Di fronte al Risorto

Atti 17,32-34
Negli ultimi anni sono uscite diverse indagini sociologiche sulla fede cristiana nella popolazione italiana, oppure tra i giovani. Com’è noto, da tutte queste inchieste emerge che il numero delle cristiane e dei cristiani è in diminuzione e ben presto anche il nostro paese, come già accade in molti altri stati europei, sarà a maggioranza atea o indifferente. Se, però, a questa prospettiva ci siamo volenti o nolenti abituati, perché appunto non costituisce una novità, vi è un dato statistico che, almeno a prima vista, può stupire: tra le persone che si dicono cristiane, una buona percentuale dichiara di non credere che i morti risorgeranno. Si considerano, cioè, credenti in Dio, ma non fanno propria la fede nella risurrezione. Non è un po’ strano, visto che l’attesa della risurrezione dei morti conclude il Credo comune a tutte le chiese cristiane?
Il libro degli Atti ci presenta Paolo impegnato a predicare ai cittadini di Atene, che sono dipinti un po’ come molti nostri contemporanei. Non sono necessariamente nemici della religione, ma sono politeisti: c’è un Dio per ogni cosa, per ogni bisogno religioso. La religione, praticata o mno, caratterizza la città di Atene, ci sono statue e altari un po’ dappertutto. Paolo, in realtà, non è molto edificato da questa situazione: è un ebreo e non sopporta le statue e gli altari degli idoli. Anziché, però, lanciarsi in una polemica contro la religiosità degli ateniesi, fa un tentativo audace. Menziona uno dei molti altari che aveva visto in giro per la città, dedicato: al dio sconosciuto; vedete, dice, alla fine per voi Dio è uno sconosciuto. Ebbene, io ve lo presento, è il Dio di Israele, il Dio di Gesù (che non è mai nominato esplicitamente, ma solo in modo indiretto), il Creatore del cielo e della terra, l’unico, vero Dio. Persino i vostri poeti (cioè la cultura greca: avrebbe potuto aggiungere i filosofi) in qualche modo l’anno intuito, come brancolando nel buio. Paolo vuole essere incoraggiante, anche se forse intende solo rendersi simpatico: siete sulla buona strada per arrivare alla verità, ma l’ultimo passo non lo potete fare voi, lo fa Dio stesso, che vi viene incontro.
Proprio per parlare di quest’ultino passo, tuttavia, Paolo allude a Gesù, come colui che Dio ha risuscitato dai morti. E qui succede il patatrac: la parola risurrezione sembra assurda, superstiziosa. I Greci avevano le loro idee sull’aldilà; il nostro tempo ha le proprie, una delle quali è che non esiste alcun aldilà. In ogni caso, parlare di risurrezione appare balordo: a volte persoino ai credenti, come abbiamo visto a proposito delle indagini sociologiche.
Qual è la radice di questo scandalo? E’ abbastanza semplice. Fin quando si discute se da qualche parte c’è un Dio, se esiste un essere supremo, in fondo si parla pur sempre in generale, in termini che oggi potremmo definire da salotto. E’ il tipo di discorso che piace agli ateniesi, i quali amano, secondo Luca, confrontarsi su questi temi. Se però si parla del Dio che risuscita i morti, la mia immaginazione entra i crisi. Che cos’è la risurrezione dei morti? Come me la devo immaginare? E se non riesco a immaginarmela, vuol dire che si tratta di frottole. Paolo invece vuol dire: il Dio che risuscita i morti è lo stesso che è presente in questo mondo, nella natura, nella storia. Non è il Dio delle statue o degli altari, ma quello che io, Paolo, in questo momento vi annunzio. Gli ateniesi non prendono sul serio il messaggio della risurrezione, perché in realtà non hanno preso sul serio neanche il resto del discorso di Paolo, che non è filosofia (anche se può parlare il linguaggio della filosofia), bensì, come egli stesso dice, annuncio.
La fede cristiana è nata, e anche oggi nasce, quando donne e uomini sono confrontati con il messaggio pasquale: egli, Gesù, non è nel sepolcro, bensì è risorto. Pasqua, cioè, è la chiave per comprendere ogni parola e ogni gesto di Gesù. Poiché Dio ha risuscitato dai morti il predicatore di Nazareth, il suo messaggio, i suoi gesti, la sua stessa persona assumono un significato nuovo e decisivo. Mettere tra parentesi Pasqua, significa mettere tra parentesi il vero significato di Gesù, significa ridurlo a un saggio tra i tantoi della storia dell’umanità.
Che fare allora? Devo sedermi con la testa nelle mani e cercare di convincermi che davvero Gesù è risorto, anche se non ci credo? Oppure devo far finta di crederci, anche se non ne sono convinto? No, le bugie non portano da nessuna parte e quelle a se stessi sono ancora più pericolose di quelle raccontate agli altri. In fondo, anche le donne che hanno trovato il sepolcro vuoto, anche la Maddalena che, secondo alcuni racconti, è stata la prima incontrare il Risorto, anche gli altri discepoli hanno dunitato. Forse le fede nella risurrezione di Gesù, che secondo la Bibbia è l’anticipazione anche della nostra risurrezione, non può essere accolta nel nostro cuore una volta per tutte. Forse la tentazione dell’incredulità si presenta quando meno ce l’aspettiamo. E mi piace pensare che sia per questa ragione che Gesù risorto ripeta così spesso: non abbiate paura! Non abbiate paura, nemmeno della vostra incredulità.
Quello che realmente possiamo fare è uscire dall’atteggiamento di superficiale curiosità che caratterizza gli Ateniesi: sentiamo un po’ che cosa ha da dire costui, facciamo l’ennesimo talk show, l’ennesimo dibattito. Paolo pone di fronte l’azione di Dio: nel mondo e in Gesù Cristo. Quello che possiamo fare è porci di fronte a questo messaggio non come spettatori curiosi, ma come coloro ai quali Dio ha pensato ispirando Luca a scrivere questo racconto. A voi è annunciata oggi la verità di Dio in Cristo risorto. Né l’apostolo Paolo né, tantomeno, io, possiamo convincervi. Accogliete questa parole come una sfida e sostate di fronte ad essa. Il resto, lo farà Dio stesso.
Amen
prof. Fulvio Ferrario

Pastori e greggi, greggi e pastori

“Voi, pecore mie, pecore del mio pascolo, siete uomini. Io sono il vostro Dio, dice il SIGNORE”. La nostra traduzione è più patriarcale del testo che traduce. Potremmo renderlo così: “Voi siete il mio gregge, voi siete il gregge umano del mio pascolo –  e io sono il vostro Dio, oracolo del Signore Dio.” E’ una forte rilettura della formula “Io sono il vostro Dio – voi siete il mio popolo” che tante volte esprime il vincolo tra Dio e quelli che ha liberato dalla schiavitù. Per Dio, essere Dio significa essere pastore – il popolo è un gregge che si fida del suo Pastore.

