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Tre anni di Breakfast Time

Giovanni 13, 1-17

Care sorelle, cari fratelli, care Francesca, Gladys ,Maria e Tatiana
Gesù prende un asciugamano se lo avvolge intorno alla vita, poi versa l’acqua in un catino ed inizia a lavare i piedi. E’ una immagine molto bella, molto forte.

Mi viene in mente l’immagine che ha girato sui social della giovane infermiera che aveva i segni sul volto per aver tenuto la mascherina tante ore di seguito. Per aver assistito tante persone ammalate di Covid, per aver assistito fino all’ultimo i pazienti magari con una videochiamata ai parenti affinché vedessero per l’ultima volta i loro cari. Mi fa ritornare in mente l’immagine di Salvo il ragazzo della guardia costiera che sorrideva con il bimbo africano in braccio appena tratto in salvo dalle acque del mar Mediterraneo. Due esempi di grande servizio e solidarietà per noi tutti.

La Pasqua è vicina, l’ultima cena si è conclusa ed il suo racconto è noto dalla descrizione che Matteo, Marco e Luca ne fanno, così come anche noi lo conosciamo e lo ricordiamo nelle nostre liturgie. Giovanni ci racconta qualcosa di più. Gesù si alza dalla tavola per lavare i piedi ai suoi discepoli. Il loro maestro vuole lavare i piedi a loro stessi. Il maestro, il re dei re, diventa l’umile (l’ultimo) servitore. Non è un gesto che ci è familiare, nella consuetudine dell’epoca erano le donne o gli schiavi che facevano la lavanda dei piedi nei confronti di chi entrava in casa, come segno di accoglienza e di riverenza. Immaginiamo l’invisibile servitore a cui difficilmente si presta attenzione mentre accoglie l’ospite all’ingresso e lo solleva dal peso del viaggio.

Quando viene il momento di Pietro di ricevere la lavanda, lui rimane interdetto, si rifiuta, potremmo dire con indignazione. Si starà chiedendo, perché il mio Signore si inchina a me?

Non capisce il motivo di questo gesto, di questo umile servizio reso proprio a lui dal suo stesso maestro. Ma Gesù gli dice:

“Se io non ti lavassi, non avresti nulla in comune con me”

Ossia non hai capito il mio messaggio, ovvero non hai parte nella salvezza che da   Dio viene per mezzo di me.

Gesù ancora dice ai suoi discepoli, parla a loro, ma parla pure a noi, che a lui rivolgiamo la nostra fede,

“Chi si è lavato, non ha bisogno di lavarsi se non i piedi ed è tutto pulito”

Cioè anche se siamo stati lavati completamente, con l’acqua, con la stessa acqua del nostro battesimo, avremo sempre e comunque la necessità che i nostri piedi siano lavati da Gesù. 

Ci manca qualcosa, c’è una parte del nostro essere discepoli che abbiamo bisogno che sia completata, la realtà è che abbiamo bisogno di ricevere il gesto di Gesù, abbiamo bisogno del suo servizio.

Se abbiamo accettato di ricevere il battesimo, di essere rinnovati in Cristo, dobbiamo ugualmente accettare che il Signore si faccia servo. Battesimo e servizio si intrecciano.

Care Francesca, Gladys, Maria e Tatiana, nel battesimo che avete ricevuto confessate la vostra fede in Cristo. Siete arrivate in questa chiesa da percorsi differenti, da quattro differenti storie di fede, ma tutte quante siete accumunate dal battesimo che oggi riconfermate ed in virtù del quale questa Chiesa vi accoglie. Il servizio nasce dalla fede che confessiamo, dal dono di Dio che abbiamo ricevuto, dal dono della grazia.

Infatti Gesù ci esorta a seguire l’esempio che da lui ci viene, a farci a nostra volta servitori.

“Se dunque io, il Signore e il Maestro, vi ho lavato i piedi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Vi ho dato infatti un esempio, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi”

Non c’è una fede senza servizio. Se tu credi veramente, se hai capito e ami Dio, il servizio è il modo in cui declini la tua fede. E nel servizio non ci sono più gerarchie,

“Uno schiavo non è più grande del suo signore, né un inviato più grande di chi lo ha mandato”.

Pur dovendo esistere gerarchie nei ruoli e nelle funzioni, non c’è una gerarchia di potere, non c’è un maggiore ed un minore nella fede. Gesù chiede di accettare di spezzare la gerarchia, chiede di sottometterci reciprocamente luno allaltro. Ci vuole umiltà nel lavare i piedi e nel farseli lavare.

Spezzare la gerarchia non vuol dire che non debbano esistere più organizzazione, compiti e responsabilità, ad esempio, nella nostra chiesa non significa che non ci siano più ministeri o ruoli definiti, ma semplicemente che questi siano vissuti come servizio verso gli altri e non come posizioni di privilegio.

Tutti siamo chiamati al servizio reciproco.

Il buon cristiano non fa questo solo perché è un dovere, al contrario il servizio reciproco, la solidarietà fraterna non può che essere una nostra intima necessità.

Gesù ci ha dato l’esempio, ci ha lavato con l’acqua del battesimo, ci ha legato a lui, si è reso nostro servitore, in lui abbiamo la salvezza. Quale gioia più grande possiamo avere? Ricevendo un servizio, non possiamo che renderlo, restituirlo con allegrezza e gratitudine. E’ una necessità, è la nostra urgenza. Come quando una bella notizia ci coinvolge e non possiamo trattenerci dal raccontarla a tutti, come possiamo restare inerti di fronte alla salvezza che da Cristo ci viene?

