In memoria di lei

9 aprile 2017

Maria di Betania unge il capo a Gesù Lu 7:36-50
Gesù era a Betania, in casa di Simone il lebbroso; mentre egli era a tavola entrò una donna che aveva un vaso di alabastro pieno d’olio profumato, di nardo puro, di gran valore  ; rotto l’alabastro, gli versò l’olio sul capo. Alcuni, indignatisi magari geloso o invidiosi di Gesù, dicevano tra di loro: «Perché si è fatto questo spreco d’olio? Si poteva vendere quest’olio per più di trecento denari, e darli ai poveri». Ed erano irritati contro di lei. Ma Gesù disse: «Lasciatela stare! Perché le date noia? Ha fatto un’azione buona verso di me. Poiché i poveri li avete sempre con voi; quando volete, potete far loro del bene; ma me non mi avete per sempre. Lei ha fatto ciò che poteva; ha anticipato l’unzione del mio corpo per la sepoltura. In verità vi dico che in tutto il mondo, dovunque sarà predicato il vangelo, anche quello che costei ha fatto sarà raccontato, in memoria di lei».

 

Cara comunità, oggi è la domenica delle Palme, ricordiamo il giorno in cui la gente aveva osannato Gesù: il Benedetto del Signore.

Oggi è esattamente la domenica che precede il tempo in cui sarebbe avvenuta  la risurrezione secondo il nostro calendario liturgico.

Il testo che abbiamo letto è molto ricco di spunti di riflessione: la donna senza saperlo ha compiuto un qualcosa di buono, che l’ha resa indimenticabile, e Gesù ha ritenuto che quell’azione della donna sia stata  eccezionale…nonostante  i discepoli  manifestassero la loro obiezione a questo gesto. Ciò, però è da non sottovalutare. La loro obiezione di non sprecare quel profumo,  testimonia oggi, che per noi che seguiamo le  orme di Gesù, il fare del bene ai poveri è un compito  doveroso e costantemente da compiere e affidato a noi finché siamo in vita. Come dice il versetto 7 di questo brano: << Poiché i poveri li avete sempre con voi; quando volete, potete far loro del bene; ma me non mi avete per sempre>>. La povertà e  quindi i poveri ce li carichiamo perché Gesù ha dato la sua vita per loro. Siamo forse  tutti noi quei poveri cominciando da questi suoi discepoli di allora?

L’azione della donna però  è  stata talmente buona che accompagnerà l’annuncio dell’evangelo, quella che sarà la buona notizia che subito dopo questa scena compirà Gesù, soffrendo fino alla sua morte per amore dei suoi discepoli, amici e per l’intera umanità.

Questa è la buona notizia che sarà annunciata, predicata, proclamata insieme all’azione della donna, perché è stata compiuta, nel tempo giusto e nel momento opportuno. Ciò che ha fatto la donna su Gesù e la risposta di Gesù sarà divulgato in memoria di lei, per la gloria del Dio Santo, e diventerà la parola evangelica che oggi stesso  potrebbe rafforzare il senso del nostro vivere, meditando il contenuto di questo brano e ciò che lo seguirà come il racconto della passione di Gesù.

Quello che hanno fatto Gesù e la donna  insieme sono  l’evangelo per noi oggi, perché è stato ritenuto giusto secondo le Scritture, il  Signore Gesù è colui  che ci ha donato  la nostra vita, e appartenendogli  facciamo parte della vita eterna.

Voi  lo credete? Il gesto della generosità e riverenza di Maria (forse di Betania)nei confronti di Gesù, ungendolo dal capo ai piedi con quel profumo, nel contesto in cui è  compiuto, ha inaugurato  il motivo centrale  dell’avvicinamento del tempo della sua passione.

Il titolo di questo brano è Maria di Betania unge il capo a Gesù, ma leggendo il brano ha parlato sempre di una donna .

Comunque, Maria è un nome molto conosciuto nel Nuovo testamento e in particolare in relazione con la vita di Gesù. E con una donna di nome Maria che Gesù ha avuto relazioni profonde nei diversi momenti della sua vita.

