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Metodismo, giustizia sociale, diritti

Il 29 novembre a Roma il VII convegno di studi internazionali sul metodismo

Giunge alla settima edizione il convegno di studi internazionali sul metodismo promosso dal Centro di documentazione metodista (CDM), in collaborazione con la Sapienza – Università di Roma. Il convegno dal titolo “Metodismo, giustizia sociale, diritti. Uno sguardo tra Europa, Africa, USA” si terrà giovedì 29 novembre  presso la Sala Odeion, Facoltà di Lettere e filosofia, Università “La Sapienza” Roma con inizio alle ore 10:00.

Il convegno mette a fuoco i rapporti tra metodismo, giustizia sociale e diritti umani, in diversi contesti storici e geografici. In occasione dell’anniversario di eventi come la Dichiarazione dei diritti umani, l’entrata in vigore della Costituzione della Repubblica Italiana, la morte di Martin Luther King, il 1968, il tema proposto appare fecondo per approfondimenti storici, ma anche massimamente attuale.

“La chiesa metodista ha una lunga tradizione di impegno su questo fronte – spiega Mirella Manocchio, presidente dell’Opera per le Chiese evangeliche metodiste in Italia (OPCEMI) -. Lo stesso John Wesley, fondatore del movimento metodista, fu il primo leader religioso a prendere una posizione chiara contro lo schiavismo. Il convegno, però, oltre a ripercorre tappe storiche importanti, vuole altresì stimolare la riflessione sulle contraddizioni della società odierna in cui i diritti civili stabiliti dalla Costituzione non sono ancora pienamente attuati e quelli che parevano consolidati sono messi in discussione.”

Il programma prevede numerose relazioni tra cui quelle di Giancarlo Rinaldi (Università degli Studi di Napoli l’Orientale”, di Emmanuel Asante (Trinity Theological Seminary, Accra, Presidente del Consiglio dei Governatori, Ghana National Peace Council), di Francesca Cadeddu (Fondazione per le Scienze Religiose Giovanni XXIII, Bologna) e di Silvana Nitti (Università degli Studi di Napoli Federico II).

Gran Bazar di Natale

Come nelle migliori tradizioni nordiche, torna puntuale il nostro Gran Bazar di Natale!

Vi aspettiamo numerosi l’8 dicembre dalle ore 11 presso i locali della chiesa in via Firenze 38!

Non potete mancare

Un nuovo cielo e una nuova terra.

L’altro giorno nel mantovano, quindi non nel profondo sud, l’ennesima storia di violenza domestica conclusasi in una tragedia che vede vittima il figlio di 11 anni. Un uomo ha incendiato la casa dove viveva la moglie. L’uomo italiano, di 52 anni, artigiano, è poi fuggito ma è stato bloccato da una pattuglia della polizia stradale. Qualche giorno fa era stato colpito da un provvedimento del gip di Mantova di divieto di avvicinamentoalla casa di famiglia, dove vivevano la moglie e i tre figli. Silvia, quando ha visto le fiamme, rientrando a casa, ha chiamato subito i carabinieri. L’ennesima telefonata disperata, seguita alla prima denuncia per maltrattamenti a luglio. E adesso Silvia racconta che a volte al telefono si è sentita rispondere: «Signora, deve portare pazienza…».

Non eravamo una coppia particolarmente felice, ma non si andava male avanti. Senza figli, con molti impegni, lavoravamo entrambi e avevamo molti amici. Una famiglia normale, una vita normale senza scossoni. Una sera d’estate avevamo amici a cena. Mio marito beveva, come al solito. In cucina si mise a darmi dei colpi, mi strappò la catenina lasciandomi dei segni sulla scollatura. Urlai, ma nessuno si mosse. Non era la prima volta. Poi diceva che era un gioco, io gli rispondevo che quel gioco non mi piaceva. Ugualmente, mi prendeva spesso con forza e io cercavo di trattenerlo, di rilassarlo. A volte ci riuscivo, a volte no. Mesi dopo gli dissi che volevo separarmi, lui mi puntò il fucile al volto. Nella notte sono scappata, in pigiama. Lo volevo denunciare, il carabiniere mi disse: «Signora, sicuramente ha un’amica da cui poter andare a dormire. Si riposi, torni domani». Non sono più tornata, né a casa mia né a denunciarlo. Non ho mai dimenticato il fucile puntato.