Seguiamo l’esempio di Gesù, facciamoci servitori gli uni degli altri.

Questo tempo ci offre molti modi per esprimere il nostro servizio.

Pensiamo ovviamente alla pandemia, che è entrata nel nostro quotidiano, ed alle difficoltà che ci sta mettendo davanti, alla crisi economica e sociale che ne stanno derivando. Alla povertà che sta aumentando, a tutte le situazioni di bisogno, sia fisico che psicologico. Ai medici e infermieri che si mettono al servizio dei loro pazienti, ma in realtà di noi tutti, più di quanto un contratto di lavoro possa esprimere.

Pensiamo all’aumento in Italia e nella vicina Europa dell’intolleranza verso i migranti e le minoranze, pensiamo a quello che possiamo fare per accogliere fratelli e sorelle in cerca di rifugio, che in fuga abbandonano le loro stesse case e lasciano indietro tutto quello che possiedono.

Pensiamo anche alle nostre comunità, al servizio che possiamo ricevere e dare gli uni agli altri.

Oggi ricorrono i 3 anni di attività del Breakfast Time, l’esperienza che porta la nostra comunità sulle strade della nostra città per offrire un aiuto, piccolo per le dimensioni delle nostre possibilità, grande per chi lo riceve.

Il breakfast time ci dà la possibilità di vivere concretamente la nostra fede. Ogni persona che offre il proprio servizio al Breakfast Time lo fa con il suo dono personale: chi ha tanta cura nel preparare la colazione con i panini assortiti per soddisfare le varie esigenze delle persone che andiamo ad incontrare, chi si cura di preparare il latte ed il caffè e di lavare accuratamente tutte le pentole, di preparare il vestiario da distribuire, chi si occupa dell’organizzazione dei turni, chi ci incoraggia con parole di entusiasmo e chi dà un contributo economico.

Nella comunità, nella Chiesa ognuno trova un luogo per esprimere il proprio servizio.

Care Francesca, Gladys, Maria, Tatiana, oggi entrate a far parte di questa stessa comunità, essa si fonda sulla testimonianza di tutti i suoi membri ed anche della vostra. E reciprocamente questa comunità ha la responsabilità di accogliervi, perché è la Chiesa che avete scelto per esprimere il vostro servizio, in cui avete scelto di vivere e testimoniare la vostra fede. Noi tutti siamo qui oggi per il servizio che ci è stato reso, nel battesimo, nella lavanda dei piedi, nei fratelli e sorelle che ci hanno accolto.

Matteo 20, v26-28.

“Non sarà così tra voi, ma chi tra voi vuole diventare grande sarà vostro servitore e chi tra voi vuole esser primo sarà vostro servo. Perché il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti”

Gesù dice ai discepoli, a tutti noi, c’è un modo per fare la volontà di Dio, nella pienezza della nostra umanità, una modalità che tutti possono mettere in pratica, che apparentemente va contro le logiche umane, dove la vittoria non è nel successo, ma nel servizio vissuto con amore e assunto come stile di vita, sull’esempio di Gesù che si è fatto servitore. E’ un capovolgimento di prospettiva, in cui la grandezza dell’uomo si misura su parametri completamente diversi dalla logica corrente: sulla gratuità, il dono di sé, l’ascolto, il servizio, la generosità condivisa con i fratelli, con la premura per coloro che sono in condizioni di difficoltà. Questa è anche una via che porta alla serenità del cuore, il potere dell’amore verso il prossimo, la solidarietà verso i più deboli. Un cuore che ama e che vive il servizio verso gli altri è un cuore libero che sa gioire di ogni  più piccola cosa.

Per concludere mi piace pensare alla reazione di Pietro. Era riluttante ad accettare il servizio di Gesù,

“Non mi laverai mai i piedi!”

ma nel momento stesso in cui ha capito che farsi lavare i piedi da Gesù era l’unico modo per comprendere e seguire realmente il suo Maestro, a lui risponde con entusiasmo,

“Signore, non solo i piedi, ma anche le mani ed il capo”, dice, cioè tutto quanto, completamente.

Preghiamo il Signore affinché anche noi, insieme alle nostre sorelle Francesca, Gladys, Maria e Tatiana, possiamo esprimere nel nostro servizio lo stesso entusiasmo, rendendoci servitori gli uni agli altri.

Grazie!

Roma La solidarietà non va in lockdown

L’attività del gruppo Breakfast Time della capitale a favore dei senzatetto non si è fermata

di Francesca Agrò da Riforma

In questo strano periodo del Coronavirus dove, sono convinta, nessuno sarà più lo stesso di prima, non sono state sconvolte soltanto le nostre vite di persone più o meno benestanti con un’occupazione e un tetto sopra la testa, ma anche e soprattutto quelle di chi una casa, già prima della pandemia, non l’aveva e dormiva per strada. Dacché infatti queste persone potevano contare su almeno un pasto al giorno da parte delle varie associazioni sul territorio, con il diffondersi della pandemia anche questa loro piccola certezza è venuta a mancare.