Prima di questa solenne conclusione, di questo evangelo per le pecore disperse di Israele e per noi, il profeta dice molte altre cose da parte di Dio.

C’è innanzitutto una dura invettiva contro i cattivi pastori, quelli che il gregge non solo non l’hanno curato, ma lo hanno oppresso  e hanno pensato solo a se stessi: interesse anziché dedizione, sfruttamento anziché servizio. E’ innanzitutto una critica politica: sotto di essa cadono gli ultimi re di Giuda e di Gerusalemme, la loro corte e i loro sostenitori. Sono state le loro scelte sbagliate a provocare la rovina del popolo, come succederebbe se il pastore non si curasse del gregge o peggio lo opprimesse.

L’applicazione del discorso ai capi preme sulla metafora. Se nella pastorizia normale non c’è nulla di male a tosare le pecore per averne  la lana, nel ricavarne latte e da qui latticini, e anche carne, ad un certo punto, le parole del profeta sono già fuor di metafora e mettono al centro dell’attenzione un popolo trascurato, considerato solo nell’interesse di chi dovrebbe esserne pastore, strumentalizzato, angariato e alla fine abbandonato.

Varie volte nella Bibbia – e anche nel mondo intorno a Israele – il pastore è una metafora per il (buon) re.  Davide (2 Sam 5,2) a questo è stato chiamato. Anche il re persiano Ciro è stato unto da Dio (Is 45,1) per essere “il mio pastore” (Is 44,28), cioè un buon sovrano, a quel fine messo sul trono.  Quando i re non sono buoni pastori, il popolo è ridotto a vivere “come pecore senza pastore” (Num 27,17; 1 Re 22,17//2 Cr 18,16).

Anche la dedizione e la fedeltà di Dio sono descritte con l’immagine del pastore, che ha cura del suo popolo: il Dio che “siede sopra i cherubini” è il Pastore che guida Israele come un gregge (Sal 80,1). “Il Signore è il mio pastore, nulla mi mancherà …” (Sal 23) dice anche il singolo …

Non dobbiamo avere del pastore un’immagine sdolcinata, agreste,  da scenetta di campagna con agnellino e pastorella, da pubblicità del “Mulino banco”, Ma nemmeno quella contemporanea: autocarri per spostare il gregge, innocue palizzate elettrificate che tengono unito il gregge senza nuocergli … ai tempi di Ezechiele, per il pastore il  suo gregge era tutta la sua vita, il suo pensiero costante, la sua cura e preoccupazione quotidiana. Per esso doveva non solo faticare, ma anche essere preparato, e sempre pronto … ma anche esporsi, rischiare, a volte la vita …

Sembra esserci una frase stridente,  nel programma di Dio che si presenta a soccorrere le sue pecore: “distruggerò la grassa e la forte:  …” In varie versioni si legge infatti “custodirò la grassa e la forte”. “Distruggerò” potrebbe essere dovuto ad una svista dei copisti, che hanno confuso due lettere molto simili … Ma potrebbe anche essere l’anticipazione di un discorso che viene più avanti, nella parte di testo che è stata saltata. Qui compare – forzando la metafora delle pecore e del gregge – il conflitto all’interno del gregge: non ci sono solo cattivi pastori, ma anche pecore prepotenti che “spingono con il fianco e con la spalla e cozzano con le corna tutte le pecore deboli finché non le hanno disperse e cacciate fuori …” (v. 21). Dio deve non solo condannare i cattivi pastori, ma anche “giudicare tra pecora e pecora” … (v. 22)

I guai del gregge non vengono solo da sopra o da fuori, ma anche da dentro … l’antica metafora del potere regale, del governo monarchico sembra acquistare ancora maggior forza per noi, che nei nostri sistemi occidentali non siamo – o non dovremmo essere – pecore incerte e sottomesse che aspettano guida, ma uomini e donne responsabili che si scelgono i loro pastori … I pastori oggi assomigliano molto di più alle pecore che devono guidare di quanto non avvenisse nella metafora di Ezechiele. Riascoltare le sue parole non ci deve spingere nella canea dell’antipolitica, ma ci deve portare a vedere nella crisi – la crisi delle nostre democrazie rappresentative parlamentari – un momento di giudizio, sui pastori e sulle pecore … Non al lamento o all’invettiva contro altri, “gli altri”, “loro …”, “quelli …”, “i politici …”, ma alla faticosa ricerca della “buona politica”, che è fatta di pecore non prepotenti e di pastori dediti.

La cosa vale anche per le chiese e i loro pastori, a cominciare da chi vi parla … Anche qui la crisi non deve spingere al rimpianto, allo scoramento, alla polemica. In una sola cosa la chiesa differisce dal mondo in cui vive e i cui umori investono anche i suoi membri: essa sa, tanto più nei momenti di crisi, di sbandamento, di fallimento e sì, anche di colpa,  che il suo cammino è guidato dal Pastore con la maiuscola, che può contare sulla dedizione di Dio, che cerca chi è perduto, cura chi è ferito, risolleva chi è caduto, sostiene chi è debole, come corregge chi sbaglia e condanna “chi pasce se stesso” …

Lo sa … dovrebbe saperlo … ma lo dimentica. Le viene però ricordato, da un parola che viene da lontano. Lo fa oggi il discorso sui cattivi pastori e sul buon Pastore che il lezionario prevede per questa seconda domenica dopo Pasqua chiamata da secoli “misericordias Domini”, “le misericordie di Dio”,  “Per sempre voglio cantare le azioni misericordiose di Dio”,  “misericordias Domini in aeternum cantabo” (Sal 89,1 nella nostra versione). Questa parola che viene da lontano – ma anche da alto! – è ciò di cui abbiamo bisogno, pecore smarrite, pecore litigiose, con cattivi pastori, senza pastore, pecore ferite o arroganti. Nella crisi, questa parola ci fa apparire come siamo e smaschera tutte le nostre scuse, e quando ci ha fatto aprire gli occhi ci annuncia la dedizione di Dio per il suo gregge umano, che gli non lascia in preda ad altri e non abbandona a se stesso.

Amen

prof. Daniele Garrone

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Un’eredità musicale di fede e testimonianza

da Riforma

Seminario online del Progetto di animazione musicale metodista, aperto a tutte e tutti, anche non musicisti

«In passato, il popolo metodista è stato formato dal vocabolario teologico e dall’espressione poetica degli inni wesleyani, attraverso i quali è stata trasmessa gran parte della dottrina metodista: amore per Dio e per il prossimo attraverso una fede in azione che è testimonianza al mondo.

