Un annuncio rivolto ad un gruppo di amici così come Gesù chiama i suoi discepoli.

E nell’intimità di questa amicizia Gesù si stupisce del fatto che dopo aver rivelato ogni cosa, nessuno di loro gli chiede “dove vai?”
Nell’intimità di questa amicizia Gesù si rende conto che i dodici non hanno ancora capito nulla.

E’ la loro tristezza a renderli muti ciechi e sordi, a renderli disinteressati al messaggio. Una cosa sola hanno compreso, un notizia che li terrorizza: Gesù se ne andrà.
E noi? Che fine farà tutto quello che abbiamo fatto? Che senso ha avuto lasciare la propria casa, la famiglia per seguirlo se proprio ora Lui ci abbandona.

Se questi erano i sentimenti e le domande nascoste nel loro cuore, Gesù dà ai discepoli una seconda spiegazione che è a tutti gli effetti una conditio sine qua non: “è bene per voi che io me ne vada. Se non vado non verrà il Paracleto”. Una condizione che è però l’annuncio definitivo che Dio dà all’umanità. L’annuncio che non è tutto finito. L’annuncio che il piano di Dio prevede ancora qualcosa di grande per ogni uomo e donna di questo mondo. Gesù annuncia la sua dipartita che non è la fine dell’Emmanuele, il Dio-con-noi, ma l’inizio di un nuovo tempo e di un tempo nuovo nello Spirito. E’ questo l’annuncio cari fratelli e care sorelle che il vangelo di Giovanni oggi fa a ciascuno e ciascuna di noi! Voi avete ricevuto il Paracleto! E se oggi siamo qui in questa chiesa di Roma non è per caso, non è perché non avevamo meglio da fare in questa giornata di inizio giugno. Se oggi siamo qui è perché il Paracleto ci ha convocati ed in particolare modo oggi nel q uale ricordiamo il giorno di Pentecoste durante il quale lo Spirito Santo è sceso su quella piccola chiesa domestica di cui facevano parte i discepoli.

A Pentecoste quella piccola cellula di uomini e donne in preghiera, nascosti per paura dei Giudei, viene trasformata per l’azione dello Spirito Santo in un esercito di apostoli nutriti dalla speranza. Quella speranza che, come abbiamo ascoltato dalla lettera di Paolo ai Romani, “non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato”. Un amore che come un fiume in piena ha preso possesso dell’umanità nella nuova era dello Spirito.

Ma chi è questo Paracleto di cui parla Gesù? Questo è un termine che solo l’evangelista Giovanni utilizza nei suoi scritti. Abbiamo letto nella nostra Bibbia che viene tradotto con CONSOLATORE, altri lo traducono con AVVOCATO, altri con DIFENSORE, altri con AIUTO.

Personalmente preferisco chiamarlo con il nome che Giovanni ha utilizzato e sentire in questa parola della lingua greca quello che è il suo vero significato: Paracletos è “colui che è chiamato al fianco, vicino”. E’ colui che, caro fratello e cara sorella che sei qui stamattina, si è fatto vicino a te, è colui che in questo momento ti sta scaldando il cuore nell’ascolto della predicazione della Parola. Il Paracleto è colui che si fa vicino a noi anche quando la nostra freddezza e la nostra indifferenza non si accorgono della sua presenza.

Volendo tradurre il termine Paracletos, non per il suo significato etimologico ma per le azioni che svolge, io lo chiamerei il TRASFORMATORE.
Un termine che possiamo sperimentare anche oggi su noi stessi. Noi che siamo stati trasformati da gente assonnata della domenica mattina a popolo in cammino che si vuole riunire per dar lode a Dio.

Noi che uscendo di qui scopriremo di essere trasformati in persone rinnovate dalla Parola, trasformati in missionari dell’evangelo dal gesto della grazia che tra poco andremo a condividere nella Santa Cena.
In questo senso lo Spirito è consolatore, perché trasforma la tristezza in gioia.

In questo senso lo Spirito è avvocato e difensore, perché da peccatori ci trasforma in salvati.
Nel giorno di Pentecoste lo Spirito ha creato la chiesa non perché ha unito persone diverse con un unico ideale, ma perché ha trasformato un gruppo di ascoltatori della Parola in un esercito di Predicatori. Pentecoste è la grande festa della predicazione, tutti possono parlare nella propria lingua ed essere compresi, tutti possono comprendere il significato della gradi opere di Dio per noi.