Se anche per noi è stato un cambiamento epocale, non riesco a immaginare che cosa sia stato per loro il Coronavirus, quando da un giorno all’altro, senza nessuno che li avvisasse, hanno iniziato a vedere sempre meno gente in giro, le saracinesche dei negozi che si abbassavano e sempre meno occasioni per potersi sfamare.

In questo contesto, anche noi come realtà del Breakfast Time, gestita dalla chiesa metodista di via XX Settembre e attiva da oltre due anni, ci siamo trovati a interrogarci su quello che fosse giusto fare e alla fine, nel confronto tra chi proponeva di interrompere e chi voleva andare avanti seppur con tutte le cautele, ha prevalso la disponibilità di 10 volontari ad alternarsi in turni di 3 o 4 persone per mandare avanti il servizio anche durante il lockdown. Non nascondiamo che accanto alla voglia di esserci c’è stata anche la paura, soprattutto il 15 marzo, di non trovare le persone, di non sapere a che cosa andavamo incontro, paura di incontrare il virus. Tuttavia dopo pochi giorni, il 20 marzo, la Regione Lazio ci è venuta in aiuto emanando un’ordinanza che includeva il volontariato tra i motivi di necessità per uscire di casa. Così, con l’autorizzazione firmata dalla Tavola valdese, il servizio ha potuto continuare a offrire la colazione ai più bisognosi ogni domenica mattina. I volontari che tutt’ora mandano avanti il servizio: Erica Correnti, Adriana Bruno, Marco Davite, Norie Castriciones, Daniele Doria, Antonella Mastrangelo, Piero e Thanat Pagliani, Fabrizia Sepe e Francesca Agrò.

Naturalmente, anche noi abbiamo dovuto adeguarci alle normative: durante la fase 1, oltre alla solita pettorina di riconoscimento, ci siamo muniti di mascherine e guanti e ci siamo premurati di far mantenere la distanza di un metro, cosa di cui non c’è stato quasi mai bisogno perché spesso sono stati i nostri amici a rispettare per primi queste regole, pur essendo in questo periodo più in ansia, qualcuno anche più arrabbiato e più smarrito del solito.

Inoltre, le persone da servire sono molto aumentate, in alcuni punti si sono create anche delle nuove tendopoli, così da 35-40 sacchetti per domenica si è iniziato a distribuirne 70, a volte anche 85, con un menù più ricco. Dall’inizio dell’emergenza ogni sacchetto comprende un panino, un uovo sodo, un frutto, un succo di frutta, due merendine e, per l’igiene personale, un pacchetto di fazzolettini e una saponetta. A chi ne chiede vengono distribuite anche lamette da barba, qualche capo di vestiario e/o mascherine protettive. Anche i bisogni sono cresciuti, spesso ci viene chiesto dove potersi lavare perché molti bagni sono stati chiusi.

La Tavola valdese non ha mai fatto mancare il suo supporto spirituale e materiale e in una mail inviataci la domenica di Pasqua la moderatora ci ha fatto pervenire un pensiero evangelico che ci ha commosso: “Questa mattina il Signore Risorto lo avete incontrato nel vostro cammino”. E anche noi ne siamo convinti: nell’incontro con chi ha più bisogno, nel rispetto da loro mostrato nel non avvicinarsi troppo e nel sapere aspettare il proprio turno, nei sorrisi e nelle parole gentili che abbiamo ricevuto, sappiamo di non essere mai rimasti soli, perché Gesù era con noi. “In verità vi dico: tutte le volte che avete fatto ciò a uno dei più piccoli di questi miei fratelli, lo avete fatto a me” (Matteo 25, 31)

 

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Chiesa Predicazione Servizio

Un corso pomeridiano presso la Facoltà Valdese di Teologia, per il secondo semestre, verte sul tema “Predicazione e Diaconia”.

Il corso tenuto principalmente dal prof. Fulvio Ferrario è aperto a studenti e uditori esterni.

Rivolgendosi alla segreteria della facoltà si possono avere tutte le informazioni sul corso.

qui il programa completo

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Farsi prossimo

Care sorelle e cari fratelli, dovrete sopportarmi in questi minuti in cui cercherò di riflettere insieme a voi partendo dal nostro servizio e dal brano scelto per oggi.

“Non ho tempo per avere fretta”. Questa la frase di Wesley che campeggia sulle nostre magliette, e che mi sembra adattissima oggi, insieme alla canzone scritta da Giorgio Gaber negli anni 70 “C’e solo la strada”, che recitava che bisogna ritornare nella strada perché in casa ti allontani dalla vita, dalla lotta, dal dolore e dalle bombe.

Tempo Fretta Strada.

Veniamo al nostro brano. Un italiano stava scendendo dalla stazione Termini verso piazza Venezia. Arrivano degli uomini e gli chiedono dei soldi; al diniego lo riempiono di botte e, rubandogli tutto, lo lasciano moribondo sul ciglio di via Nazionale. Passa un sacerdote, un pastore, un rabbino lo vede e passa oltre. Passa una suora, un diacono/a, lo vede e passa oltre. Passa un uomo di colore (un extracomunitario, oppure un rom, un disabile, anche qui mettiamoci la categoria che preferiamo), lo vede, si commuove e si ferma. Ecco una nelle migliaia di possibilità che racconterebbe forse oggi Gesù se camminasse e predicasse nella nostra Roma.

Il nostro brano, che inizia con una discussione teologica molto usuale tra i rabbì del tempo di Gesù, si potrebbe dividere in quattro scene.

