Io ti celebrerò, perché sono stato fatto in modo stupendo – culto a cura della FGEI

28 maggio 2017

 

Cari fratelli e care sorelle,

“Tu vedi un blocco di marmo, pensa all’immagine: l’immagine è dentro, basta soltanto spogliarla”. Questa è una celebre frase di Michelangelo, che abbiamo voluto associare a questa statua per iniziare il nostro culto di stamattina (proiezione statua). Michelangelo intendeva la materia come una prigionia, come qualcosa di più da cui liberarsi per poter far emergere la forma essenziale dell’umano e liberarla. Quest’idea dello scultore porta con sé la necessità di spogliarsi dal superfluo, appunto come una presenza soffocante e scomoda che impedisce la reale libertà.

Forse in maniera diversa, ma ancora oggi ci è rimasta quest’idea di un di più da eliminare per rispondere a qualcosa che ci viene chiesto per sentirci liberi e accettati, e rispondere alle aspettative di bellezza. Preparando questo culto ci siamo chiesti come giovani se e come abbiamo le nostre prigioni. Ci siamo interrogati se la reale prigionia sta nel dover coprire se stessi-e con un velo che lasci solo intravedere gli occhi, o se non è possibile farsi la barba perché non è da veri uomini una barba corta, o se dover rischiare di svenire sulla metro a giugno perché non si è mangiata colazione per poter indossare il costume nelle vacanze di luglio al mare, ed essere guardati-e dagli altri.

Qual è la reale libertà per noi? Forse non abbiamo le idee chiare su quale sia il ruolo del corpo. Da un lato c’è l’esaltazione del corpo come apparenza, come primo mezzo con cui ci si relaziona con gli altri, come prima carne su cui si possono gettare gli occhi. Dall’altra c’è la sottovalutazione del corpo, interpretato come un peso che ci impedisce di vivere la reale libertà spirituale che sta in noi, e per questo è necessario abbandonarlo sempre di più, trascurarlo per concentrarsi su qualcosa di realmente importante.

Una sociologa americana ha detto che il corpo è come un foglio bianco sul quale noi scriviamo la nostra storia, ma allo stesso tempo siamo scritti dagli eventi che viviamo e soprattutto dalla cultura che ci circonda. Scriviamo e siamo scritti…siamo attori ma allo stesso tempo diretti da un regista. E questo ci può rendere padroni-e del nostro corpo, ma a volte la situazione può degenerare e la storia purtroppo ci insegna che controllare un corpo vuol dire controllare la persona nella sua totalità. Siamo ogni giorno compressi dalla tensione fra l’AVERE un corpo, e l’ESSERE corpo. E in questa pressione ci aggiungiamo il modo di vivere il corpo, e vivere con il corpo. Poter esprimere le proprie sensazioni, le proprie emozioni…poter vivere realmente il corpo come il canale numero uno di incontro con il mondo.

Il salmo scelto per la preparazione di questo culto, però, ci consola e ci rassicura, dicendoci che Dio è sempre con noi ma non solo, è sempre stato con noi e ci conosce. Ci conosce sin da quando eravamo massa informe. Quindi massa, materia, corpo senza forma e non ancora delineato. Eppure anche allora Egli già conosceva i nostri giorni, potremmo dire il nostro cammino, la nostra personalità, la nostra identità, che qui appare intimamente legata al corpo. CORPO e IDENTITÁ, in tutte le sue forme e declinazioni.

“Io ti celebrerò perché sono fatto in modo stupendo”

Leggendo questo versetto del Salmo ci hanno attraversato due pensieri opposti. Il primo è andato a quei corpi che guardandosi in uno specchio non si riconoscerebbero stupendi, alle persone per cui il corpo diventa una prigione: i corpi umiliati dalla violenza, dal bullismo, dal cyberbullismo, corpi sfiniti dalla fatica da viaggi disumani, corpi schiavi di disturbi fisici o alimentari. Se torniamo a quel nesso di prima fra corpo e identità, corpo e spirito, fisico e psiche, l’esistenza di questi corpi umiliati, esclusi, emarginati rischia di diventare “brutta”, misera.