Sappiamo che Gesù era nato da una donna che si chiamava Maria. È stata lei che lo ha messo  al mondo. L’ha allevato come un figlio. L’ha fatto crescere in una nazione, in un paese piccolo che si chiama Betlemme. Betlemme, era un paese piccolo, ed è diventato grande a causa sua. Gesù e Maria sono nomi  che come nel nostro brano di oggi sono inseparabili. Le loro storie sono raccontate nel mondo, ovunque. Gesù è diventato  straordinario per quello che ha fatto, così come è stato riconosciuto dagli ebrei- cristiani e dai pagani, dai gentili che sono diventati seguaci suoi, il Cristo di Dio. Così anche  quella donna, è diventata famosa, conosciuta per quello che ha fatto a Gesù prima della sua sepoltura.

Voi, ve lo credete? Infatti, Io credo che quando si compie un’azione buona, è giusto che venga raccontato chi l’ha fatta e a chi l’ ha fatta. Nella vita  di Gesù ci sono  delle cose buone che ha ricevuto da questa donna che si chiama Maria?.  Sì, vi ricordate le due sorelle Maria e Marta e loro fratello  Lazaro l’amico risuscitato da Gesù come ci ha raccontato nel vangelo di Giovanni capitolo 12. E per riconoscenza che questa donna  ha fatto questo gesto di versare l’olio profumato e prezioso a Lui.

Davanti alla gente, ai discepoli di Gesù è stato fatto questo gesto perché diventino e rimangono  degli agenti e dei testimoni  nello stesso tempo.

In una comunità è molto importante questa testimonianza dei personaggi e si riflette anche nella nostra vita ,oggi. Quando una cosa è fatta non sempre siamo tutti d’accordo. Vengono sollevate delle questioni. Alcuni/e dicono come i discepoli in questo racconto che questo profumo si poteva vendere per fare del bene ai poveri(questo è giusto); alcuni  dicono  che il gesto della donna doveva essere fatto allora perché era quello che occorreva. Gesù il maestro ha dato qui la sua valutazione perché non c’era più altro tempo che gli rimaneva, ma nessuno di loro poteva sapere tutto questo e anche lo scopo. Questo è il disegno di Dio della vita di tutti noi, non siamo mai pienamente capaci di scorgere, capire la sua volontà ma il suo compito è di mettere insieme quello che riusciamo a fare per farlo diventare un atto buono.

Infatti, se voi vi ricordate in questi anni qui nella nostra chiesa, quante volte che voi non avete avuto le stesse opinioni nel fare una cosa e questo è normalmente ciò che succede nelle famiglie, nelle comunità, e quindi nella società in cui siamo tutti coinvolti.

Chi ha più potere decide, chi ha più autorità vince, chi è più convincente normalmente ottiene la nostra adesione.  Ma chi è veramente il più giusto? NOI SPESSO NON LO SAPPIAMO! Sì, abbiamo delle motivazioni giuste ma poi si cerca comunque insieme di esaminare tali motivazioni così si sceglie la più giusta da fare , in un tempo determinato, considerando il contesto e anche e sempre seguendo l’esempio di Gesù, ciò che ha detto e  fatto. Così, penso che il nostro racconto ci dica la stessa cosa. Ci testimonia il buono che ha fatto Dio in Gesù, del buono che ha fatto Gesù, e dell’azione della donna IN QUANTO TALE. Questa è la buona notizia: la pienezza del messaggio evangelico si compie in persone scelte da Dio per fare la sua volontà per testimoniare se stesso e quanto è buono per tutti e tutte.

Gesù ha avuto a che fare sin dalla sua nascita con tale nome perché sua madre si chiamava Maria. Era lei la prima donna che ha compiuto la volontà di Dio permettendo che nascesse un figlio, il salvatore del mondo che donando la propria vita l’ha donata a noi.

E nel brano di oggi noi ricordiamo un’altra Maria che con gratitudine e riconoscenza ha voluto con la sua spontaneità versare, dal capo al piede  di Gesù l’olio di grande valore.

Se oggi questo brano dovesse essere raccontato in un film e se oggi fossimo tutti davanti a guardarlo e  io non facessi  una predicazione ora diremmo tutti  che  questo film ci avrebbe fatto molto bene .  L’amato Gesù ha avuto questa giusta e buona occasione di vivere questo particolare momento prima di affrontare la sua  fine martoriato e  torturato.