“Si alzò” dice Luca. Domanda per avere una risposta o per mettere alla prova Gesù, quasi per sfidarlo? I nostri rapporti, le nostre discussionisono per crescere insieme o solo per mettere in difficoltà l’altro?  Gesù non cade nella trappola e mischia le carte, e distruggendo le certezze della prassi consolidata,  preferendo il piano morale a quello cultuale: alla giustizia della religione antepone un’altra giustizia, quella perla persona.

In alto c’è Gerusalemme, con le sue mura sicure,  la certezza di essere la città di Dio, protetta, bella, dove la presenza di Dio si palpa. Molto più giù c’è Gerico, pensate ad un dislivello di oltre 1000 m, la città dove risiedevano moltissimi sacerdoti. La strada tra le due città è aspra, desertica, piena di imprevisti e pericoli. Un uomo scende…

Scende dalla città di Dio alla città degli uomini. Una strada che da Dio porta lontano da Gerusalemme, porta verso la testimonianza verso l’uomo. L’uomo che scende non ha aggettivi, non è descritto. È un uomo e basta.

Chi era? anzi, chi è? Chi è oggi? Non ha nome, non ha una carta d’identità (tanto meno il samaritano gli chiederà documenti). Non un segno per sapere chi fosse, anzi chi sia, chi è. Poteva essere,  può essere, è un ebreo o un palestinesi; un ragazzo o un vecchio, un ricco o un povero, un onesto o un disonesto; può essere un bianco, un nero, un europeo, un americano, un cinese; può essere un cattolico, un evangelico, un musulmano… Può essere perfino un brigante anche lui; un assassino… Ma è sempre un rischio fermarsi non ad aiutare ma perfino a guardare.

Questo uomo che scende è uno dei tanti compagni di strada del Breakfast Time che dormono nelle vie vicino al nostro tempio.

Di quest’uomo non si sa il nome e il cognome, ma in compenso abbiamo molti particolari; un incalzare di note, una più grave dell’altra: spogliato, percosso, abbandonato, emarginato. È il Vangelo a dire “mezzo morto”, non mezzo vivo: un Vangelo che tende al peggio.

Un uomo: uno dei tanti uomini spogliati, percossi, umiliati, sfruttati, offesi, morenti, abbandonati ai margini della cosiddetta civiltà, ai margini delle grandi arterie della vita, delle organizzazioni criminali dei barconi, dell’industria, del commercio illegale delle nostre vie; abbandonati al limitare del deserto o nei lager libici; o ricacciati indietro verso i loro aguzzini. Un uomo di molti uomini; centinaia di milioni di indiani, di africani, di asiatici, di cinesi.

Il secondo momento è il penoso spettacolo della durezza, della indifferenza del sacerdote e del levita. Che camminano, vedono e passano oltre. Vedono con uno sguardo vuoto, con negligenza. La loro indifferenza è la nostra di fronte a molte situazioni. È la nostra immagine. Vediamo e passiamo oltre. Per rispettare una legge, per la fretta, perché guardiamo senza osservare, perché……

Non osserviamo perché la fretta ci impedisce di osservare.

PIGRIZIA, INCERTEZZA, INERZIA, TIMIDEZZA, PAURA, NEGLIGENZA

Queste sono le parole che fanno da sfondo all’atteggiamento del sacerdote e del levita. Sono le stesse che incontriamo camminando sulle strade della nostra città. Parlando tra noi, alcuni hanno condiviso la stessa preoccupazione: paura ad incontrare i “barboni”. Paura. Io stesso, quando con Luciano abbiamo proposto il servizio, avevo una grandissima paura. L’uomo della strada era stato per me sempre un tabù. Un pericolo, uno da aiutare, ma a debita distanza. Quasi da non toccare, figurare parlarci, fermarsi.

Tra il gesto criminale e l’aiuto del samaritano c’è un intervallo temporale importante: è il momento dell’egoismo del sacerdote e del levita che passano oltre. Questo atteggiamento è di ognuno di noi. Pensiamo a quando incontriamo dei barboni, dei neri, dei rom, delle persone sporche, con malattia della pelle, che puzzano.

Passare oltre:

per indifferenza …. Non mi interessa;

per fretta ….Devo fare cose più importanti;

per paura….. Cosa dirò, cosa farò.

 

Trovare una scusa è la cosa più semplice.

Passare oltre perché tante cose sono più urgenti, importanti. Più importanti di Ivan senza stampelle, dell’americano senza pantaloni, o di Christine senza vocabolario, di Agrid che ti fa un favore a prendere i nostri panini, ed oggi per la prima volta li ha rifiutati.

La fretta della società di oggi è la modalità del non fermarsi. Tutto è già vecchio appena lo leggo o lo scrivo, o lo posto sui social. Tutto vale un attimo sui social o nell’universo web.

E ciò che nella “non fretta” andrebbe coltivato diventa difficile, complesso, da aver paura, compresi i rapporti tra persone che hanno bisogno di tempo, di calma, di vissuti da condividere e sicuramente non di fretta.

E la fretta crea troppe volte rapporti anonimi, lontano dai sentimenti e dai vissuti.

Una delle cose belle del nostro giro è il fermarsi, e dopo alcuni mesi, parlare, chiedere un semplice come stai, è un fidarsi loro di noi e noi di loro. È un non passare oltre al prossimo senza fissa dimora perché ho due-cinque minuti a persona.