Ma concludendo il versetto 14 leggiamo “meravigliose sono le tue opere, e la mia anima lo sa molto bene”. Ed arriviamo al nostro secondo pensiero. Scoprendoci creature di Dio, creature di un Dio che ci ama che ci conosce, riscoprendo il rapporto con lui, ci riscopriamo meravigliosi e meravigliose. Questo amore libera il corpo umiliato, lo include in una bellezza universale che va oltre i canoni umani che sono limitato e ristretti, effimeri e variabili di epoca in epoca. È una scoperta che ci alleggerisce e ci aiuta a vivere più serenamente il rapporto con il nostro corpo, rapporto che può diventare complesso; è una scoperta che ci aiuta a riconciliarci con la nostra massa, la materia di cui siamo fatti e che spesso sottovalutiamo.

Il Salmo ci parla anche di un Dio tessitrice, che con pazienza e amore crea ogni singola parte di noi, sue creature, e affida a ciascuna di esse una funzione che sia equilibrata ed amata nel complesso. Dio tesse e noi formiamo un arazzo, e nello stesso tempo siamo creature che vengono intessute e che tessono a loro volta: tessiamo storie, relazioni, crisi, amori, amicizie e tessiamo luoghi dove possiamo incontrarci e riscoprirci nella nostra totalità come persone e creature uniche e stupende. Dio tesse noi e noi tessiamo con gli altri e le altre. Abbiamo un rapporto unico ed intimo con Dio, a tal punto che il salmista canta la sua presenza fin da quando eravamo informi. Dio ha tessuto cose stupende per noi, conosce le nostre storie e pre-conosce i nostri giorni che lui ha scritto e con pazienza attende che si verifichino…accompagnandoci ogni giorno con la sua presenza, con il nostro essere corpi vivi.

Lettura 19-24

Eppure spesso nel nostro essere limitati-e associamo impulsivamente due parole: Perfetto e stupendo. L’essere stupendi non vuol dire essere perfetti. Ma vuol dire anche saper riconoscere che la perfezione a volte la mettiamo nelle cose negative, come nell’odiare. Siamo spesso consumati dalla gelosia, dall’invidia a tal punto che creiamo in noi un odio perfetto che ci assorbe totalmente e ci aliena. Eppure questo non fa crollare il nostro essere stupendi. Questo è qualcosa di scritto con l’indelebile sui fogli bianchi dei nostri corpi. L’essere stupendi porta con sé l’accettare e saper di essere accettati con i nostri perfetti limiti e mancanze. Può succedere che accresciuti dalla presunzione di dover difendere Dio in ogni suo aspetto, ci ergiamo a suoi avvocati in terra, e ci lanciamo contro i SUOI nemici, facendoli diventare anche nostri e rompendo quella comunione a cui lui ci chiama in nome della sua creazione.

Dal farci giudici, ci riscopriamo però esposti al suo giudizio. Anzi, lo chiediamo. “Esaminami, conosci il mio cuore, mettimi alla prova, conosci i miei pensieri, vedi se c’è in me, guidami”. Un susseguirsi di verbi rivolti a Dio che concludono il Salmo con una richiesta di tessere di nuovo una intima relazione con Lui…quella che a volte con i nostri difetti tendiamo a soffocare ma non riusciremo mai a spezzare. L’ultimo verbo è proprio una supplica all’accompagnamento, all’essere sempre presente e di sostegno. A riconoscere la Sua onnipresenza non come un controllo che incute inquietudine o che richiede la perfezione, ma come una custodia, una protezione una sicurezza che ci sostiene. E ci accompagna ovunque i nostri passi ci conducano.

Fratelli e sorelle, vorremmo tornare a quest’immagine di Michelangelo con la quale abbiamo voluto aprire il nostro sermone. Guardandola, forse ci accorgiamo come il tentativo dello scultore di far emergere la perfezione spirituale, l’essenza, dalla materia sia un compito impossibile, che altro non fa che creare l’ennesima prigione mentale e fisica. Così come l’Atlante di Michelangelo ora si trova incastrato e soffocato dal marmo dal quale lo si voleva liberare. Il corpo vittima di un ideale di perfezione, che vive nella dualità fra corpo e spirito perde la sua potenzialità e fa affievolire l’intima conoscenza di Dio. Il nostro corpo non è solo un foglio, ma è un dono. È un luogo che racchiude e conserva il nostro essere persone. Ma senza il contenuto, questo contenitore si ritrova vuoto, involucro senza funzione. Ma il contenuto, senza contenitore diventa puro ideale effimero, incapace di lasciare un segno nella storia, o nei cammini quotidiani, o anche solo di vivere.

