O eterno fuoco, fiamma d’amore

Giov. 14, 23-26

Ho incontrato, ormai parecchi anni fa, un giovane, che chiameremo Evind, cresciuto in Albania, in un contesto, allora, completamente ateo, senza alcuna idea di che cosa potesse essere una vita nella fede o nella chiesa. Dopo la fine del regime comunista, alcuni missionari protestanti inserirono Evind nei loro programmi di formazione, in vista del battesimo. Di fronte alla sua fatica nel comprendere che cosa potesse essere la fede cristiana, i missionari dissero che le risposte decisive non potevano venire dai ragionamenti o dalle spiegazioni. Evind sarebbe stato battezzato e lo Spirito santo avrebbe risposto alla sue domande. Il giorno del battesimo venne, accolto con molta gioia e, anche, con infinita curiosità. Evind, infatti, non riusciva a immaginarsi che cosa si sarebbe dovuto aspettare. Certamente, però, sarebbe accaduto qualcosa che gli avrebbe chiarito le idee su Dio, Gesù Cristo, la salvezza e quella esperienza chiamata fede, della quale i missionari parlavano come se la conoscessero bene e la maneggiassero con molta sicurezza.
La sorpresa fu che, dopo il battesimo, le domande, i dubbi, le incertezze su questa faccenda di Gesù continuarono, più o meno come prima. Lo Spirito santo, a quanto pare, non era stato abbastanza chiaro; oppure il battesimo non era riuscito tanto bene; oppure c’era un altra spiegazione? Ma quale?

Secondo l’evangelo di Giovanni, in effetti, la venuta dello Spirito accade in uno spazio che, almeno a prima vista, è caratterizzato da una certa paura di fronte a un vuoto. Gesù moltiplica le rassicurazioni: “il vostro cuore non sia turbato”; “vado a prepararvi un luogo”; “se chiederete qualcosa nel mio nome, lo farò”; “non vi lascerò orfani”. Proprio l’abbondanza di esortazioni a star tranquilli, tuttavia, evidenzia il problema: Gesù sta per lasciare questo mondo e il vuoto che ciò determina turba i discepoli. Presenza è poter vedere, toccare, parlare: presenza è fisicità. Forse una delle caratteristiche del nostro tempo è precisamente il tentativo di riprodurre la fisicità della presenza anche in caso di assenza, attraverso la parola trasmessa in tempo reale, la voce e l’immagine veicolate da Skype. Dove va Gesù, però, non arriva nemmeno Skype. Si tratta di un’assenza che non può essere ridimensionata da imitazioni di presenza.
Le rassicurazioni di Gesù, in effetti, non parlano di surrogati: dopo la sua partenza, Gesù sarà più presente di quando era presente. Verrà lo Spirito di Dio, qui chiamato anche “il Consolatore”, ed egli “insegnerà ogni cosa” e “ricorderà” ai discepoli la parola di Gesù. Qui, però, si produce una situazione abbastanza simile a quella di Evind. Già il termine “spirito”, che nelle lingue della Bibbia è lo stesso che indica il “vento”, suggerisce qualcosa di inafferrabile che appunto, come dice Gesù altrove, “non si sa da dove viene e dove va”. Se diciamo che qualcuno è “presente nello spirito”, intendiamo di solito dire che appunto non c’è: noi ci ricordiamo di lui, precisamente perché non è qui.

In effetti è così: la fede cristiana parla in continuazione di un Signore Gesù Cristo che essa non vede, non tocca e non sente con le orecchie. E’ ovvio, certo, lo sappiamo bene. Ma forse il primo dono di Pentecoste, del Consolatore, è proprio questo, di spiegarci che non è così ovvio. La fede conosce la perplessità, il dubbio, del nostro Evind. Essa conosce la nostalgia e il desiderio per un Signore che non è presente qui, fisicamente, come lo siamo noi gli uni agli altri. La fede donata dallo Spirito conosce anche il dubbio e la tentazione dell’incredulità. Il Consolatore non ti permette di fare spallucce e di dire: Va beh, un po’ di religione va bene comunque.
Per noi, che siamo cresciuti, a differenza di Evind, in un contesto più o meno cristiano e facciamo parte di una chiesa questo è il primo dono di Pentecoste: lo Spirito non ci permette di addormentarci nella normalità religiosa. Dove accidenti è questo Cristo? Quando torna? Perché la storia del mondo parla di tutto tranne che di lui? Queste domande, spesso davvero inquietanti, sono spirituali, potremmo dire “pentecostali”. Quella di Evind, in questo senso, è stata in effetti un’esperienza dello Spirito: l’interrogazione, la ricerca, non finiscono con Pentecoste. Semmai, la venuta dello Spirito le rende acute, penetranti, sofferte anche.

Gesù, però, dice anche che lo Spirito “insegnerà ogni cosa”. Ma che cosa ci insegna, alla fine, se poi ci teniamo i nostri dubbi? Che cosa ci insegna, lo Spirito, su questo mondo pieno di lacrime e sangue? Come risponde alle domande che si affollano nel nostro cuore, quando ci sembra, molto semplicemente, che le parole su Gesù, e magari anche quelle di Gesù, che ascoltiamo nella Scrittura, siano vuote? Insomma: che cosa possiamo aspettarci, da questo benedetto Spirito? Non la fine delle domande, ma il fatto che esse sono rivolte sempre di nuovo a lui; non la fine della ricerca, bensì il fatto che essa non è condotta nel vuoto, o nella nebbia dei nostri umori psicologici o esistenziali, bensì in dialogo, magari polemico, ma reale, con Gesù. La fede non è nemmeno la fine del dubbio, anche profondo: bensì il fatto che il dubbio conduce, sempre di nuovo, a interrogare questo Gesù, insieme agli altri, nella chiesam quella reale, fatta di donne e di uomini.

Il nostro Evind, del quale abbiamo parlato all’inizio, è rimasto sorpreso, e anche un po’ deluso, precisamente perché, dopo il battesimo, le domande sono rimaste. L’evangelo, invece, è il contrario: lo Spirito ci conduce ogni giorno di nuovo a interrogare Gesù, a non lasciarlo in pace, come lui non lascia in pace noi. Dove il nome di Gesù è una specie di formuletta religiosa, o anche magica, che chiude le questioni. La speranza evangelica, e la preghiera della chiesa, sono che l’inquietudine, la curiosità, la passione, spesso la rabbia, altrettanto spesso la speranza, a volte la gioia, accese dal nome di Gesù siano il centro della vita di noi tutti.

Amen

prof. Fulvio Ferrario