Farsi prossimo è creare  relazione. Ma una relazione  necessita di tempo.

Noi non abbiamo fretta, non abbiamo l’orologio che detta e che impone, che ci rende frenetici. Abbiamo tempo per loro, ma soprattutto per noi.

Ancora le frase di Wesley allora: non ho tempo per avere fretta.

Nella fretta del sacerdote e del levita c’è anche un’altra realtà: la paura di impegnare la propria persona.

Come ricordavo prima, la paura anche nel nostro Breakfast Time in molti di noi c’era. Paura nel non sentirsi capaci di relazionarsi con l’altro sconosciuto. Ma abbiamo vinto la paura, le pretese possessive, verso solo ciò che ci piace, che non costa fatica, che impone il fermarsi e sprecare tempo. Paura di impegnarsi in prima persona.

Noi questa paura l’abbiamo vinta. Nella consapevolezza che non puoi risolvere la povertà nel mondo, il problema degli alloggi, del lavoro per tutti ecc. ecc.Possiamo cambiare la vita di queste persone? No, ma possiamo “curare” e far curare. Infatti cerchiamo di indirizzare e dare indicazioni utili. Ma non potremmo mai risolvere. Anche perché molti di loro forse neanche lo vogliono.

Terzo momento: è carico della parola “fu mosso a compassione”. Che letteralmente nel vangelo di Luca indica l’essere preso alle viscere, come un morso, un crampo allo stomaco, uno spasmo, una ribellione, qualcosa che si muove dentro. È il cuore e la pancia. È la com-passione, è la passione con, insieme, è la commozione attiva, è la pietà, non il pietismo, è la Carità, non l’essere caritatevole alla Teresa di Calcutta. Non solo i buoni sentimenti, ma il dinamismo. Il samaritano passa con sguardo attento e risponde con l’azione.

I cammini del sacerdote, del levita e del samaritano sono gli stessi: solo che i due sono in compagnia di loro stessi e di un Dio-legge, l’altro invece è in cammino attento. L’attenzione ci fa aprire a nuove esperienze, ci fa nascere domande. Lui fa esperienza sul valore della persona, e questa esperienza gli dischiude nuove potenzialità relazionali e lo ha spinge a farsi prossimo.

Il samaritano è l’opposto dei due personaggi precedenti. Non va al tempio di Gerusalemme, non può; non ha paura di contaminarsi, perché per un ebreo osservante lui è già immondo in quanto samaritano.

Egli, emarginato religiosamente, non ha preoccupazioni cultuali. È capace di essere umano, di rimanere umano e provare compassione.

Quanto è difficile oggi rimanere umani. Basta guardare quello che accade intorno a noi. Momaude o la ragazza sul treno Milano-Venezia. Non ci indigniamo più neanche. Sommiamo i casi in una assuefazione che ci fa essere meno umani volta per volta.

Il samaritano nell’incontro e nella cura diventa più umano, anzi resta umano. La società, se ci lasciamo avviluppare, vincere da lei, ci rende meno umani. Pensiamo alle nuove politiche per le migrazioni, pensiamo alla società che sta distruggendo il creato, dono di Dio. Pensiamo alla logica del furbo. Ma soprattutto alla lenta infezione del silenzio di fronte alle piccole o grandi furberie. O ai germi di razzismo che stanno lievitando.

Il samaritano invece si fa prossimo perché si avvicina, si approssima, sana come se fosse se stesso, non bada alla fede, alla nazionalità, allo status sociale.

Quarto momento: il samaritano si prende cura, fascia le ferite nel presente e nel futuro. Non  abbandona il ferito al proprio destino. Prendersi cura è non fermarsi al presente, ma cercare di cambiare il futuro.

Se sono salvato e amato, non posso che vivere questo amore e questo bene, questa salvezza nel mio mondo, nel mio territorio, nelle mie relazioni vicine, prossime.

Se poniamo questo brano in relazione con Mt 25 una cosa che colpisce è che Dio non chiede quanto mi hai amato, quanto hai pregato, ci chiede come il suo amore, la sua salvezza sia stata condivisa con l’uomo e la donna vicino a noi. Non è il quanto che salva, ma il farsi prossimo perché siamo amati e salvati.  Il brano di Luca ci pone non tanto la domanda chi è il mio prossimo, ma chi si è fatto prossimo. Gesù ribalta il tutto in un gioco: certo, il derelitto è il mio prossimo, ma io sono capace di farmi suo prossimo?

E farsi prossimo è avvicinarsi all’uomo e alla donna con la stessa “tenerezza” di Dio, sincera e operosa. Anche piccola all’inizio, perché è un cammino di crescita. Non è che oggi decido di farmi prossimo.

Nel farmi prossimo grido, mi indigno, denuncio, condanno le ingiustizie, le violenze, le povertà, in una parola il non amore.

Una bellissima cosa nel nostro Breakfast Time è l’assenza di delega. Che bravi che siete, continuate anche per noi. Vi deleghiamo, rappresentate la comunità.

Tutto questo non credo che l’abbiamo vissuto o sentito. Almeno io no, anzi ho respirato il contagio continuo di fratelli e sorelle che, anche se non possono venire, si sono interrogati su come essere prossimi insieme a noi. Come farci sentire che ci sono anche loro. E vi confesso che sentiamo che non siamo delegati vostri, ma siamo noi tutti insieme a fare questo. Ognuno con le proprie possibilità.