Due storie di violenza domestica. Una storia di questi giorni, l’altra la troverete nel “Diario dei 16 giorni della FDEI per vincere la violenza”. Le mura domestiche sono testimoni dell’80% dei maltrattamenti, e nel 70% dei casi sono coinvolti minori. Storie che raccontano il contrario di quanto abbiamo sentito nella lettura di Isaia. Le parole di Isaia non sono dei pii desideri, sono profezia! La profezia non è una semplice previsione del futuro, una specie di indovino. La profezia interpreta l’attuale situazione e poi dice se ti comporti secondo le parole di Dio, la nostra speranza, allora questa sarà la tua strada, e quindi se ti allontani da queste parole la strada sarà un’altra, l’opposto. La profezia è la parola di Dio sulla nostra vita. È una previsione del futuro in una certa ottica, ma soprattutto è un’interpretazione del vissuto.

Quando stavo riflettendo sulla preparazione di questo culto, mi è stato suggerito di prendere una storia biblica particolare, un passo biblico che parlava di donne. Ero tentata, ma quasi subito ho detto no. Prendo i versetti del giorno, va bene, di solito uso il lezionario internazionale, questa volta “Un giorno una parola”. Ogni storia biblica racconta qualcosa della nostra vita, che ha a che fare con la nostra vita. E le cifre dicono che la violenza domestica ha a che fare con la nostra vita, più di quanto vogliamo ammetterlo. È il nostro modo di vivere. Non è un’emergenza, è il nostro modo di vivere che deve essere impostato in un altro modo, e le scritture ci indicano in quale modo.

Volendo si può anche dire che si tratta di un sogno che non fugge dalla realtà, ma che va verso la realtà.  Che non molla la realtà, non la tradisce, le rimane fedele, anzi è in ricerca della realtà, quella realtà per noi che Dio ha davanti ai suoi occhi. Sto parlando del sogno ribelle della speranza, è il sogno di tutto ciò che in questo mondo può essere diverso, meglio, più giusto, più umano. Un sogno che è stato sognato tenacemente in tutte le fasi della storia da uomini e donne che si sono opposti a un mondo disgregato e invivibile. Un sogno reale, perché convinti che non la disperazione, ma la speranza ha l’ultima parola. È il sogno di Gesù, dei suoi discepoli, dei profeti.

E uno dei sogni più imponenti l’abbiamo sentito stamattina, è quello del profeta Isaia. Lui lo fa quando gli esuli tornano da Babolonia. Il periodo nell’esilio era un tempo di riflessione, hanno riflettuto sulle loro origini e sopratutto sulla loro relazione con Dio, il fondamento della vita, e hanno trovato la via per uscire perché hanno scoperto la loro destinazione, non l’impero di Babilonia, ma il sogno secolare della visione di pace, cioè una società giusta: un mondo in cui si vive bene. Con questo sogno nello zaino tornarono in Israele, dove, chi viveva lì non capiva per niente. Per loro quella visione era come un  castello in aria. Che delusione per quelli che tornarono con delle aspettative così alte. Sì, bisogna arrendersi ai fatti e rassegnarsi alla situazione? come dicevano gli abitanti che erano rimasti e che hanno continuato la vita di ogni giorno come prima. Questo mai, dice il profeta Isaia e per non far perdere la visione, la sogna di nuovo ad alta voce, con parole di fuoco, come quelle che hanno messo in fiamme e fuoco gli esuli in Babilonia, anzi di più: si fa portavoce di Dio, perché sognare nella Bibbia è partecipare alle attese alte di Dio, fonte della nostra vita, concordi con lui di desiderare il grande futuro, la grande estate.

 

Qualcosa per cui il Dio ci strappa la più profonda ammirazione è la sua illimitata fedeltà al lavoro delle sue mani. Egli ha cominciato a lavorare con questa terra e imperturbabilmente continua questo suo lavoro. Frutto delle sue mani, per così dire: creando ha impegnato il suo cuore per sempre. È impossibile per lui  ritornare sui suoi passi. Nonostante tutto ciò che succede, si occupi di essa, perseveratemente e energicamente.