La donna di questo racconto ha infranto diverse consuetudini di buona educazione secondo il criterio degli uomini di allora ma proprio per questo motivo  ci ha lasciato un insegnamento molto profondo che  il nostro comportamento deve andare oltre all’apparenza. Che Dio continui a illuminare il nostro cammino di  riflessione che ci porta ad agire e che ci aiuti a compiere delle buone azioni secondo il suo criterio. Amen.

past. Joylin Galapon09

,

Ritratti di Paolo

MALINA Bruce e NEYREY Jerome,
Paideia, Brescia, 2016,
pp. 273, Euro 32,00

Partendo dalla considerazione che il pensiero di un autore vada contestualizzato nella sua epoca e nel suo ambiente, il testo analizza la figura di Paolo dal punto di vista dell’antropologia culturale, cioè non con gli occhi dell’occidentale moderno, ma con quelli di un uomo mediterraneo del I secolo, servendosi dei modelli in uso nell’epoca antica per valutare la personalità, come gli encomi, stilati secondo le regole contenute in appositi manuali; i discorsi giudiziari di difesa, che seguono i dettami della retorica; i trattati di fisiognomica, che interpretano il carattere in base all’aspetto esteriore. Ogni modello è applicato a un diverso tipo di testi: il primo alle parti autobiografiche delle lettere; il secondo ai discorsi apologetici degli Atti; il terzo alle immagini fisiche di Paolo proposte dai testi apocrifi. La tesi sostenuta è che, a differenza dell’occidentale moderno, individualista e autoreferenziato, Paolo è imbevuto di cultura collettivista ed orientato al bene del gruppo. La distinzione tra culture individualiste, dominate da una mentalità psicologica, e collettiviste, dominate da una mentalità sociale, spiega come non sia possibile interpretare il pensiero paolino da una prospettiva moderna. In base ai tre modelli utilizzati, Paolo emerge sempre come una persona orientata al gruppo, il cui ambiente culturale attribuiva importanza all’origine, alla nascita, alla provenienza geografica, alla parentela, all’educazione, alle capacità, ma anche ai “fatti di fortuna”, ossia alla prosperità che attestava il favore divino. Questi sono gli elementi tipici dell’encomio, di cui Paolo si serve in Galati, Filippesi e 2 Corinzi per rivendicare il proprio status e la propria autorità, ma anche del discorso forense di difesa, che rinveniamo in Atti 22-26, dove Luca mette in risalto non le caratteristiche individuali di Paolo, ma la sua integrazione nel gruppo e la sua conformità alle regole sociali. E sono anche gli elementi dei trattati di fisiognomica che, dagli stereotipi geografici, etnici, di genere e dalle tipologie anatomiche, deducono le caratteristiche morali di una persona: così gli Atti di Paolo e Tecla ci presentano l’apostolo con i tratti fisici del guerriero ideale, maschio, virile, nobile, autorevole. Il testo analizza poi i valori tipici delle culture collettiviste, come l’integrazione, la tradizione, il rispetto e il giudizio degli altri, l’involuzione sociale, gli stereotipi di genere e quelli relativi alla moralità, le relazioni interpersonali, il rapporto con la natura, l’orientamento temporale al presente o al passato: tutto per sostenere che in tali culture il comportamento sociale è determinato dagli obiettivi del gruppo, che mirano al bene comune. Il testo è spesso ripetitivo, ma la presentazione dei vari ritratti di Paolo secondo la prospettiva antica e la sua interpretazione come mediterraneo del I secolo imbevuto di cultura collettivista ci permette di cogliere più precisamente la sua personalità e il suo pensiero.

 Antonella Varcasia

Cristo è risorto!

16 aprile 2017

I Corinzi 15,1-11

Care sorelle e cari fratelli,

forse non è usuale predicare per Pasqua su questo brano. In genere si preferiscono i testi dei vangeli che subito ci portano alla memoria il racconto della resurrezione.

Eppure, se riflettiamo bene su questo brano ci rendiamo conto quanto sia vicino al sentire di coloro che non hanno assistito ad un evento, ma ne sentono raccontare.