Gli inni sono stati fondamentali per il culto e la spiritualità metodista – scrive il maestro Antonio Montano, referente del Progetto di Animazione musicale metodista dell’Opera per le chiese metodiste in Italia/Opcemi, annunciando un’importante iniziativa – e oggi desideriamo riappropriarci di questa tradizione e del patrimonio musicale protestante coniugandolo con lo spirito dell’attualità per aiutare le nostre chiese locali, le reti locali di donne e uomini credenti, a testimoniare la fede attraverso il prezioso strumento che è la musica».

Così a tal proposito, il Progetto di Animazione musicale ha organizzato un seminario dal titolo «La musica in chiesa. Alla scoperta dell’eredità musicale metodista e oltre» che, a causa della persistente emergenza da pandemia, si svolgerà in modalità telematica, il prossimo sabato 24 aprile dalle 16 alle 18 su zoom.

«Il Seminario – prosegue il testo di presentazione – riguarderà vari temi relativi alla musica nella chiesa e all’innologia nelle diverse epoche con interventi dei professori della Facoltà valdese di Teologia Daniele Garrone e Enrico Benedetto, del pastore emerito della Chiesa metodista di Gran Bretagna Tim Macquiban, della cantautrice Naomi Cino, e della presidente dell’Opcemi, pastora Mirella Manocchio.

Per partecipare non è indispensabile essere musicisti: l’intenzione del progetto, infatti, è iniziare un percorso per stimolare le persone all’interno delle nostre chiese, che amano la musica e credono che questa possa essere un veicolo di evangelizzazione, ad approfondire la conoscenza e la storia delle nostre tradizioni musicali, ma anche a fornire utili strumenti pratici di animazione per diventare, qualora lo desiderino, animatori e animatrici musicali.

Potete trovare i link per i collegamenti zoom sulla pagina facebook dell’OPCEMI e sul sito (www.metodisti.it). Vi chiediamo, per fini organizzativi, di scrivere per fare sapere la vostra partecipazione ai seguenti indirizzi di posta elettronica: metodismo@chiesavaldese.org e animazionemusicalemetodista@chiesavaldese.org».

Il Risorto incontra i suoi discepoli

Giovanni 21,1-14

Domenica dopo domenica eccoci qui riuniti a lodare Dio, a confessare il nostro peccato, soprattutto eccoci ad ascoltare la Parola del Signore…
Lo facciamo anche oggi che la Pasqua è appena passata e che siamo sommersi dalle preoccupazioni per una pandemia ancora non sconfitta e per una profonda crisi economica e sociale che scuote il nostro paese e tante altre nazioni.

In questo contesto a volte viene da chiedersi se e quale può essere il nostro ruolo come piccola chiesa protestante?
E in tal senso quale attinenza può avere questo racconto di Resurrezione con la nostra realtà quotidiana di credenti e di cittadini?

Nel passato molti padri della chiesa greci e latini, molti esegeti e commentatori, si sono arrovellati sulle figure di Pietro e del discepolo che Gesù amava e su chi avesse il primato tra di loro all’interno della chiesa primitiva, si sono interrogati sulla simbologia dei numeri qui citati come quel centocinquantatrè dei pesci pescati, o ancora se questo capitolo sia stato o no aggiunto all’originale giovanneo da un lavoro redazionale successivo…

Ma oggi non ci interrogheremo su tali questioni, seppur importanti.
Oggi vorrei focalizzare la vostra attenzione sul perché il Signore appare ai discepoli da Risorto per la terza volta…

L’azione si svolge sul lago di Tiberiade dove già i discepoli avevano visto Gesù in azione tante volte da vivo.
Sette dei dodici discepoli si trovano insieme, ma sembrano essere svuotati, privi di idee…Allora Pietro prende l’iniziativa e decide di andare a pescare. Gli altri lo seguono e così cominciano una pesca notturna che però si rivela infruttuosa: non prendono nulla.

Al mattino del nuovo giorno ecco che si presenta Gesù sulla riva del lago e inizia con loro un dialogo…
Non è singolare fratelli e sorelle, Gesù da risorto incontra i suoi discepoli mentre stanno pescando che è proprio quel che secondo i vangeli di Matteo e Marco facevano la prima volta che li aveva incontrati!!

In effetti, questo racconto sembra presentare i discepoli che compiono il cammino opposto a quello che Gesù aveva proposto loro all’inizio: dal pescare pesci all’essere pescatori di esseri umani, dalle reti alla sequela.

Anche all’inizio del vangelo di Luca quando i discepoli incontrarono Gesù la prima volta troviamo una “pesca miracolosa” ma in un senso completamente diverso: quella apriva la storia del loro rapporto con il Gesù terreno, questa sembra marcarne la conclusione.

L’emblematica figura di Pietro riassume la frattura che è avvenuta tra i discepoli e il loro Maestro, i molti sentimenti che si scatenano in loro:
– il senso di colpa per non averlo capito prima della croce,
– il fatto di averlo tradito con le parole o con l’assenza,
– il senso di vuoto per non aver compreso la portata della sua missione, neppure dopo l’annuncio della risurrezione da parte di Maria Maddalena.

Eppure anche questo tornare indietro al vecchio lavoro risulta problematico. Come accade ad un immigrato che torna dopo tanti anni nella sua madre patria, così pure i discepoli che tornano all’antico contesto lavorativo non vi si trovano più a loro agio.

Se dovessimo tracciare un parallelo tra noi e i discepoli probabilmente non ci riconosceremmo in loro quando seguivano Gesù nei momenti “alti” del suo ministero, ma più facilmente in quelli ora descritti: un certo senso di frustrazione nelle cose che si fanno, la consapevolezza dei tradimenti fatti e/o subiti, i “non luoghi” in cui passiamo tante ore e tanti giorni della nostra esistenza…

Ma cosa provoca lo scoraggiamento dei discepoli?
Oltre all’annuncio della resurrezione da parte della Maddalena, Gesù è apparso già due volte da Risorto ai discepoli eppure sembra che nulla sia accaduto…
Quante volte anche noi abbiamo sentito il racconto e l’annuncio della resurrezione, ma poi siamo tornati a vivere al solito modo facendo sempre le solite cose nella convinzione di essere soli a dover tirare avanti la baracca?
E così la rete rimane vuota e lo sconforto si moltiplica: tutta la notte a pescare e nemmeno un pesce che abbocchi…
In questa situazione agitata e di svuotamento, di rassegnazione al giornaliero “buscarsi il pane per sopravvivere”, spicca all’alba del nuovo giorno ritta in piedi sulla riva del lago la figura di Gesù. Gesù mentre cucina e mangia il pesce con loro e ripete quelle azioni con cui distribuiva pane e pesci alla folla che lo ascoltava o mentre spezzava il pane e offriva il vino nell’Ultima Cena.

Tornando quindi alla domanda iniziale sul perché Gesù Risorto si fa presente ai discepoli per la terza volta? Semplicemente perché capisce che ne hanno bisogno visto non hanno ancora capito e creduto davvero.