Ma nel frattempo questo mondo è capace solamente di deludere Dio. Sembra che non risponda alle sue attese. Invece di gioia, gli procura dolore e non penso che sia esagerato dire che ne soffre. Nonostante tutto ciò non rompe la relazione con questo mondo. Non lo sa abbondonare. Egli sarà  soprattutto deluso riguardo all’essere umano, all’umanità. L’aveva pensata in un altro modo, creandola a sua immagine. L’essere umano è stato il più grande investimento di Dio durante tutta la creazione. Gli aveva dato tutto. Aveva creduto in lui. Non l’essere umano in Dio, ma Dio nell’essere umano, nell’umanità. Aveva talmente tanta fiducia che gli ha posto questo mondo nelle sue mani. All’umanità l’onore di agire come il suo rappresentante, di condividere il suo amore per il mondo. Ma che fa l’essere umano, cioè che facciamo noi, distruggiamo invece di proteggere. Nonostante tutti i bei discorsi in favore della vita, la maggior parte dei nostri sforzi va in direzione opposta. È da diventare disperati, ma qui ancora una volta Dio ha più fiducia in noi di quanto noi abbiamo in noi stessi. La grazia che ci ha mostrato in Gesù mostra il suo attaccamento al suo progetto e così ci propone ancora una nuova possibilità. Negli sforzi religiosi l’essere umano tende a divinizzare se stesso, guardando verso il suo Dio, ma la direzione opposta sta davanti a noi. Non l’essere umano che deve diventare divino, ma il divino umano: una umanità vivibile, un mondo in cui la donna e l’uomo hanno la stessa dignità. Con l’incarnazione di Gesù Dio si impegna totalmente, fino a diventare egli stesso essere umano, uomo. Finalmente l’essere umano come egli aveva inteso dal principio, da cima a fondo a sua immagine. È questo ciò che Dio fa: nonostante tutto egli crede nella sua creatura, crede che ce la fa, che ce la può fare.

 

Poiché ecco, creo un nuovo cielo e una nuova terra. Ne abbiamo bisogno. Suona pieno di promesse. Tutto nuovo. E poi, che la terra abbia bisogno di essere rinnovata, non c’è dubbio, in mezzo alla situazione vergognosa in cui ci troviamo, una dimensione che viviamo ogni giorno, ma il cielo? Anche il cielo ha bisogno di essere rinnovato? Ci abbiamo mai pensato?! Il cielo per noi è un’immagine di perfezione. Non è rimasto intatto dal principio?

Invece, anche il cielo ha bisogno di rinnovamento. Il cielo ha conosciuto dei tempi migliori. Non per niente si legge dappertutto nella Bibbia il cielo e la terra, è una coppia. Il cielo non fa coppia con l’inferno, ma con la terra. Dio, fonte della nostra vita, li ha creati insieme, dipendono l’uno dall’altro. Insiemerappresentano la buona creazione. Il cielo è come fosse un tetto sulla terra, un riparo, una mano, una benedizione. La separazione come noi la conosciamo, la conosciamo come divisione, due cose separate: un matrimonio fallito per così dire o in termini più biblici: una relazione disfatta. Da quando la terra ha bandito dal suo orizzonte il cielo, il cielo non è più il cielo: zoppica da solo. Come tetto, senza muri, cade e si sfascia.

C’è il cielo, se c’è una terra.

Quando il cielo diventerà nuovo? Solo nella riconciliazione con la terra. Si rianimerà quando può sostenere la sua parte originale insieme alla terra: una crezione ininterrotta, un mondo abitabile. Ciò che Isaia vede è letteralmente  e metaforicamente il cielo sulla terra, cioè Dio che abita vicino agli uomini e alle donne. Una situazione totalmente nuova.

Come è per la terra, che sarà questa terra rinnovata, così anche per il cielo. Non dobbiamo pensare a una creazione totalmente nuova, ma anzi pensare a una ri-creazione, una ri-creazione del cielo e della terra esistenti. Non si tratta di una costruzione nuova, ma di ricostruzione.

Questo lavoro di conciliazione e rinnovamento è un lavoro difficile. Il cielo e la terra si sono separati tantissimo, è difficile riunirli. La realtà terrestre deve cambiare radicalmente per poter sopportare l’immediata presenza di Dio, per avere la capacità di sopportare la diretta vicinanza del cielo. Deve attraversare una crisi profonda: si tratta di una rinascita completa. E quanto lavoro c’è da fare ce lo ricorda la violenza sulle donne. Come detto prima, non si tratta di un’emergenza, bisogna rifondare le fondamenta del nostro vivere insieme.

Quando diventerà realtà la visione di Isaia, la nuova terra sarà la stessa su cui adesso camminiamo, ma cambiata, totalmente. Tutto ciò che la rende vecchia, sarà sparito: ingiustizia e violenza, malattia e miseria, immondizia e deterioramento. Guarite le fratture e le ferite, e quante sono ce lo dimostrano le storie di violenza domestica. Finalmente vedremo la terra come è stata intesa dal principio e finalmente vedremo il cielo nella sua vera figura: il cielo sulla terra.