L’apostolo comincia questo brano con l’affermazione: “vi ricordo il vangelo che vi ho annunziato…” e poi ancora “vi trasmetto come ho ricevuto…”.

È su queste due affermazioni dell’apostolo vorrei che insieme riflettessimo…

Innanzitutto, “vi ricordo”.

Ricordare è importante sia per le persone sia per le società. Per le persone senza la memoria la vita si impoverisce, si perdono comprensione della realtà e relazioni, pensiamo al caso limite di chi è effetto da Alzaimer.

Mentre per le società, senza memoria storica, lo sappiamo bene qui in Italia dove invece si tende a dimenticare persino quanto è accaduto il giorno prima, non si formano nuove generazioni, non si cresce come nazione. La memoria storica, inoltre, permette di comprendere quanto accaduto nel passato così da ottenerne insegnamenti per il presente. Diciamo quando questo avviene.

Come se ciò non bastasse, nel mondo ebraico, da cui proveniva l’apostolo Paolo, al secolo Saul, il campo semantico del ‘ricordare, zacar’ aveva una rilevanza fondamentale per l’ambito della fede.

Pensiamo a tutti i salmi e i testi dei profeti dove il popolo è chiamato a ricordare le azioni di liberazione e di salvezza messe in atto da Dio in loro favore. Eppure questo ricordare biblico non è esclusivamente un esercizio celebrale, ma ha la forza del rendere attuale e vivo un evento del passato.

Nel seder, nel corso della cena pasquale, far memoria di Pesach per gli ebrei significa riviverla in tutto e per tutto, staccarla dal passato e ancorarla alla realtà attuale per farla crescere nella vita dei credenti come il lievito con la farina.

Questo vale per il mondo ebraico, ma in egual misura questo dovrebbe valere per noi cristiani.

Allora c’è da chiedersi qual è il contenuto di questa memoria vivente?

Ecco che allora giungiamo alla seconda affermazione di Paolo, “vi trasmetto”.

Egli è l’ultimo di una serie di testimoni che hanno incontrato il risorto. L’esperienza gli ha cambiato la vita, ma è solo a partire dalla testimonianza di altri che hanno avuto questa esperienza prima di lui che essa assume il valore di annuncio.

In poche righe l’apostolo riassume gli eventi racchiusi nei tre giorni più importanti e fondamentali per la nostra vita di fede: il venerdì quando Gesù “morì per i nostri peccati”; il sabato quando “fu seppellito” e la domenica ove si annuncia che Gesù “è stato risuscitato”.

Eppure quello di Paolo non è un semplice e asettico reportage giornalistico, il suo è un lieto annuncio, è una proclamazione pronunciata con forza: “Cristo è risorto!”

Così semplicemente detto, verrebbe da domandarsi perché questa affermazione dovrebbe avere delle conseguenze nella nostra esistenza!?

E perché senza questa convinta affermazione Paolo sostiene che la nostra fede e la nostra predicazione sarebbero vane?

Se ci pensiamo bene, il cristianesimo è l’unica religione che si fonda sulla resurrezione.

Certo che mettere alla base della fede la proclamazione che Gesù, il Cristo, è stato risuscitato dalla morte, è metterla su un terreno per lo meno insidioso perché volersi confrontare con gli altri a partire da un evento cui nessuno ha assistito direttamente ha del paradossale, soprattutto nella società attuale, secolarizzata e smaliziata.

Meglio per noi sarebbe stato fondare il cristianesimo sulla vita di Gesù, così esemplare e ricca di significato; meglio sarebbe stato fondarlo sul suo pensiero colmo di una grande profondità spirituale e di una forza liberante da essere ammirato da credenti di ogni fede, ma anche da atei ed umanisti.

Meglio sarebbe stato fondarlo sulla suo passione e morte, sul modo con cui ha affrontato il potere religioso e politico del suo tempo e sul modo in cui ha perdonato i suoi carnefici.

Tutto sarebbe più semplice…ma non sarebbe la stessa cosa…

Per prima cosa direi che se non ci fosse stata la resurrezione, non ci sarebbe nemmeno la chiesa come la intendiamo e viviamo.

Al massimo si sarebbe costituita una scuola in cui si sarebbe coltivato il suo pensiero e si sarebbe cercato di diffonderlo.