Allora cara comunità, che il Signore ci insegno a vivere la nostra corporeità come dono, come qualcosa di cui gioire e di cui essere fieri. Ma soprattutto ci ricordi il nostro essere CHIESA: assemblea di corpi riportati alla vita e alla speranza, che riscoprono insieme di essere un solo corpo, con le persone fratelli e sorelle che Dio ha chiamato insieme a noi. Che il Signore ci aiuti a ricordare ogni giorno il nostro essere stupendi, e a scriverlo sul foglio bianco del nostro prossimo, perché possa ricordarlo e riscoprirsi nella sua totalità corpo-spirito-identità. Persona amata voluta e conosciuta nella sua intimità da Dio. AMEN

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Giornata contro l’omofobia l’Opcemi in campo

Domani 17 maggio in tutto il mondo si celebra la giornata contro l’omofobia e la transfobia. Le chiese metodiste in Italia  da sempre sono in campo contro questa violenza che investe molte sorelle e molti fratelli in ogni angolo del mondo.  L’Opcemi, tramite il suo presidente, la pastora Mirella Manocchio, ha diffuso un comunicato stampa in cui denuncia con forza questa situazione di violenza e ribadisce con forza il proprio NO ai soprusi contro le persone lgbt.

Ogni giorno le cronache ci raccontano delle violazioni dei diritti umani in molte parti del mondo. Discriminazioni, violenze e persecuzioni per motivi religiosi, per differenze etniche e per l’orientamento sessuale. La ‘colpa’ consisterebbe nel non obbedire alla “normalità” imposta dai propri oppressori. Anche nella civile Europa le persone lgbt sono tuttora oggetto di violenze a causa di una diversa normalità. Le chiese evangeliche metodiste in Italia – attraverso l’OPCEMI, suo organo esecutivo – , in occasione di questa settimana in cui si celebra la giornata mondiale contro l’omofobia e la trans fobia, vuole denunciare con forza questa situazione e ribadire il proprio NO ai ripetuti soprusi e atti di violenza nei confronti delle persone lgbt. Atti che in alcune parti del mondo si traducono in condanne a morte; in torture e campi di prigionia come in Cecenia, in discriminazioni e arresti come in Russia, atti che mirano a ridurre al silenzio e alla eliminazione di qualsiasi forma di differenza, in modo specifico quelle relative all’orientamento sessuale e/o affettivo, in nome di una presunta normalità. Oggi noi condanniamo con forza ogni violenza e discriminazione sulle persone lgbt, e lo facciamo mossi dall’insegnamento di amore e accoglienza consegnatoci dall’evangelo di Gesù Cristo. Invitimo tutte le nostre chiese ad essere, sempre più, “santuari” di accoglienza e sostegno verso le persone lgbt e verso ogni persona raggiunta da discriminazione. La presidente dell’OPCEMI Mirella Manocchio