Il Cristo risorto è presente non in modo astratto, ma reale tra i suoi proprio nei momenti di confine e di scoramento.
E così, in modo inspiegabile ma con gesti semplici, Egli appare al gruppo di uomini sfiduciati per dare loro coraggio. Ma non si limita a questo, non si limita a dare loro una pacca consolatoria sulla spalla.

Quando tutto sembra inutile, Gesù appare sulla scena e la storia riparte da dove sembrava essersi interrotta: la rete si riempie di pesci e il mangiare insieme con il Signore segna la rinascita della comunità, segna l’invio in missione.

In effetti, quel che è in gioco è la relazione tra Gesù, non più solo Maestro ma Signore, e i suoi discepoli e le sue discepole, coloro che compongono la chiesa.
E questa relazione si esprime nel riconoscimento.

Gesù riconosce i discepoli come suoi amici e li chiama affettuosamente ‘ragazzi’; i discepoli riconoscono il loro Maestro quale Signore ed è a partire da ciò, come per Maria Maddalena, che scaturisce il riconoscimento di sé stessi e della missione che li attende.

Nel ripetere le azioni della sua missione terrena crea una sorta di continuum spazio-temporale – come direbbero i film di fantascienza – tra la sua vita di prima con loro e questa nuova vita che li attende tutti.

La storia non è finita, ma prosegue nell’oggi quotidiano dei discepoli perché egli è vicino a loro in ogni momento e in ogni luogo, non solo nei recinti sacri di un tempio o di una chiesa dove noi vorremmo racchiudere il nostro rapporto con il Signore.

E nel far questo il Risorto crea anche la chiesa quale comunità di credenti redenti dalle loro paure e chiusure, dal loro peccato. Una comunità cui offre un senso nella missione: vivere uniti nella fede in lui e nella condivisione, e fare lo stesso con gli altri.

Ecco cosa offre oggi il Signore a noi tutti quando la Pasqua è appena trascorsa e noi siamo tornati alle nostre attività come se nulla fosse.
Tutto sembra uguale ma tutto è cambiato e noi possiamo operare non scoraggiati, ma fiduciosi nel mondo; senza gesti plateali e altisonanti, ma come fa Gesù con piccoli semplici gesti.

Uno sguardo empatico ed attento agli esclusi, una parola di conforto a chi è nella disperazione, lo spezzare il pane con il bisognoso, la fiduciosa speranza che Dio ci è accanto per amarci e donarci salvezza.

Ecco cosa può allora significare anche per noi uomini e donne moderni vivere ogni giorno come se fosse Pasqua.

In un mondo in cui la globalizzazione di merci e finanze e la massificazione dei modelli culturali fanno da pendant alla frammentazione del tessuto sociale, a una sempre maggiore esclusione di tante popolazioni dal benessere economico e dalla giustizia sociale, in cui la funzione economica finisce con l’inghiottire la dimensione umana, noi non possiamo chiuderci nei nostri angusti confini fisici e mentali, semmai possiamo e dobbiamo proporci come uomini e donne capaci di atti di accoglienza e di liberazione gratuiti.

Annunciare che Gesù è risorto vuol dire che non dobbiamo cercarlo nei sepolcri del passato, dove ritenevano di trovarlo i discepoli e Maria Maddalena.
Egli ha abbandonato i cieli ed ha scelto le nostre case, le nostre città, come sua dimora. Per questo la speranza pasquale rimette in moto quanti sono delusi e rassegnati; passa attraverso i muri delle nostre divisioni ed inimicizie; diventa Parola che annuncia la pace, che vince la nostra incredulità.

Il Risorto cammina accanto ad ognuno di noi, ci sostiene nelle nostre fatiche, percorre le strade della nostra città, ci rialza quando siamo abbattuti per proseguire il cammino. Non siamo soli, il nostro quotidiano è abitato dal Signore… Nella strada che sembrava interrotta dal macigno della morte, egli ha aperto un sentiero nuovo sul quale ci precede.

Amen

Preghiera:

Dio nostro Padre, che per mezzo del sacrificio del tuo Figlio ci hai fatto rinascere a vita nuova, donaci di vivere con gioia i frutti della risurrezione, perché insieme, come comunità di redenti, possiamo ogni giorno essere annunciatrici ed annunciatori fedeli: Sì, il Signore è veramente risorto!

Così è! Amen!

Past. Mirella Manocchio

Osanna al Figlio di Davide

Zaccaria 9,9-10

Matteo 21,1-11

Care sorelle e cari fratelli nel Signore,

Il tempo della missione terrena di Gesù si conclude a Gerusalemme. I quattro evangelisti hanno tracciato e testimoniato la Sua entrata nella città con un carattere particolare. Molti pellegrini stavano arrivando per la festa di Pasqua, ma Gesù non era un normale pellegrino. Fino a quel momento era andato a piedi per le strade della Galilea, della Samaria, della Giudea, ma a Gerusalemme entrò solennemente, seduto sopra una cavalcatura.

Entrò come un re. Per fare questo, aveva due possibilità. I conquistatori entravano nelle città sottomesse seduti su un cavallo e completamente armati.

Gesù non prese neanche in considerazione questa possibilità e scelse invece la seconda: entrare in modo pacifico.

Nell’antichità, quando un re visitava il suo popolo, per dimostrare la sua intenzione di portare la pace, era consuetudine sedersi su un asino.

Di questo ha parlato il profeta Zaccaria: “Verrà un re che porterà a Gerusalemme una pace senza fine”. I pellegrini avevano dunque visto nell’ingresso di Gesù il compimento della profezia, l’arrivo della salvezza e della pace. Gesù, però, sapeva che il suo incontro con la città non sarebbe stato tutto trionfale; la sua missione terrena doveva concludersi con l’arresto e con la morte. Perché dunque accettare di entrare solennemente là dove dopo pochi giorni sarebbe stato disprezzato e ucciso? Ne valeva la pena?

Egli doveva arrivare nella città, ma per farlo avrebbe potuto scegliere un modo meno appariscente. Invece, vuole sottolineare il significato del suo ingresso; dare più valore alla profezia che al potere delle autorità umane. Sa che le autorità religiose e il potere romano non potranno impedirgli di far nascere, attraverso il dono della sua vita, una nuova umanità. Gesù ha scelto di donare la sua vita per una nuova umanità. Egli ha donato se stesso per creare una nuova citta. Egli ha donato la sua vita agli uomini e alle donne perché potessero essere felici. La felicità dell’essere umano sta nella sua scelta di stare dalla parte in cui la giustizia di Dio regna. Noi siamo qui per accogliere il nostro re.

Ogni domenica riceviamo in dono il pane cioè le parole che dona vita, un pezzo alla volta perché ne comprendiamo e ne portiamo con noi nell’arco della settimana. Purtroppo, capita molto spesso che non siamo come vorremmo essere, persone mature capaci di vincere le tentazioni che ci avvolgono e ci incatenano in questo mondo, ma per questo siamo qui, per ricevere le parole di grazia del Signore per una nuova umanità che aveva inaugurato al suo arrivo e per farne parte nella sua edificazione.