La chiesa non è fondata solo su un ricordo del passato, ma attraverso lo Spirito di Dio questo passato si fa presente vivo, cosicché la resurrezione di Cristo porta a determinare la nostra resurrezione.

Questo è ciò che accadde quando Egli si presentò in mezzo ai suoi discepoli subito dopo la resurrezione, ed accadde di nuovo il giorno di Pentecoste attraverso lo Spirito Santo facendo di donne e uomini paurosi, scoraggiati e rassegnati dei coraggiosi testimoni di una verità liberante, paradossale e scomoda.

E può accadere ancora oggi tra noi se quando ci riuniamo nel suo nome e condividiamo il pane e il vino, se avvertiamo che lui è davvero presente e vivo tra noi e con noi.

Se, invece, la morte in croce fosse stata l’ultima parola su Gesù, lo sarebbe stata anche per l’umanità, il mondo si sarebbe perduto senza speranza e la morte avrebbe conseguito la vittoria sul Dio della vita.

La nostra fede e la nostra predicazione sarebbero vuote perché non potrebbero proclamare la liberazione dal peccato, perché svuotate della testimonianza del potere salvifico di Dio che restituisce alla vita ciò che è morto.

L’umanità, per conseguenza, verrebbe lasciata alla sua condanna, all’assenza di un Dio che salva e libera.

Insomma l’umanità sarebbe lasciata in balia di se stessa e tutta la creazione con essa.

Per l’apostolo, invece, Cristo diviene il primo tra molti che seguiranno, la sua resurrezione diventa il principio attivo che attrae gli altri a sé verso la loro futura resurrezione.

Gesù Cristo – scrive il teologo e pastore Jorg Zink – …non ha aperto una porta per poi richiuderla subito dopo dietro a sé, ma ha portato via l’intera porta”.

Ecco perché il centro della fede cristiana è e deve essere la resurrezione. Non evento del passato volto a consegnare un alone di divinità al Gesù di Nazareth, figlio di un falegname, ma evento che restituisce la vita, che fonda oggi la speranza e l’azione dei credenti che nella resurrezione di Cristo possono vedere già i segni di quello che sarà il futuro dell’umanità e della creazione tutta.

La resurrezione manifesta la vittoria della vita sulla morte, del bene sul male, della verità che testimoniamo sulla menzogna dei falsi idoli della nostra società, della solidarietà sullo sfruttamento, dell’accoglienza e dell’apertura reciproca all’altro sui muri fisici e mentali, di una pace giusta sulla guerra, sempre ingiusta.

Noi cristiani siamo chiamati a vivere ed operare nella storia umana come ciò che ancora non siamo, ma che ci attende.

Per questo, per noi come lo fu per l’apostolo Paolo, è importante ricordare, credere e trasmettere agli altri che Gesù è il Risorto e che tutto non si è fermato al Venerdì Santo.

Il superamento del morire è nelle possibilità umane, ma il superamento della morte significa resurrezione… – scrive Dietrich Bonhoeffer – a partire dalla resurrezione di Cristo può spirare un vento nuovo e purificante per il mondo d’oggi…Se due uomini credessero realmente a ciò e, nel loro agire sulla terra, si facessero muovere da questa fede, molte cose cambierebbero.

Vivere a partire dalla resurrezione: questo significa Pasqua

Amen

 

Past. Mirella Manocchio

 

 

Dio parla anche alle persone senza volto

2 aprile 2017

Genesi 3,1-21

Spesse volte mi è capitato di parlare con persone che di recente si erano avvicinate alle nostre chiese o con amici cattolici, critici nei confronti di manifestazioni e dettami della loro propria ecclesiologia.

Il discorso scivolava facilmente sulle ragioni del loro avvicinamento al protestantesimo e la risposta più frequente era che nelle nostre chiese si respira un’aria di maggiore libertà, un’assenza di costrizioni, intendendo non la mancanza di una chiara visione di fede e il cedimento al libertinismo godereccio, ma invece l’assenza di un atteggiamento dogmatico, vincolante il pensiero e la coscienza.

Certamente, care sorelle e cari fratelli, un bell’apprezzamento per le nostre comunità, figlie di quella Riforma che aveva visto nel ritorno alla parola dell’Evangelo, della Scrittura, il centro della sua predicazione.