Ecco, questo cielo e questa terra rimarranno. C’è una linea ininterrotta. Il futuro, la nuova creazione, non è un fatto a sé stante, ma è il risultato di ciò che Dio muove qui, adesso, la nostra storia. Il nuovo cielo e la nuova terra sono fatti dello stesso materiale di cui sono fatti il vecchio cielo e la vecchia terra, cioè noi, le sue creature. Quindi, la nostra vita su questa terra non è senza senso, ma va interpreta in un nuovo modo, quello che Dio mette davanti a noi. Un segno che la nostra speranza non è invana, ma che ha delle solidi basi. Così la terra, così l’umanità, non spariremo nella nebbia, possiamo rimanere chi siamo: figlie e figli di Dio. Avendo questa visione davanti ai nostri occhi, occhi di vigilanza, le nostre relazioni cambiano, anche quelle fra donne e uomini.  Come già questo vecchio mondo cambia di carattere, anche noi possiamo cambiare adesso. Amen.

 

Pred. Greetje van der Veer

 

Sento tutte le mattine

Sento tutte le mattine il telegiornale – ormai anche io ho perso l’abitudine di leggere le notizie, persa nel disordine delle troppe cose da fare e da pensare – e forse anche per questo, che le notizie ormai si vedono per pochi minuti per poi abbandonarle alla digestione solo nei vari spettacoli di commento, ho spesso l’impressione di vedere un unico, lunghissimo film.
Un film di quelli all’antica: con i buoni che sono buoni ed i cattivi che si riconoscono subito dalla loro stessa faccia, ed ognuna delle due squadre segna punti senza mai arrivare a quello decisivo, tanto che alla fine la domanda che non voglio farmi – la domanda che nessuno di noi può farsi, perché le squadre giovano apposta in modo che non ce la facciamo, è: ma in quale campionato siamo? Quale coppa è in palio? – insomma un film in cui il finale non solo non si può immaginare, ma neppure si è sicuri che ci sia, che davvero ci sarà il fischio che manda tutti sotto la doccia. Insomma un film il cui scopo sembra essere solo quello di farci dimenticare del finale che ci aspetta – un film che alla fine nega il futuro costringendoci continuamente a concentrarci sull’oggi, anzi sull’adesso.
In questo film, la superficialità è quasi un dovere, perché fermarsi a pensare alle conseguenze può farci perdere tempo, ed il tempo è esattamente quello che non abbiamo.
Così, non importa se ci sarà gente che muore, se i porti vengono chiusi o le strade vengono lasciate senza manutenzione, o l’inquinamento consegna il mondo a uragani ed incendi. L’importante è che la squadra di quelli che dicono esattamente le cose che gli altri vogliono ascoltare segni un punto di più – magari convincendoci che a farci perdere il lavoro sono i migranti e non il potere nascosto e per questo inarrestabile che ci condanna a lavori precari pur di riuscire a pagare un’altra rata tra le tante che abbiamo da pagare.
Non importa se i bambini muoiono, fisicamente o nei social che li sfruttano, non importa neppure se ai bambini abbiamo tolto perfino l’infanzia costretti come siamo a proteggerli da tutto e a farne piccoli dèi cui nascondere il più a lungo possibile le difficoltà che dovranno prima o poi affrontare. L’importante è che un punto in più sia segnato dalla squadra di chi vende la consolazione precaria del “meglio che niente”, del “tanto così è e noi non possiamo farci nulla”, dell’ognun per sé e Dio per tutti.
Insomma non solo non pensiamo alle conseguenze di quel che facciamo, dei nostri pensieri, delle nostre parole, dei nostri silenzi, delle nostre opere e delle nostre omissioni (come si diceva un tempo) ma proprio non vogliamo pensarci: illusi forse che in questo modo le conseguenze non ci saranno, in una specie di politica planetaria dello struzzo, se fosse vero che gli struzzi nascondono la testa sotto la sabbia quando si trovano davanti ad un pericolo che immaginano più grande di loro.
Matteo 25, 36-46 ci racconta in maniera immediata e plastica quali sono le conseguenze di quella politica: gesti fatti senza accorgercene che invece sono prove di quel che siamo; azioni magari fatte per sentirci meglio con noi stessi che rivelano la loro inutilità quando è troppo tardi per cambiarne il corso, attenzioni che diamo inutilmente, distrazioni che ci rendono irrimediabilmente colpevoli di un egoismo che si rivela la nostra carta di identità.
Romani 8 e Apocalisse 2 ci dicono invece che, semplicemente, vivere come se il domani non ci fosse è sbagliato, perché il domani c’è, ed è di Dio: quel che aspettiamo non è una coppa, ma la corona della vita conquistata dal sangue di Cristo ma resa visibile solo con la perseveranza; ciò che ci attende, dice Paolo in Romani, ciò che dobbiamo riuscire a partorire nonostante i gemiti e il travaglio, nonostante tutto il dolore, la paura e la voglia di lasciar perdere, è la redenzione di ciò che siamo – ossia la vita che si può finalmente vivere libera dai giochi che illudendoci di farci vincere la paura di morire ci impediscono di accorgerci che la morte, in Cristo, non esiste più.