Da che parte vogliamo stare allora? Cominciamo a deporre le nostre armi e le nostre spade che fanno male e che creano divisioni e conflitti. Gesù ha donato la  pace come egli disse: “Vi lascio pace; vi do la mia pace, non vi do come il mondo dà cioè non ve la do come il mondo la dà”cfr Gv.14,27.

Gesù, il Re che gli evangelisti avevano parlato e il Messia che i profeti avevano annunciato,  è venuto per invitarci a scegliere di stare dalla parte dove c’è la vita.

Questo egli sa, a questo guarda, e lo afferma accettando il saluto dei pellegrini: «Osanna al Figlio di Davide! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Osanna nei luoghi altissimi!».

Oggi, come possiamo accogliere Gesù?

Il primo modo è ricordare che Egli è il benedetto, non perché riceve il bene, ma perché Egli lo dona. Cerchiamo di considerare che, per accogliere Gesù, dobbiamo sempre venire al culto come una comunità di principianti (as always a comunity of beginners). Possiamo così in questa maniera ricevere sempre la capacità rinnovata di osannare il suo Santo nome.

Il secondo modo è tener presente che egli viene:

Anche se nel tempo che viviamo sembra crescere sempre di più il buio che la luce, è giusto lodarlo, è giusto celebrare il culto con gioia, perché Egli ci concede di camminare insieme sotto la sua guida. E quando egli ci guida, la volontà di Dio diventa realtà e il cammino si fa chiaro.

Un anno fa  i cristiani si erano radunati per il culto della Domenica delle Palme a casa o nei luoghi limitati a poche persone. Un anno fa, non ci eravamo riuniti in questo tempio. Non avevamo i rami di olivo vicino al tavolo per la santa cena come abbiamo avuto per anni. Oggi è una benedizione essere qui insieme.  Intravediamo già la vita in mezzo alla morte. Qualche giorno fa, io e il nostro fratello Italo Grassi ci siamo sentiti per uno stesso motivo.

Ho pensato che, se non fosse venuto in chiesa a portare i rami di ulivo, sarebbero bastate poche foto di lui con loro sulle nostre slides. Noi stiamo continuando ad andare avanti, sperando che questo tempo di pandemia finisca. Noi supereremo tutto con l’aiuto del nostro Signore che sta operando nei scienziati, nell’agire dei vaccini, per salvare questa umanità.

Care sorelle e cari fratelli nel Signore, chi di voi legge ogni giorno(o spesso) il nostro libretto “un giorno una parola” si accorge che per oggi avrei dovuto condividere una riflessione sulla lettera agli Ebrei. E’ stata una mia scelta di prendere in considerazione il vangelo di Matteo per evidenziare l’occasione di questa domenica delle Palme e il significato per noi come una comunità di fedeli credenti, e anche per recuperare il vero senso della fede cui riponiamo in Dio sin dall’ora della fondazione del mondo. Ci tengo a ribadire che la nostra fede ha un fondamento in ciò che ha compiuto per molti di noi. In Eb.12,2-3: Gesù, colui che crea la fede e la rende perfetta. Per la gioia che gli era posta dinanzi egli sopportò la croce, disprezzando l’infamia, e si è seduto alla destra del trono di Dio. 3 Considerate perciò colui che ha sopportato una simile ostilità contro la sua persona da parte dei peccatori, affinché non vi stanchiate perdendovi d’animo.”

La fede è avventura di una vita consapevole di essere guidata dal Signore come fu per Abramo. Leggiamo al cap. 11:1-2: “Or la fede è certezza di cose che si sperano, dimostrazione di realtà che non si vedono. 2 Infatti, per essa fu resa buona testimonianza agli antichi.”

Il professore Corsani commenta  questi passi affermando che la fede è più che certezza o fiducia. Nella fede, già si realizza appieno la realtà, la sostanza stessa delle promesse, per l’assoluta certezza che il credente ha nella realizzazione delle promesse divine: in Cristo infatti questa realizzazione è già iniziata. La fede non ha bisogno di dimostrazioni o di prove: è essa stessa già radicata com’è in Cristo, la prova sufficiente, sicura per il credente.

I profeti hanno parlato del Messia, del Salvatore di Dio. E mise in atto il suo piano affinché il suo popolo fosse consolato e avesse la pace nei cuori. Purtroppo il cuore dell’uomo è incredulo. Il suo cuore non ha potuto accogliere pienamente questo dono. Dio ha donato un figlio di nome ‘il profeta dell’Altissimo’ perché preparasse le sue vie. Dobbiamo continuare a sperare in lui perché ogni giorno rinnovi questo insegnamento.

Vogliamo ricordare insieme questo evento, testimoniato nel testo di Matteo proposto per questa domenica delle palme e per la prima domenica di avvento, in modo da poter rinnovare la nostra gioia di ricevere il Santo di Dio, nostro salvatore e redentore, e guaritore delle nostre malattie.

Possa la nostra esaltazione del Suo Nome essere più dalla parte di chi si rende conto della sua mancanza di fede. Noi cristiani dobbiamo essere più consapevoli della nostra piena incapacità di adempiere ogni bene in modo da poter testimoniare che Gesù Cristo è stato donato da Dio ed è attraverso di Lui che siamo redenti dai nostri debiti.Riconosciamo Gesù come Re, in un modo che Gerusalemme non ha saputo fare. Dobbiamo sentirci di continuo mortificati da quelle severe parole che ci ricordano la superficialità dei nostri osanna: “Non chiunque dice: Signore, Signore! entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del padre mio che è nei cieli”. Signore, donaci il coraggio di compiere la tua volontà di amare il nostro prossimo come noi stessi. Così adempiamo tutta la tua legge. Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Amen.

 

Gli auguri di Pasqua 2021 della Moderatora

La Resurrezione di Cristo

1 Corinzi 15,1-11

 

Care sorelle e cari fratelli nel Signore,

nelle Filippine ci sono due tipi di Natale: Natività e Pasqua, il Natale non sarebbe completo senza Pasqua. L’insegnamento più importante del cristianesimo è la Pasqua della Resurrezione di Gesù Cristo. Noi riaffermiamo che i cristiani in tutto il mondo, oggi,  si riuniscono, oggi, nel giorno di Pasqua, per riascoltare e meditare la ragione perché predichiamo il Cristo risorto.