E’ la festa della missione perché tutti siamo mandati ad annunciare che l’umanità è stata trasformata dall’amore di Dio per mezzo dello Spirito Santo. Un amore così grande da farsi uomo in Gesù Cristo, un amore così grande da prendere su di sé tutto il male del mondo e trasformarlo in grazia per l’umanità.

Quando lo Spirito TRASFORMATORE verrà, lui CONVINCERA’ il mondo, dice Gesù, riguardo al peccato, alla giustizia e al giudizio.
Mio Signore, quanto abbiamo bisogno di questo! Quanto abbiamo bisogno che il mondo si convinca!

Si convinca prima di tutto che è grazie all’opera dello Spirito che la potenza divina entra concretamente nella vita di ognuno ed ognuna di noi. Non cogliere questa presenza nella nostra vita, non prendere sul serio le prove di quell’amore infinito di Dio che entra nella finitezza della nostra vita, significa commettere il peccato più grave, quello imperdonabile che Gesù stesso chiama la bestemmia conto lo Spirito.

Il mondo si deve convincere che non c’è futuro per l’umanità senza la piena accettazione che è Dio che interviene nelle nostre azioni quotidiane e che ci ha dato la prova concreta della sua presenza nel suo Figlio Gesù.
In Lui ancora oggi noi sperimentiamo cosa significhi dire Spirito Santo: non un dio minore, spesso dimenticato, impalpabile, invisibile, irraggiungibile. Non un’immagine simbolica spesso raffigurata da una colomba o dal soffiare del vento. Anche oggi l’esperienza dello Spirito Santo vive di una concretezza palpabile perché tutto il suo agire rimanda a Gesù e a tutte le parole che ha pronunciato. E’ proprio grazie alla concretezza del Paracleto che Cristo si fa presente in mezzo a noi nella Parola e nei sacramenti. Modificando un’affermazione di un famoso teologo tedesco direi che “nel Paracleto, il Dio incarnato diventa il Dio presente”.

Non credere a questo significa cadere nell’errore di pensare che tutta la storia di Gesù si è conclusa con la sua ascensione al cielo e che ora lui è là seduto alla destra del Padre in attesa di accoglierci alla nostra morte. Un errore questo, che significa credere che Dio ha abbandonato questo mondo al suo destino. Un errore che significa aderire all’idea che tutte le nostre preghiere, i nostri culti, le nostre lodi siano rivolte al cielo solo in virtù del nostro essere credenti e buoni cristiani.

Fratelli e sorelle, in questa Pentecoste dobbiamo chiedercelo con forza: crediamo davvero che, grazie allo Spirito Santo, Gesù è qui, ora, in mezzo a noi? Non per un gioco di magia o per l’evocazione di un fantasma, non per una facile creduloneria o per una misera speranza. Se Dio oggi ci ha convocato qui, se oggi ci ha parlato in questo modo, se oggi ci chiama a spezzare il pane insieme, se oggi ci trasforma con la sua forza in uomini e donne nuove, allora SI possiamo dire senza timore che lo Spirito è con noi.

Gesù ha parlato dello Spirito come Spirito di verità.
Anche in questo lo Spirito trasforma; perché attraverso la verità rendi gli schiavi uomini liberi.
E’ questa libertà che oggi noi chiediamo al Signore, la libertà di poterci affidare a lui senza paura.
La libertà di poter dire di no a coloro che ci vogliono convincere che si può vivere benissimo senza Dio
La libertà di potersi opporre a tutte le malvagità del mondo, ai seminatori di morte, a coloro che violentano i corpi e le coscienze, a tutti quelli che tolgono la speranza.
La libertà di poter parlare anche quando si rischia la vita
La libera di opporsi a coloro che con ingordigia si appropriano delle cose degli altri. La libertà di costruire un mondo dove non ci sia più chi mangia tre volte al giorno e chi non mangia affatto.
La libertà di sentirsi dalla parte giusta quando siamo dalla parte degli ultimi. Carissimi questa è la nostra Pentecoste. Allo Spirito Santo Paracleto chiediamo di accompagnarci per mano verso quel Padre che ci attende a braccia aperte come figli e figlie sue creature volute ed amate. Amen!

Nicola Tetoldi