In un momento in cui il disinteresse per chi è in difficoltà è un leit motiv della nostra società, dove le guerre tra poveri è sono un arma sociale per conquistare visibilità e voti, abbiamo riflettuto che il nostro no era rispondere I care. A non è un mio problema, non possiamo accogliere tutti, non possiamo aiutare chi vive in strada ecc, noi abbiamo cercato di rispondere I care. Mi stai a cuore, è un mio problema perché sei mio fratello e mia sorella. I care è farsi prossimo.

Non chiediamoci quindi chi è il mio prossimo, ma chiediamoci a chi ci approssimiamo. Essere prossimo dipende da noi. Ed essere prossimo di qualcuno ci fa comunicare vita. Nel senso più piccolo: un sorriso, una parola, far sentire l’altro soggetto della mia relazione, non oggetto. Senza chiedere nulla in cambio, senza aspettarsi neanche un grazie, che però viene quasi sempre offerto.

L’incontro tra noi e con loro. Non come slogan bello, ma come vita vissuta. C’è chi non vuole parlare, chi ti vuole raccontare tutta la sua vita in tre minuti. Chi dorme e lasciamo lì e andiamo via. Chi ti guarda con meraviglia. Chi ti benedice non per il sacchetto ma perché vuoi incontrarlo come persona,  perché lo rendi importante e degno di un incontro. O la trans sudamericana che ti chiede un parrucchiere per essere bella per il suo compagno, alcolizzato che vive accanto a lei a cui sistema maglia e capelli e lo bacia teneramente.

E farsi prossimo è creare un rapporto di reciprocità. Perché noi non diamo soltanto, ma anche riceviamo, in termini di doni spirituali:

  • innanzi tutto i nostri amici ci insegnano l’ umiltà.  perché ci dicono dei no: a volte rifiutano il cibo, a volte disprezzano quello che diamo loro, chiedendo qualcosa di diverso, o fanno gli schizzinosi, pregandoci, ad esempio, di non toccare il bicchiere con le nostre mani. Ci rimaniamo male: perché? Perché diamo per scontato che il nostro buonismo deve essere apprezzato, ci sentiamo superiori, ma loro ci riportano su un piano di parità.
  • la solidarietà. Queste persone, che vivono nell’indigenza e hanno bisogno di tutto, hanno un pensiero per gli altri: per la compagna che sta mendicando altrove, per l’amico che si è allontanato. Sono pronti a condividere.Si accontentano di quello che diamo, non si approfittano, non chiedono denaro
  • infine la serenità. Queste persone non sono arrabbiate col mondo, non si lamentano, non piangono, non cercano di impietosire col racconto dei loro guai: sorridono, ringraziano, ci benedicono, ci augurano buona domenica, ci trasmettono una serenità interiore che non ha prezzo.

L’amore di Dio che ci riempie, ci renda disponibili ad imitare, a donare, a testimoniare l’amore scoperto, riconosciuto e vissuto.

Amen

 

Fabio Perroni

Protetto: Prossimi gruppi del BreakfastTime

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La Parole e le parole da portare

Sermone su: Isaia 50,4-9

Care sorelle e cari fratelli,

Tra le mille notizie drammatiche di questi giorni, colpisce per la sua particolare tragicità la morte di una donna al settimo mese di gravidanza, respinta al valico alpino dalle autorità francesi. L’ennesima storia di povertà, emarginazione, fuga alla ricerca di una vita nuova… negate e recluse da un sistema che ormai non riesce più a gestire in maniera umana i poveri che esso stesso produce. Lo sanno bene anche quelli tra noi che, all’alba della domenica, vanno a distribuire le colazioni ai senzatetto intorno a piazza della Repubblica.

Per capire meglio il problema, ho appena finito di leggere un libro di S. Baumann, Le nuove povertà. La sua analisi ci fa capire come la povertà sia stata percepita dalle culture umane nel tempo in modi molto differenti. Nel medioevo il povero garantiva a se stesso e al ricco la salvezza eterna. Con la modernità il povero diventa un potenziale operaio, in attesa di essere impiegato nella fabbrica e di svolgere il suo ruolo sociale; il welfare state è stato inventato anche per garantire che, in questo tempo di attesa, la situazione non degenerasse. Oggi, il capitale ha imparato a fare altissimi profitti con poca manodopera, e così i poveri sono diventati un peso inutile per l’economia. L’assistenza sociale è sempre più vista come insostenibile e ideologicamente ingiustificata. Si arriva così alla criminalizzazione del povero e dallo stato sociale si passa a quello di polizia, come ci insegnano gli Stati Uniti, il cui sistema carcerario è teso esattamente a questo fine. Il problema è che ci stanno convincendo con tutti i mezzi possibili che questo modo di pensare sia quello giusto. Ricordiamoci solo, però, che cosa è successo i Germania quando alcuni gruppi sociali sono state bollate come un inutile peso, anzi, come un pericolo per l’odine sociale…

Ebbene, ci tengo a dire che oggi, domenica delle Palme, noi ci prepariamo a festeggiare la Pasqua con la convinzione che non solo tutto questo è sbagliato, ma che c’è un’alternativa ben precisa. Gesù entra a Gerusalemme facendo capire che lui è il Signore del mondo e che in lui tutte e tutti noi, a partire proprio dai poveri e dagli emarginati, abbiamo un’altra possibilità. I poteri di questo mondo capiscono al volo il significato dell’azione di Gesù e, infatti, cercano di toglierlo di mezzo. Dio, però, lo resuscita e rimette in gioco la vita di tutti quelli che si fidano di lui. Nel Cristo risorto un nuovo sistema di valori, una nuova percezione della vita e dei rapporti umani è possibile, e noi siamo chiamati a realizzarla. Ma come?