Il capitolo 15 tratta la resurrezione, il tema  più lungo sulla Resurrezione dei morti inaugurata da Cristo. Questa prima lettera di Paolo ai corinzi al cap. 15 versetti da 1 a 11 è fondamentale per noi perché dobbiamo essere grati, riconoscenti a quest’opera salvifica di Cristo compiuto una volta per tutti  come è scritto nei versetti 3 e 4: “Cristo morì per i nostri peccati, secondo le Scritture; 4 che fu seppellito; che è stato risuscitato il terzo giorno, secondo le Scritture;” mediante il quale siete salvati (v.2).  Certuni della comunità di Corinto non hanno creduto alla resurrezione dei morti come i saducei e i giudei. L’apostolo Paolo per giustificare la sua posizione rispose facendo riferimento a questa tradizione che aveva ricevuto. Parafrasando intendeva  “Il Nostro Signore Cristo Gesù è morto per darci una vita piacevole(degna da vivere e per volontà di Dio)”. Non siamo dunque diventati santi a causa delle nostre opere buone. Sostenne che ci furono”una moltitudine di testimoni”. Parlando ironicamente, indicava “se hai dei dubbi perché non chiedi a Pietro, Giacomo  e persino ai cinquecento fratelli, e gli altri che sono ancora vivi” L’autore (Paolo) aveva dimenticato che c’erano anche le donne.  Nel vangelo di Giovanni al cap. 20 una di queste tre donne, Maria di Magdala, vide il Cristo risorto.  Egli apparve a lei per la prima volta. Questo racconto lo sappiamo, dopo che ella vide il Maestro, il Signore Gesù, corse ai discepoli per annunciarlo.

In Questi passi, in primo luogo, teniamo in mente la tradizione tramandata dai testimoni oculari, coloro che avevano visto il Cristo risorto, poi in secondo luogo la testimonianza degli scritti nella Sacra Scrittura.  Oggi celebriamo perché attraverso questa memoria scritta riceviamo, nuovamente, questo dono ereditato. Siamo degli eredi viventi del Cristo vivente. Oggi ci richiama l’attenzione questa tradizione. “Vi ricordo, ipinapaalala ko sa inyo”.

Il risorgere del Cristo Gesù  è significativo per noi se lo crediamo veramente.

Cristo è risorto appare a molti, intravediamo Lui tra di noi. In che senso? Quando viviamo quella tradizione come ispirazione, movente che determina la nostra vita. La fede che c’è stata trasmessa acquisisce la vita, diventa vitale per la nostra vita quotidiana soprattutto nel nostro modo di agire e affrontare la situazione. Se ci fosse l’apostolo Paolo davanti a noi a predicare questo Vangelo della Resurrezione di Cristo ci avrebbe rammentato: “Ricordatevi di coloro che avevano testimoniato di averlo visto.  Ancor di più, ricordatevi dei vostri padri e delle vostre madri che vi avevano  istruiti ed educati nella fede.”

L’effetto della Resurrezione di Cristo nella nostra vita si manifesta quando Lui regna nel nostro vivere. Attenzione, la chiesa si deve sottoporre al regno di Cristo. Il regno di Cristo non si compie attraverso l’azione della chiesa; la chiesa non può regnare per conto di Cristo. Il regno di Cristo è più ampio della chiesa. Poiché Cristo regna, l’intolleranza e la violenza saranno vinte; il suo regno significa già oggi la possibilità di dialogare e di cercare insieme un futuro vivibile per tutti. Poiché regna il Cristo dobbiamo costruire i ponti per poter fare un dialogo, per ascoltarci a vicenda, fermi in una condizione pacifica. La Resurrezione di Cristo ci aiuta a rammendare le rotture per trovare tra noi la pace, la guarigione, e la vita. ( lottare per  vincere ogni tipo di morte).  L’apostolo Paolo scrisse nella sua seconda lettera ancora a Corinto al cap. 5 versetti 20-21: “Noi facciamo ambasciatori per Cristo, come se Dio esortasse per mezzo nostro; vi supplichiamo nel nome di Cristo: siate riconciliati con Dio.”

In questo brano prendiamo anche in considerazione la conversione spirituale dell’apostolo Paolo. Poiché molti ebrei si convertissero e  i pagani potessero essere raggiunti dalla predicazione della Resurrezione. L’essere di Paolo fu trasformato dalla grazia di Dio. Egli considerò se stesso l’ultimo di tutti, pervaso  dall’atteggiamento di umiltà. Dio in lui agì, operò come fu nel figlio Cristo Gesù perché il suo amore  misericordioso regni fra gli uomini e le donne che ascolteranno l’evangelo in Cristo e si convertissero.

Il cristianesimo è la vera religione perché in esso c’è la salvezza. Tutti quelli riconosciuti come capi religiosi sono morti come Buddha, Maometto ecc. Non sono vissuti tranne il Signore Gesù, è morto ed è risorto. Quindi tutti coloro che confessano la  fede in Cristo risorgeranno negli ultimi giorni. Che cosa ci chiede la Resurrezione del nostro Signore Gesù? Che cosa chiede la Resurrezione? Perché siamo qui e dobbiamo ancora alzarci presto solo per andare in chiesa e perché stiamo ancora facendo del bene e aiutando le persone bisognose. E  gli altri si svegliano la mattina per dare la colazione ai senzatetto e se solo la nostra unica speranza è per questa vita, siamo i più miserabili di tutte le persone. Forse è meglio per noi mangiare e dormire e domani moriremo e se non resuscitiamo i morti.

Ora che c’è una pandemia, molti di noi sono così spaventati dal virus che quasi non vogliamo andare in chiesa, ma la verità è che non abbiamo paura del virus ma abbiamo paura di morire. L’ultima arma di Satana per spaventare le persone è la morte, ma il nostro Signore Gesù ha già vinto la morte, quindi non abbiamo nulla da temere.

Care sorelle e cari fratelli, prima di concludere la mia riflessione vorrei ricordare con voi i nostri propri cari e le nostre proprie care. Coloro che avevano trasmesso la loro fede che conserviamo nei nostri cuori e nelle nostre menti i loro nomi. Io mi ricordo il fratello di mio nonno che era un pastore convertito dalla missione del vangelo nell’ambito del metodismo nelle Filippine, mi ricordo di mia madre che era la mia prima insegnante della Bibbia, mi ricordo della mia insegnante della scuola domenicale, mi ricordo di tante credenti che mi avevano lasciato in eredità la loro fede vissuta impegnandosi sia nella società sia nella chiesa. Mi ricordo anche dei convertiti, di coloro che si erano pentiti dai loro peccati per l’amore di Dio compiuto da Gesù e Paolo che era un persecutore dei seguaci di Gesù. Mi ricordo del criminale che era con Gesù quando fu pentito dal suo peccato.  «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». Gli rispose: «In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso». La nostra gioia sarà completata quando un giorno ci rivedremo nella nuova casa preparata per noi tutti coloro che dormono e rialzeranno per incontrarci. Ecco perché l’apostolo Paolo insiste nella sua predicazione dell’evangelo della  resurrezione. Buona Pasqua. Amen

 

pastora Joylin Galapon

 

 

 