E la seconda Corinzi ci ricorda, come regola per la nostra partita, che certo, il domani esiste ed è messo al sicuro dalla Croce di Cristo; ma anche il giudizio c’è, ed è oggi: “Siamo dunque sempre pieni di fiducia, e sappiamo che mentre abitiamo nel corpo siamo assenti dal Signore (poiché camminiamo per fede e non per visione); ma siamo pieni di fiducia e preferiamo partire dal corpo e abitare con il Signore. Per questo ci sforziamo di essergli graditi, sia che abitiamo nel corpo, sia che ne partiamo. Noi tutti infatti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, affinché ciascuno riceva la retribuzione di ciò che ha fatto quando era nel corpo, sia in bene sia in male”.
Certo è un testo difficile – perché a prima vista sembra dire esattamente il contrario di quel che siamo abituati a sentire, e cioè che siamo salvati per fede, e che le opere non hanno alcuna utilità.
Ma quel che in realtà ci dicono queste parole è che, se possiamo ed anzi dobbiamo avere piena fiducia nella misericordia di un giudice che è Dio, ed è quel Dio che ha tanto amato il mondo da venire a vivere in mezzo a noi ed a morire sulla croce affinché credendo in lui potessimo essere salvati, ciò non di meno ciò che facciamo, le nostre opere, hanno un’importanza enorme: perché è con quelle che dimostriamo, prima di tutto a noi stessi, che siamo di Cristo; ed è dunque con le nostre opere – ossia con quel che facciamo o non facciamo – che ubbidiamo, o non ubbidiamo, al mandato che Cristo ci ha affidato, di annunciare la sua salvezza a questo mondo in cui viviamo.
In altri termini, certo il nostro peccato è stato perdonato, in Cristo e per Cristo. Ma il modo come viviamo questo perdono, su questa terra, è la cifra che ci separa dall’inferno o dal paradiso, su questa terra – dalla superficialità che porta ineluttabilmente alla assenza di speranza, oppure dalla piena coscienza della presenza di Dio nella nostra vita, che è la fonte di una speranza che non può venire meno.
Se tutto questo ci sembra un po’ troppo astratto per noi, pensiamo a quando Paolo scrisse queste parole, alla situazione in cui si trovava. La seconda ai Corinzi, c’è chi la vede come una lunga lettera unitaria, ma probabilmente è invece una specie di mosaico, le cui tessere sono state messe vicine ma non sono nate nello stesso momento.
La comunità di Corinto, la conosciamo per queste due lettere: una chiesa entusiasta nata dalla predicazione di Paolo, sicuramente innamorata di Cristo, sicuramente desiderosa di seguire Cristo. Ma umana. E forse anche un po’ immatura. Alcuni avevano preso fischi per fiaschi, e si erano convinti che al perdono di Cristo seguisse non la libertà, ma il libertinaggio, l’assenza di responsabilità. Altri avevano delegato la comunione in Cristo al futuro nel Regno dei Cieli, e preferivano, su questa terra, starsene per conto loro portandosi il pranzo da casa invece che prendere la stessa Cena e tutti insieme. Molti, se non tutti, erano ancora preda del demonio del giudizio: giudicavano i fratelli e le sorelle, lo stesso Paolo, giudicavano tutti tranne sé stessi. Insomma c’era del buono, ma era ben nascosto.
Vi ricorda qualcosa? Noi siamo così diversi?
Io non lo so. E non lo posso sapere, a che punto stiamo nel cammino della santificazione che ci è richiesta, non lo posso sapere neppure di me stessa – tra l’altro non è affar mio, perché il giudizio ed il domani, il futuro, sono solo di Dio.
Ma, dico a me stessa, e a chi vorrà ragionarci un po’ su, che dovunque io sia, è la mia vita – ossia quel che penso, faccio, dico o meglio ancora: quel che mi permetto di pensare, di fare e di dire – che segna dove sto. E poiché il futuro – ossia il domani, ed il giudizio, il tribunale di Cristo – arrivano, personalmente voglio che nel momento in cui tutto questo arriverà, io possa essere trovata occupata a vivere – pensare dire e fare – nel modo che piace a Cristo: occupata a ricercare la purezza del cuore, la mansuetudine, la misericordia; affamata ed assetata di giustizia desiderosa di portare la pace.
Lo desidero per me, lo desidero per ciascuno di voi, lo desidero per la chiesa in cui servo e per tutti coloro che amo.
Non perché io abbia paura di quel Tribunale, in cui so che abbiamo il migliore degli avvocati, Gesù. Ma perché sono consapevole che è solo vivendo come lui vuole, che potrò rendermi conto che le porte dell’inferno non prevarranno.
Che il Signore ci benedica, permettendoci di vivere la nostra vita – di fare, dire e pensare – secondo la sua santa volontà.
Amén.