La parola di Isaia ce ne dà un esempio eloquente. Nel “terzo canto del servo”, il profeta è rappresentato come colui che ha il dono di parlare come un maestro, ma che ogni giorno deve prima di tutto ascoltare la voce di Dio, proprio come uno scolaro. Eppure il profeta ne ha di esperienza, ha un rapporto diretto con Dio, è uomo che conosce il suo tempo e la sua gente. Proprio la sua condizione di profeta lo porta allo scontro duro con i suoi avversari, contro coloro, cioè, che non possono accettare la Parola del Signore, e quindi tormentano e perseguitano il profeta. La prima cosa che fa, però, e di mettersi in ascolto della parola di Dio: anche lui deve ricevere ogni giorno l’insegnamento dal Suo Signore, proprio come uno scolaretto. Ogni mattino il Signore apre il suo orecchio alla Sua parola, che lo ammaestra. La stessa cosa vale per ogni discepolo del Signore. Abbiamo il dono grande, direi il privilegio, di poter portare al mondo la parola di Dio, ma siamo anche chiamati all’umiltà di aprire ogni giorno la Bibbia e imparare, affinché le parole di Dio non si confondano con le nostre parole. Perfino i discepoli di Gesù, che erano con lui ogni giorno, riuscirono a comprendere quel che era avvenuto la domenica delle Palme solo dopo aver ricevuto la buona notizia della resurrezione.

A proposito dell’ascolto della Parola, in questi giorni sta accadendo un fatto che non ci può lasciare indifferenti: fine mese chiude l’agenzia italiana della Società Biblica Britannica e Forestiera. Chiude dopo 210 anni di lavoro capillare per la diffusione della Bibbia in questo paese. Senza il suo servizio il protestantesimo italiano non esisterebbe. Tocca alla Società biblica in Italia trovare le modalità per portarne avanti l’eredità, ma questo sarà possibile solo se troveremo le forze per farlo: le nostre chiese credono ancora nel progetto della diffusione della Bibbia? In questi tempi di crisi, cioè di “giudizio”, il mondo ha bisogno di persone che sappiano vivere coraggiosamente la loro vocazione ad essere gli araldi dell’evangelo, pur nell’umiltà di chi sa farsi discepolo ogni giorno, per aiutare con la parola chi è stanco.

Solo se ci saremo posti all’ascolto dell’evangelo, della Parola, potremo agire in questo mondo per dire ad alta voce che un’altra via è possibile, che si può vivere la nostra relazione con l’altro e con l’altra partendo dall’amore di Dio. C’è una speranza per tutte e tutti, anche e soprattutto per i poveri, per gli emarginati, per quella gente che oggi l’economia considera un peso inutile. E, anche se ci sentiamo stanchi e demotivati, e se vediamo intorno a noi persone che hanno perso la speranza, ricordiamoci la nostra vocazione ad essere araldi della Buona Notizia! Il mondo ha bisogno di una parola di conforto: gli sfruttatori sono sotto il giudizio di Dio, il quale sta dalla parte delle vittime e propone a tutti, in Cristo, una via di riconciliazione tra esseri umani e tra esseri umani e Dio. Dobbiamo trovare il coraggio di dirlo a muso duro come il profeta, perché in questo il Signore ci accompagna. Abbiamo bisogno di farlo anche nei piccoli gesti quotidiani che possono sembrare una goccia d’acqua nell’oceano, ma che conservano il loro valore di testimonianza. Pensiamo al progetto delle colazioni ai senzatetto, pensiamo anche ad un progetto lontano nello spazio ma che la nostra chiesa, tramite l’8×1000 ha deciso di finanziare: la ricostruzione della casa delle donne di Kobane, nel Kurdistan. I curdi sono di nuovo sotto attacco e forse questa volta saranno i turchi a distruggerla un’altra volta. Ma noi saremo con chi vorrà ricostruirla, testardamente, perché là dove c’è violenza, ingiustizia, sopraffazione, noi dobbiamo essere presenti con gesti profetici.

Gesù, dunque, viene a Gerusalemme come luce del mondo, per una sua ultima e definitiva manifestazione come Messia, come Signore di questo mondo. C’è ancora una possibilità per i suoi contemporanei, ma i suoi avversari irrigidiscono ancora di più la loro posizione e si preparano ad ucciderlo. Come il servo sofferente di Isaia, egli si prepara al martirio, ad obbedire fino alla fine. I suoi discepoli guardano la scena, ma non comprendono. Capiranno dopo la resurrezione. Noi siamo come loro, chiamati ad una vocazione importante, ma allo stesso tempo discepoli, che devono imparare e studiare ogni giorno. Per poter così portare con coraggio, testardamente, quella parola che dischiude il senso della vita, che svela la verità, che ci aiuta a comprendere le contraddizioni di questo mondo e le nostre. Quella parola che siamo chiamati a portare e che, sola, può rimettere in piedi chi è stanco, liberare chi è oppresso, e manifestare la luce là dove sono le tenebre.