Questo è il Re dei Giudei

Luca 23, 33-56

 

L’evangelista ci presenta il supplizio pubblico di Gesù Cristo, consapevole della distanza storica tra il suo scritto e i fatti. Più o meno, la stessa distanza tra noi oggi e la strage di piazza Fontana. Come in una buona trasmissione di RaiStoria, nonostante la distanza di tempo, il brutto fosso della Storia, possiamo ascoltare le voci di due testimoni che erano presenti e che avevano preso parte ai fatti. Il primo è un criminale, uno dei ladroni che sono giustiziati dalla macchina repressiva romana. L’altro è il centurione, cioè il capo del plotone d’esecuzione. Il primo afferma la giustizia di Cristo e il suo regno che viene. Il secondo glorificava Dio e rendeva testimonianza alla giustizia di Gesù Cristo. Questi due, il criminale e il boia, sono i soli che rendono onore alla verità espressa dal cartello sopra la testa di Gesù. Cartello che si può comprendere soltanto spaziando con lo sguardo sull’uomo di dolore che è appeso lì sotto.

QUESTO È IL RE DEI GIUDEI, è l’unica volta in tutta la Bibbia che questo riconoscimento a Gesù è esposto, a caratteri di scatola, alla vista di tutti. Sotto questo cartello c’è la croce, c’è Gesù che muore.

La croce di Cristo ha in sé questa sovversione della rivelazione di Dio e della nostra esistenza, facendoci scontrare con un Dio la cui “sconfitta” vincerà contro la “vittoria” delle potenze del mondo. Dio vince il peccato non facendolo scontare a noi, come sarebbe stato giusto, ma facendolo scontare a suo figlio che è giusto, come testimonia il centurione, che è senza peccato, come testimonia il ladrone, e che va volontariamente a morire. Mentre le forze del male si scatenano contro Gesù e si sentono vittoriose, proprio la morte di Gesù non segna la loro vittoria, ma il loro annientamento. Come un parafulmine, la croce assorbe in sé tutta la carica distruttiva del peccato e ne annulla gli effetti, e mentre il fragore e il bagliore della saetta esplodono con incredibile intensità, proprio in quel momento i loro effetti sono annullati, le unghie del diavolo sono tagliate, il peccato non avrà più l’ultima parola. Le potenze hanno scaricato le loro armi su Cristo crocifisso e per tutti  coloro che sono uniti a Cristo, quelle armi non sono più mortali. Non ci sono i peccatori che pagano e il giusto che giudica, ma Cristo il giusto muore prendendo su di sé i peccati degli altri per donare la sua giustizia ai peccatori.

La croce è sovversione perché Gesù Cristo, il re dei Giudei, non manda gli altri a morire per lui, come fanno tutti i re di questo mondo, ma è lui che va a morire per gli altri. Per tre volte gli dicono: “Salva te stesso!”: prima i magistrati d’Israele, poi i soldati romani e infine uno dei ladroni crocifisso con lui. “Salva te stesso!” Gesù non è venuto al mondo per salvare se stesso, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Perciò Gesù non scende dalla croce, non va a prendersi direttamente la gloria che gli spetta, ma accetta di salvare il mondo prendendo su di sé le colpe del mondo e le condanne che ne derivano. Perciò la legge del re dei cieli contraddice le leggi di questo mondo; il mondo e le sue potenze malvagie se ne accorgono e condannano Gesù alla morte dei sovversivi: la croce, come fu molti anni prima per lo schiavo Spartaco che si era ribellato ai padroni romani andando a liberare gli altri schiavi. E non per niente Gesù viene crocifisso assieme a dei malfattori. Se la croce diventa un simbolo religioso, se diventa un gioiello da portare al collo o una decorazione per marcare confessionalmente un luogo pubblico, allora la croce perde il suo significato di sovversione della legge umana. Allora non si tratta più della croce di Cristo, ma solo di due pezzettini d’oro o di due pezzi di legno.

Infine, la croce è sovversione perché ci svela il Vangelo, la notizia del perdono di Dio. In tutta la Storia dell’umanità le esecuzioni pubbliche delle condanne a morte sono servite soprattutto a mostrare la potenza del sovrano o dello Stato che emetteva ed eseguiva la sentenza. La forza del diritto, troppo spesso unita al diritto della forza, stava dalla parte del giudice e non del condannato; il re con il suo potere era sempre dalla parte di chi eseguiva e mai dalla parte di chi subiva. Ma se i re della terra si mettono sempre dalla parte di chi condanna, il re del cielo si mette dalla parte del condannato. Dio sta dalla parte del Cristo crocifisso, Dio non mostra la sua potenza stando dalla parte del vincitore, ma da quella del vinto, dello sconfitto. Il Dio degli eserciti, il Dio che ha guidato il suo popolo fuori dall’Egitto, che ha fatto cadere le mura di Gerico, il Dio potente in battaglia si lascia sconfiggere nella croce di Cristo per vincere noi stessi contro noi stessi, per conquistare non la sua vittoria sul campo di battaglia, ma per far trionfare la sua misericordia per l’eternità. Dio sta dalla parte del crocifisso perché gli effetti della morte di Cristo, il pagamento del prezzo dei peccati e una giustizia perfetta e completa siano per noi. Dio non ha voluto vincere lasciando perdere noi, ma ha voluto stare dalla parte della sconfitta per vincerci ed avvincerci a lui.

Ancora oggi il mondo e anche la chiesa si confrontano con la scritta della croce: QUESTO È IL RE DEI GIUDEI. Quest’uomo torturato e crocifisso è il re dei Giudei. Questa è la chiara indicazione di dove è Dio oggi. Tutti quelli che si domandano dov’è Dio nella tragedia, nella pandemia (perché quando tutto va bene nessuno lo cerca), e tutti i sentenziatori sulla giustizia di Dio trovano la risposta alla loro domanda nella scritta della croce: QUESTO È IL RE DEI GIUDEI. Dov’è Dio? Da che parte è Dio? Dio è con Gesù crocifisso; Dio è dalla parte dei crocifissi di ieri e di oggi. Il mondo cerca ancora la manifestazione della potenza divina (salva te stesso!) invece Dio si fa trovare nell’uomo agonizzante sulla croce. Dov’è Dio nella pandemia? Abbiamo sentito molte risposte, anche di cristiani, su questa domanda. La scritta di Pilato ci dà la risposta. Nella pandemia il Dio di Gesù Cristo è dalla parte delle vittime, è stato ed è con chi ha lottato per la propria vita e ha perso, con chi si è prodigato per gli altri, con chi ha pianto, con chi è diventato povero, con chi ha visto i propri figli avere problemi, con chi oggi dice a Dio “Salva, guarisci, aiuta!” sapendo che da questo dipende la vita sua e dei suoi cari. La scritta della croce: QUESTO È IL RE DEI GIUDEI appesa sopra la testa dell’uomo torturato ci dà la posizione di Dio in questo mondo: con gli ultimi, con i deboli, con i prossimi. La scritta di Pilato è la pretesa della maestà di Dio di avere posto nella storia dell’umanità, ma di avere posto nell’umanità debole e sofferente, nell’umanità incarnata, amata e redenta dal Signore Gesù Cristo. La scritta della croce risponde a tantissime domande della nostra fede e lei, questa scritta, si permette di porgerci una domanda sola: “credi tu questo?”