Past. Giovanna Vernarecci

Il giudizio contro le nazioni

Matteo 25, 31-46

Care sorelle e cari fratelli nel Signore, domenica scorsa il nostro culto è stato tenuto dal gruppo di Breakfast time Milano-Roma con il sermone del nostro fratello Fabio Perroni sul brano del buon samaritano (Luca 10, 25-37). Tutto lo svolgimento del culto verteva sulle idee sviluppate e sperimentate in questi mesi di servizio comunitario. Così pure l’incontro con questi fratelli e queste sorelle aveva come scopo quello di motivare ancora di più ad esercitare insieme le opere di carità e di scambiare propositi su come rafforzare la volontà di fare delle buone opere nei confronti delle persone disagiate, e ,in generale, di poter aiutare coloro che si trovano in difficoltà.

Abbiamo ospitato tre sorelle e tre fratelli della Chiesa Evangelica Metodista di Milano, la comunità dove ero provenuta nel 1995. Pensate un po’, sono già passati 23 anni ma ciò che mi stupisce e forse a tutti noi è la forza di volontà che molte volte ci spinge ad incontrare una persona cara o le persone che ci sono care. Personalmente, mi ha fatto molto piacere rivedere e rincontrare una delle due sorelle filippine che sono venute; fu già presente quando ero a Milano, prima che intraprendessi lo studio in Teologia e si chiama Bernadeth. Mi ha ribadito che per lei è stata un piacere rincontrarmi così come anche per me per rinnovare il nostro legame di fraternità nel nome del Signore Gesù Cristo. Si è ricordata del mio amore per le piante e i fiori perciò mi ha portato l’azalea, quella che vedete sul piano forte qui davanti a voi. Ciò che ci lega e ci incoraggia a intraprendere un viaggio pur lontano, è il desiderio di incontrare le persone che amiamo per rinnovare il nostro rapporto con loro. Quel buon ricordo del passato è fondamentale e ci permette di rivivere il percorso e il cammino nella fede fatto insieme per l’edificazione reciproca.

Nelle nostre comunità cristiane innanzitutto si costruisce un legame profondo di fraternità nel Signore Gesù Cristo , e questo è sicuramente come un biglietto di visita che rimane e che non muore mai. Io penso anche che per noi cristiani, è profondamente incarnato l’insegnamento del nostro maestro Cristo Gesù di eseguire le opere di bene perciò ovunque venga praticato attirerà l’attenzione di tutti.

La Bibbia ci aveva raccontato di questo legame, ci aveva narrato dei percorsi delle comunità, gli apostoli avevano fatto dei viaggi missionari insegnando la legge dell’ amore di Dio e le comunità si scambiavano le visite, le notizie attraverso loro con gli apostoli stessi. Nella Bibbia abbiamo conosciuto Dio, solo leggendo la Bibbia siamo riusciti a trovare la parola Yahweh, Dio, Signore, l’Io sono quello che sono, Gesù Cristo, l’Amen.

Nella Bibbia o attraverso la Bibbia abbiamo potuto incontrare i nostri antenati, i fratelli e le sorelle che avevano professato la loro fede allora. Così, avevamo constatato che a causa della PAROLA VIVA del Signore, Dio della nostra vita, la presenza e la visita dei nostri fratelli e delle nostre sorelle della chiesa di Milano è stata per noi un fuoco di amore ardente, che ha riscaldato i nostri cuori con il messaggio che ci hanno portato. Le due chiese, le due comunità si sono incontrate attraverso questa visita e quest’opera del breakfast time, l’iniziativa voluta da tutte e due le comunità. Sia lodato il Signore.