Amen

prof. eric Noffke

Riforma su Breakfast Time Roma

Quando il buon esempio è contagioso

Dopo Milano, anche la chiesa metodista di Roma attiva Breakfast Time, servizio di aiuto ai senzatetto

In questi giorni di freddo intenso e neve, si intensificano le iniziative per aiutare le persone più bisognose: stazioni ferroviarie che diventano dormitori, volontari armati di coperte e cibi caldi che “pattugliano” centri e periferie per portare conforto a chi vive in strada.

Esattamente un anno fa avevamo parlato qui dell’iniziativa nata all’inizio del 2016 all’interno della comunità metodista di Milano, battezzata Breakfast Time. Un buon esempio che è risultato “contagioso”, infatti anche la chiesa metodista di Roma ha da poco avviato un progetto analogo. Stesse pettorine rosse, stesso calore umano accanto a quello “fisico” delle bevande e delle coperte, stessa voglia di aiutare i meno fortunati.

Domenica 25 febbraio c’è stata la prima uscita, come ha raccontato ai microfoni di Radio Beckwith evangelica Fabio Perroni, uno dei coordinatori, che spiega: «L’esperienza di Milano è stata contagiosa, ci è piaciuta fin dall’inizio. I fratelli e le sorelle di Milano ci sono stati molto vicini con i loro consigli, una di noi è andata a Milano per vedere il loro lavoro, ma anche l’approccio con le persone. Ad esempio ci hanno insegnato come approcciarci, non svegliarli se stanno dormendo, interagire se lo vogliono, ma senza disturbare troppo. Abbiamo copiato quasi tutto, a cominciare dal nome della iniziativa, che in questo modo diventa più riconoscibile».

L’esempio di Milano è stato utile anche nel stabilire la cadenza: «Inizialmente si era pensato a una cadenza quindicinale, ma i fratelli di Milano ci hanno consigliato di cominciare subito con un appuntamento settimanale, più facile da ricordare. Abbiamo accettato il consiglio, vista la situazione di emergenza di questi giorni e anche perché il numero di volontari che hanno aderito è stato più alto del previsto».

Il gruppo è formato da una quindicina di volontari, che si alterneranno in gruppi di 5 nelle varie uscite domenicali. Per il momento sono tutti membri della comunità metodista, ma si prevedono anche delle collaborazioni con associazioni e chiese sensibili. Infatti, spiega Perroni, «abbiamo già preso contatti con il portale Roma altruista che fa da trait d’union fra volontari e associazioni che cercano volontari per le proprie iniziative, in modo poterci avvalere anche di volontari che provengono da altre realtà». Inoltre, spiega ancora Perroni, «è già arrivata la disponibilità della parrocchia cattolica vicina al tempio metodista per alcuni pacchi alimentari, e durante la settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, a fine gennaio, hanno fatto una colletta per questo progetto».

L’avvio della parte operativa giunge dopo 3-4 mesi di organizzazione e confronto fra le varie persone disponibili, con alcuni «sopralluoghi per vedere dove si fermavano maggiormente le persone, in modo da organizzare un itinerario di circa un’ora e mezza di servizio, che ruota nella zona intorno al tempio metodista: via Nazionale, piazza Esedra, ministero del Tesoro, via XX settembre, fino al teatro dell’opera, via Torino, tutte zone centrali vicino alla stazione Termini».

Il lavoro dei volontari prevede anche la preparazione della “colazione” solidale: «Prepariamo noi i cibi nella cucina nei locali della chiesa, e portiamo le bevande nei termos In questi giorni la cosa più importante è una bevanda molto calda, poi per questa prima uscita abbiamo offerto un panino con frittate e verdure, una merendina e un frutto».

Sul sito www.metodistiroma.it si trova una pagina dedicata al progetto con un form da compilare per segnalare la propria disponibilità. C’è anche una pagina Facebook per seguire le attività del gruppo, Breakfast TIME – ROMA (https://www.facebook.com/BreakfastTimeRoma/).

Radio Beckwith parla di Breackfast Time Roma

Anche la chiesa metodista di Roma propone il Breakfast Time. Un progetto di solidarietà e di diaconia, offerto alle persone senza fissa dimora del quartiere.

Iniziata all’inizio di questo 2018, prende spunto dall’omologa iniziativa della chiesa metodista di Milano, di cui abbiamo parlato in questo articolo su Riforma.it.

Un gruppo di una quindicina di volontari ha impostato il lavoro in questi mesi, cercando anche collaborazioni con associazioni e chiese sensibili.
Domenica 25 febbraio c’è stata la prima uscita sul territorio, per offrire ai senzatetto una bevanda calda e un piccolo sacchetto di viveri. L’obiettivo è quello di distribuire una trentina di colazioni nelle zone limitrofe al tempio di via XX Settembre, fra Palazzo Massimo, Teatro dell’Opera, via Nazionale e piazza della Repubblica.

Ne parliamo con Fabio Perroni, della chiesa metodista di Roma, uno dei coordinatori di Breakfast Time.

Sul sito www.metodistiroma.it si trova un form che si può compilare per segnalare la propria adesione al progetto.

Qui per ascoltare l’intervista