Nel giorno della morte di Gesù a questa domanda rispondono in due: il ladrone e il centurione. Il crocifisso con lui e il capo dei torturatori. Il criminale e il boia. Questi due e solo questi due hanno risposto alla domanda della croce e della scritta di Pilato. C’è bisogno che qualcuno continui a rispondere; c’è bisogno che voi continuiate a rispondere fino al momento in cui la potenza di Dio, nascosta nell’umiltà, sarà esaltata nella gloria. In quel momento tutti scopriranno che nell’uomo disprezzato e crocifisso, Dio ha aperto le porte del suo Regno.

 

past. Emanuele Fiume

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La resurrezione vince contro l’incertezza

da Riforma

Il messaggio del segretario del Consiglio ecumenico delle chiese (Cec) Sauca: «Mentre affrontiamo l’incertezza, possa la Pasqua infonderci forza e coraggio»

Nel messaggio di Pasqua il segretario generale (ad interim) del Consiglio ecumenico delle chiese (Cec), Ioan Sauca, ha inviato alle chiese membro il suo tradizionale saluto ricordando che «Cristo è risorto! È davvero risorto!».

Sauca, consapevole di star condividendo il messaggio pasquale in un momento difficile per la vita di molti popoli, di chiese e di nazioni afferma: «Quest’anno, osserviamo la Pasqua per la seconda volta in un contesto particolare e in mezzo a situazioni dolorose», scrive.

«Molte persone a noi vicine stanno vivendo momenti di paura e di incertezza, e ancora traumi, separazioni, isolamento, perdita di speranza, malattie e morte; sia all’interno delle loro famiglie sia nelle loro comunità ecclesiali».

La pandemia imposta dal Covid-19, che ha colpito il mondo intero, sta influenzando anche il modo in cui verrà celebrata la Pasqua, osserva Sauca.

«Eppure, nonostante queste situazioni traumatiche e dolorose, il messaggio della Pasqua oggi risplende. La Pasqua è un promemoria, un incoraggiamento, ci dice che Dio, in Cristo, continua ad amare e a prendersi cura del mondo intero, vincendo la morte con la vita, vincendo la paura e l’incertezza con la speranza».

Nel corso dei secoli il saluto pasquale «Cristo è risorto!» ha infuso ai cristiani potere e coraggio. Mentre siamo chiamati oggi a confrontarci con le sfide imposte dal Covid-19, possiamo dire di essere vicini nelle preghiere e nell’affermare insieme, uniti, la nostra comune fede e speranza nel Signore Risorto».

Leggi il messaggio completo in inglese.

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Una campagna giovanile chiede alla famiglia metodista globale di intraprendere azioni per il clima in vista della COP26

da Riforma

La campagna “Climate Justice for All” invita le comunità metodiste in tutto il mondo a impegnarsi nella questione della crisi climatica e a dichiarare «crediamo nella giustizia climatica per tutte e tutti»

La campagna “Climate Justice for All” (in breve CJ4A) in italiano “Giustizia Climatica per tutte e tutti” invita le comunità metodiste in tutto il mondo a impegnarsi nella questione della crisi climatica e a dichiarare «crediamo nella giustizia climatica per tutte e tutti».

Benché avviata da qualche mese, il 5 aprile verrà annunciata ufficialmente dall’Opera per le Chiese Evangeliche Metodiste in Italia(Opcemi) in collaborazione con la Commissione globalizzazione e ambiente (Glam) nella persona della sua coordinatrice, Antonella Visintin e dai referenti regionali provenienti da Uruguay, Gran Bretagna, Italia, Zambia e Fiji.

«Il messaggio della campagna, “noi crediamo nella giustizia climatica per tutte e tutti”, è molto importante perché come metodisti vogliamo ricordare la dichiarazione di John Wesley secondo cui l’amore di Dio è per tutte e tutti e per tutti chiediamo giustizia climatica, non è solo per un piccolo numero di individui ma per tutti» dice Camila Ferreiro, responsabile uruguaiana di CJ4A.

«Crediamo che, affinché la giustizia climatica sia per tutti una realtà, le comunità in prima linea nella crisi climatica devono essere provviste delle giuste risorse e deve esserci l’equità rispetto ai paesi maggiormente responsabili delle più alte emissioni, perciò devono essere i più ambiziosi nel ridurre il loro utilizzo di carbonio per raggiungere l’obiettivo delle zero emissioni». James Appleby, responsabile britannico di CJ4A.

La campagna chiede alle comunità metodiste di fare tre cose in vista del COP26: ascoltare, chiamare e impegnarsi.

«Prima di tutto ascolteremo perché come gruppo abbiamo compreso che raccontare le nostre storie e ascoltare gli altri è uno strumento importante per conoscere e rispondere agli effetti della crisi climatica.

 In secondo luogo, chiameremo chi ha responsabilità di governo perché sappiamo che non è sufficiente parlare di giustizia climatica all’interno delle nostre comunità metodiste, bensì trasmettere questo messaggio ai nostri rappresentanti politici.

 In terzo luogo, ci impegneremo perché ciò assicura che, mentre le comunità prendono impegni personali per attuare il cambiamento all’interno dei loro contesti, il lavoro della campagna sia sostenuto dopo la COP e che il cambiamento sia realmente integrato nella vita delle comunità metodiste». Iemaima Vaai, responsabile CJ4A delle Fiji.

Nel quadro della campagna, CJ4A pubblicherà mensilmente dei brevi filmati e delle risorse liturgiche per aiutare a raccontare le storie delle comunità metodiste che si stanno impegnando per il pianeta.

«Questa campagna è particolarmente emozionante perché offre alla famiglia metodista globale la possibilità di agire insieme per il clima, ascoltando e imparando gli uni dagli altri su come prendersi cura al meglio del pianeta che tutti noi condividiamo». Irene Abra, operatrice italiana CJ4A.

Oltre ai responsabili provenienti da cinque paesi diversi, CJ4A ha costruito una rete di volontari provenienti da altri quindici paesi, tra cui Russia, India, Argentina, Zimbabwe e Stati Uniti.

«Abbiamo una grande opportunità di mostrare il tipo di cooperazione globale che vorremmo fosse svolta dai nostri leader alla COP26» afferma Mollie Pugmire, responsabile britannica di CJ4A.

COP26 è la conferenza annuale delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici che si terrà a Glasgow dal 1 al 12 novembre 2021.