Care e cari, oggi abbiamo ascoltato e letto l’evangelo di Matteo al capitolo 25, versetti da 31 a 46. Ho voluto proporvi oggi questo testo per la nostra riflessione proprio perché domenica scorsa i due gruppi di breakfast time Milano- Roma hanno fatto un culto dedicato a quest’opera diaconale e comunitaria. Sappiamo che nessuno di loro abbia avuto in mente di esaltarsi o vantarsi per le opere buone compiute nei confronti delle persone meno fortunate, coloro che si trovano svantaggiate ma proprio per questo motivo che vorrei ci ricordassimo sempre che il nostro Signore ci guida, ci porta a camminare con lui per la via come i suoi discepoli e le sue discepole e che ciò che si conserva nei cuori nostri è la gioia di averle fatto ringraziando il Signore per queste occasioni o opportunità .

L’evangelista Matteo ci ha raccontato la parabola del giudizio contro le nazioni cioè il giudizio finale su come sarebbe andato la fine dei tempi, quando saremmo tutti chiamati e radunati, davanti all’ unico giudice e saremmo giudicati attraverso le nostre opere buone e cattive che abbiamo compiuto. Tutte le nazioni saranno giudicate secondo le loro opere buone , giuste o contrarie negli occhi dell’unico giudice di tutti gli uomini e di tutte le donne. Saremo tutti insieme davanti a lui, poi sarà lui a separarci in un gruppo alla destra e in un altro alla sinistra in base a ciò che avremmo dovuto fare o non, nei confronti del nostro prossimo considerato minimo.

Questa parabola del giudizio alla fine dei tempi è facile da capire nel suo insieme cominciando dal figlio dell’uomo, il Signore, il re che sarà il giudice di tutti , come abbiamo imparato dalla lettura della Bibbia . La folla radunata saremo noi, quella che sarà sottoposto al giudizio, ma alla fine però nessuno di questa massa di gente saprà più dire o potrà poi confermare quando ognuno ha compiuto queste opere o non <<dare da mangiare a chi è affamato, dare acqua a chi ha sete, dare vestito a chi non ne ha per coprirsi, dare medicina a chi è malato, andare a visitare chi è in prigione, accogliere nella propria casa a chi si trova senza un luogo per dormire>>….

Questa parabola ci sembra dire che alla fine dei tempi nessuno si ricorderà più di quello che ha fatto se non colui che sarà l’unico che ha il compito di giudicare.

Come mai questi che erano stati davanti al re, non erano più in grado di riconoscere ‘quando’ avevano fatto il bene o no. Per questo motivo che non sappiamo esattamente quando abbiamo incontrato il fratello considerato minimo del re, colui che in condizione del bisogno. Forse, ciò che è necessario ricordare è metterci sempre nei panni del nostro prossimo, essere per lui e per noi in qualunque situazione, evitandoci di distinguere da lui poiché abbiamo le stesse necessità. Il re rivendica la causa del minimo, del vero povero e davanti a lui, saremo giudicati per quello che abbiamo potuto fare e dare d’aiuto con le nostre capacità. Non si organizza mai la “giusta accoglienza” bensì è spontanea, ed è così che dobbiamo essere in ogni momento della nostra vita.

Immaginate come sarebbe questo racconto, se il re si metterebbe a sedere su una poltrona con i suoi angeli custodi, davanti ad una folla di gente che aspettano il suo verdetto. Come sarebbe stata quest’attesa che terminerà solo con la pronuncia di poche parole di salvezza, di tutti noi uomini e donne?

Siamo pronti veramente a incontrare faccia a faccia il re della nostra vita perché siamo stati obbedienti a questa legge del dare/delle opere? Al ricco Gesù disse: se vuoi essere perfetto va’ e vendi ciò che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro nei cieli>> Mt. 19,21<<vai e fai anche tu la stessa cosa>>. Se davvero abbiamo creduto in lui, oggi saremo in grado di dire: << sono pronto Signore a incontrarti , anche adesso>>. Oppure, vogliamo che rallenti il compimento del suo giudizio, perché non siamo ancora pronti? Le notizie di bisogno e richiesta ci giungono ogni attimo quindi sempre. Questo impegno è l’unico che ce lo chiede perché è urgente e non si può mai rimandarlo per quello che vediamo ovunque.

Qual è lo scopo di questo racconto per ciascuno di noi? Che senso ha nel nostro vivere in questo momento, nel nostro rapporto con l’altro, con il povero, con lo straniero?

Come comprendete i testi biblici sul giudizio finale? Come leggete i testi che riguardano gli ultimi dei tempi? Che visione traete e che senso vi danno in rapporto con il vostro vivere il tema sul giudizio finale ? Scegliamo forse di fare il bene perché abbiamo paura del giudizio?