Diversità vive

14 maggio 2017

Matteo 21, 14-17

Cara comunità,
Oggigiorno, i giovani non hanno più valore. Nella società, non è loro lasciato spazio per pensare ad un futuro, non è permesso esprimersi totalmente, non trovano luoghi o situazioni nel quale lavorare per affermare la loro identità, non è possibile trovar stabilità lavorativa. Insomma, si è soliti dire “largo ai giovani” oppure “i giovani sono il nostro futuro” ma questi si trovano privati del loro presente. E non c’è bisogno di andare lontano, ma basta guardare fra le panche delle nostre chiese: sempre meno giovani. Si avverte un diffuso disinteresse e incapacità di rimanere sulle radici: magari fanno il catechismo per piacere ai genitori, o comunque non sentono loro quel percorso di fede che si è cercato più o meno di trasmettere in famiglia. Succede che quando qualche giovane decide di impegnarsi nelle chiese, lo si sommerge di aspettative, di ruoli o di responsabilità. Oppure, la reazione totalmente opposta: i giovani non hanno esperienza, sono troppo lontani dalle consuetudini ecc.., quindi meglio che aspettino per portesi prendere delle responsabilità. Vediamo che ci manca un po’ quella capacità di creare un equilibrio sul quale poter costruire un qualcosa in comune.
E in maniera simile, le nostre società non riescono a farsi portavoce delle persone definite come diverse: migranti, donne, comunità LGBT, disabili o portatori di handicap e la lista potrebbe proseguire. Là dove la personalità non corrisponde a dei canoni potremmo dire estetici o di produttività, ci si ritrova direttamente o indirettamente emarginati. E questo si ripercuote anche sulle nostre chiese e sull’attività quotidiana. Il detto “Il mondo è bello perché è vario”, rischia di trasformarsi in “il mondo è diviso, perché è vario”. Le ricchezze che le nostre diversità portano con loro, rischiano di essere schiacciate dai criteri che noi stessi ci creiamo, forse per tutelarci, per darci scurezza…E quando queste corrispondenze non si verificano viene a crearsi un principio di esclusione, che può degenerare in uno scontro: vecchi giovani, donne uomini, colonne portanti delle chiese e nuovi iscritti ecc…
Il racconto del vangelo di Matteo proposto per oggi si apre proprio con questa situazione di scontro. Gesù ha appena cacciato i mercanti dal tempio, criticando così non solo la loro azione di compra-vendita nella casa di Dio, ma soprattutto le persone che lo permettevano, cioè i capi dei sacerdoti e le èlites del tempio. In un momento di massima tensione fra Lui e coloro che lo circondano, egli dirotta l’attenzione sulle parole dette dai bambini, persone giovani e ritenute inesperte, per far risuonare il loro annuncio di speranza nel tempio. L’azione di Gesù porta con sé un nuovo modo di vedere la realtà. Egli in pochi versetti: purifica il tempio, riporta l’attenzione dell’uditorio sulle funzioni da compiere al suo interno e rivaluta le persone che li si trovano. È proprio quest’ultima azione che ci viene descritta nei versetti dal 14 al 17, ovvero un avvicinarsi di Gesù alle persone scartate dalla società, per prendersi cura di loro con i primi (zoppi e ciechi) e dare voce ad altri, come i bambini. Gesù fa una scelta in linea col suo ministero basato sull’amore del prossimo: egli decide di qualificare gli esclusi, creando loro uno spazio non solo nel regno dei cieli, ma già sulla terra. Questa sua scelta scombina la tradizione e indigna la classe dirigente, e facendo ciò altri sono allontanati. Si potrebbe trovare l’eco di questa storia nel dire: “Là dove due o tre si radunano nel nome di Gesù, un quarto è escluso”. Là dove Gesù crea uno spazio sulla terra per gli esclusi, altri si escludono: dove zoppi e ciechi sono guariti e assumono una nuova identità, i mercanti sono cacciati e i sacerdoti si allontanano dal messaggio di Gesù. Chiaramente la difficoltà oggi di pensare al fatto che il discorso di amore di Gesù non sia accolto da tutti, o che a volte il suo agire sia esclusivo, ci spiazza. Siamo soliti parlare e predicare un Gesù venuto per tutti e tutte, senza pensare che non sempre le sue parole sono state la fonte di integrazione, ma di esclusione come per i mercanti o di auto-esclusione, come per i sacerdoti. Forse è compito nostro oggi riconoscere che la venuta di Gesù ha cambiato le carte in tavola, e non tutti sono disposti ad accettare questo cambiamento. L’universalità di Gesù trovò allora e trova ancora oggi terreni non fertili, porte che vogliono restare chiuse.