Tu uomo che cosa pensi di te stesso? Chi sei e che fai tu in questo mondo?

Che cosa vedi? Che visione hai per il tuo futuro? Qual è la tua visione per il tuo futuro?

Pensi che il tuo futuro ha a che fare con il tuo passato o con il tuo presente? Che cosa pensi tu com’è un cristiano? Che cosa ti fai pensare di essere un cristiano? Che cosa ti fa convincere dal messaggio che porta la Bibbia? E tu credi veramente della visione del giudizio finale? Che cosa pensi del giudizio finale?

Perché scegli di fare il bene e non il male? Che rapporto ha per te il fare del bene, o scegliere di fare le opere di bene perché hai paura di essere giudicato stolto e di andare poi nello stagno di fuoco?

Che senso ha per te venire in chiesa o andare allo studio biblico se non per farti scoprire insieme ad altri che cosa la Sacra Scrittura dice che Dio gradisce che venga fatta?

L’ascolto della Parola insieme ad altri ti dà la forza o la carica?

Allora tutto sommato, vediamo che il nostro rapporto con Dio ha a che fare con ciò che facciamo ad altri.

Il profeta Michea dice al capitolo 6,8 nel suo libro: << O uomo, egli ti ha fatto conoscere ciò che è bene; che altro richiede da te il Signore, se non che tu pratichi la giustizia, che tu ami la misericordia e cammini umilmente con il tuo Dio? >>

Riprendendo l’iniziativa del breakfast time, con lo scopo di compiere le opere buone , è stato per noi una svolta, ci ha tutti insieme uniti, mandandoci fuori dalle nostre mura per estendere il nostro servizio di lode di ogni domenica al Signore.

Così, torniamo anche alla nostra base, al nostro punto di partenza come abbiamo compreso la Bibbia. Come abbiamo voluto leggerla.

“Come leggeremo la Bibbia?” Esiste un modo ‘giusto’ per leggere la Bibbia?

Quattro punti quelli che sono stati proposti fino ad ora, più o meno, come dobbiamo leggere la Bibbia. Molti di noi sanno già questi ma è importanti che rinnoviamo insieme la nostra conoscenza di essi.

1) Il primo è fare silenzio davanti al testo, affinché sia lui a parlare e noi ad ascoltare. Significa che noi credenti in Dio, impariamo ad ascoltare il Signore che si è rivelato, obbedendo ciò che è scritto nella Bibbia per il nostro vivere bene.
2) il secondo è tener conto della storicità del testo, quindi delle condizioni storiche, culturali, sociali, ecc. in cui esso è nato. Chi ignora la storicità del testo viene condannato al non capire e a non cogliere il messaggio. Significa che attraverso la storia del popolo di Israele eletto da Dio comprendiamo il modo di vivere degli uomini e delle donne cioè di un popolo di una nazione in cui ci permette ad imparare a comprendere anche noi stessi e a confrontarci da essa perché ogni generazione è altra ma è simile.
3) il terzo criterio è imparare a distinguere il “compito delicato, ma non impossibile”, quello che nella Bibbia appartiene al quadro culturale caduco (provvisorio, temporaneo) da quello che invece appartiene al messaggio salvifico permanente. Significa che siamo chiamati a leggere i testi biblici imparando a mettere da parte il messaggio di salvezza che Dio ha voluto per tutta l’umanità come progetto, piano, decisione, volontà perenne. Conoscere e riconoscere il Dio misericordioso e che il suo giudizio universale sia indipendentemente dalle nostre opere, e per il suo amore.
4) il quarto è cercare nel testo, come suggeriva Lutero- “ciò che mette in evidenza CRISTO” Significa che nel nome di Cristo Gesù c’è rivelato la salvezza il perdono dei nostri peccati.
Che il Signore ci ravviva la nostra consapevolezza del nostro bisogno e dell’altro nel termine dell’ospitalità o accoglienza giusta. Che Dio ci sia con noi. Amen.

past. Joylin Galapon

I assise Fcei

Da venerdì 16 novembre a domenica 18  si terrà, presso l’hotel Selene a Pomezia, la prima assise della federazione delle Chiese Evangeliche in Italia.

La prima giornata vedrà due momenti pubblici, a cui siamo tutte e tutti invitati a partecipare.

Alle ore 14.30, presso la chiesa valdese di via IV novembre, si terrà il culto di apertura a cura del pastore Emanuele Fiume.

Al termine, la tavola rotonda, le cui informazioni le trovate qui sotto.