Però questa è la chiesa di Gesù, ed è anche la nostra. E forse ciò che il Vangelo ci chiede oggi è di provare a vivere la chiesa, creando un dialogo ed un ascolto genuini e reciproci ricordandoci le parole che abbiamo ascoltato prima sempre nel vangelo di Matteo, cioè che le grandi cose a Dio è piaciuto rivelarle ai piccoli, coloro che vivono nella semplicità e nella sincerità. Il centro del brano di oggi, è l’atteggiamento di Gesù: un tentativo di reintegrare coloro che sono esclusi all’interno della chiesa di Dio, facendole sentire allo stesso tempo parte della creazione divina, in quanto persone, ridando a loro una speranza e un nuovo ruolo consapevole. Il Vangelo ci chiama ad essere costruttori-trici di pace, ma questo non corrisponde ad essere perfetti. Oggi siamo chiamati ad essere soprattutto tessitori di relazioni: quelle stesse relazioni che poi costituiscono le basi della chiesa, che siano la fonte dell’energia di cui abbiamo tutti e tutte bisogno. La chiesa, quindi, si dovrebbe pensare come il luogo di incontro fra persone portatrici di differenze: siano di cultura, di storie di doni…differenze che non siano fonte di divisione, ma valorizzate agli occhi di Dio, poiché parte della sua creazione varia e splendida allo stesso tempo.
L’appello che ci rivolge il vangelo con la storia di stamattina è di creare spazi di accoglienza e di annuncio, senza cancellare le differenze che ci caratterizzano. Fare ancora nostro il progetto di accoglienza che Gesù rivolge a quelli che la società del tempo, ma forse non solo, definiva gli outsiders, e creare nuove strade comuni consapevoli dei nostri limiti umani. E probabilmente non c’è luogo più adatto delle nostre chiese per ripensare a questi percorsi: luoghi dove il vangelo annunciato si incarna in una realtà sempre più interculturale, e intergenerazionale. E oggi qui ne abbiamo un esempio, nel gruppo degli studenti LINFA, il laboratorio interculturale di formazione e accoglienza. Loro incarnano il senso del sermone di oggi, cioè che nelle loro diversità che li caratterizzano, possano lavorare per creare dei luoghi metodi e materiali per costruire una chiesa insieme. Luogo che accolga le differenze e trovi in loro una ricchezza e non un motivo per separarsi.
Se ripensiamo alla storia della vocazione di Samuele, letta poco fa, questa ci insegna che è stato Eli per primo capace a riconoscere la chiamata che Dio stava rivolgendo a Samuele. Solo parlandone e confrontandosi con qualcuno diverso da sé, Samuele ha avuto la capacità e la fiducia di dire a Dio: “parla, poiché il tuo servo ti ascolta”. Questo ci invita a ripensare ad una leadership positiva: là dove ci si trova nelle chiese a costruire percorsi che mettano insieme pezzi di storie anche estremamente differenti, è necessario che si creino figure di leader positivi, che sappiano avere uno sguardo lungo ed esterno, per gestire le crisi e i conflitti. La storia di Samuele ci presenta così un sacerdote come Eli che con la sua esperienza, riesce ad indirizzare Samuele a riconoscere la chiamata di Dio ed accettare la sua vocazione.
Cari fratelli e sorelle, il racconto di Matteo si conclude con l’apice dello scontro fra Gesù e i suoi avversari, con le conseguenze che sappiamo. La possibilità che è data a noi oggi attraverso queste parole, è di essere trasformatori delle situazioni di scontro in quelle di comunione fraterna. Un progetto senza dubbio complesso e lungo una vita, ma che può proprio partire da come ci è rappresentato Gesù al versetto 14: egli si prende cura e dà voce agli emarginati. Cercare di imitare quello che fece Gesù, per poter ogni giorno scommettere su di noi e sulla nostra realtà di credenti e di chiesa, provare ad aspettarci l’un l’altro, parlare con semplicità e ascoltandosi, ma soprattutto riconoscendo nell’altro-a un pezzo del volto amorevole di Dio. Solo provandoci e credendoci, potremmo riuscire a fare nostro e gridare come chiesa insieme, la confessione di fede che Matteo mette qui in bocca ai più piccoli: “Osanna al figlio di Davide”.
Ritornando un’ultima volta alla storia di Samuele, ci è detto che a quel tempo le visioni erano rare e la parola di Dio non si faceva udire. Forse, fratelli e sorelle, la crisi che viviamo oggi ci sembra insuperabile, ma come dice questa storia, l’agire di Dio è sorprendente ed inatteso, e ci viene chiesto di vivere nella fiducia che nessuna delle sue parole andrà a vuoto. Che il Signore ci aiuti a sentire ogni giorno di nuovo la sua Parola e ci aiuti a metterla in pratica come credenti, come chiesa, come singoli e singole amate da Dio e chiamate ad amarci gli uni gli altri. AMEN.

Gabriele Bertin