La Riforma che, mettendosi sulla scia di quanto predicato dall’apostolo Paolo, ha voluto aiutare uomini e donne a divenire adulti, a divenire persone mature, autonome, capaci di libere scelte perché da Dio stesso chiamate a libertà.

Un discorso quello di Paolo e della Riforma non facile da portare avanti soprattutto nell’odierna società italiana in cui due fronti, uno esterno –potremmo dire- e uno interno al protestantesimo, sottolineano con forza la medesima tendenza: porre i credenti nuovamente sotto il vincolo della legge.

Da una parte, è la chiesa cattolica che propone i suoi dogmi etici su problemi di scottante attualità, come i matrimoni omosessuali, la procreazione assistita, l’eutanasia, cercando come sempre di costringere il nostro paese, laico per costituzione, a farne leggi dello stato, vincolanti per tutti i cittadini.

Dall’altra, vi sono le chiese evangelicali, pentecostali e carismatiche, in genere molto conservatrici che insistono sull’osservanza di prescrizioni relative al fumo, alla sessualità, all’abbigliamento come lasciapassare per l’appartenenza a queste comunità di credenti.

Paolo sottolinea però con forza che non è certo ridurre il Vangelo di grazia ad una nuova legge che farà di noi veri figli e figlie di Dio. Infatti, “Cristo ci ha liberati, perché fossimo liberi”; ma nemmeno il lasciarsi vivere permettendo che nelle nostre comunità e nel mondo si creino situazioni di ingiustizia che finiscano con il ledere la libertà stessa. Non è facile portare avanti la propria vocazione di credenti senza cadere in questi due estremi, mantenendo alto il valore della libertà, del rispetto e dell’amore per tutti. Lutero ci ha dato una splendida sintesi di questa visione di vita nel suo scritto del 1520 ‘La libertà del cristiano’:

«Un cristiano è un libero signore sopra ogni cosa, e non è sottoposto a nessuno.
Un cristiano è un servo volenteroso in ogni cosa, e sottoposto ad ognuno»

Questa è quella che paradossalmente Paolo chiama nel capitolo sesto della lettera ai Galati, la legge di Cristo: essa non è un peso gettato dal più forte sulle spalle del più debole e non è nemmeno un giogo che il Signore ci chiede di portare da soli. È, invece, l’ascolto condiviso della Parola di Dio, la ricerca comune e comunitaria di uomini e donne che riconoscono in Cristo il loro Signore e liberatore, colui che ha fatto di ognuno di noi figli di Dio, eredi per grazia. Entra qui in gioco allora, come l’altra faccia della medaglia libertà, la responsabilità.

Rispondere di sé e delle proprie azioni è proprio la libertà più difficile.
Credo che il testo di Genesi mostri in tal senso proprio la nostra difficoltà umana nel recepire questo senso più profondo della libertà come responsabilità.

Questo testo è quel che gli esegeti chiamano un racconto eziologico, un racconto cioè che spiega l’origine di eventi e situazioni che ogni persona ha sotto gli occhi.
In esso si rispecchia l’enigmaticità dell’esistenza umana che diventa comprensibile solo attraverso la polarità tra nascita e morte, tra gioia e dolore, tra vetta ed abisso.

Qui è messa in scena l’enigmatica forza della tentazione e della seduzione che appartiene all’essere umano, indica insomma un limite dell’uomo.
Di tutto il lungo racconto di Genesi vorrei soffermarmi su una scena in particolare: quando Dio sul far della sera cammina nel giardino dell’Eden e con voce sommessa chiama Adamo chiedendogli “Dove sei?”.

Ogni volta che leggo questo testo, mi sembra di vedere la reazione che tutti i bambini hanno dopo aver commesso una marachella alquanto grossa. Anche a me è successo di fare qualcosa che non dovevo mentre i miei erano assenti. Tipo bisticciare con mio fratello, oppure rompere il vaso preferito da mia madre che centomila volte mi aveva detto di non toccare, di non prendere dalla mensola nel salotto perché fragile. Mi ricordo benissimo che la prima cosa che ho fatto, sentendo la voce dei miei genitori che rientravano a casa, è stata quella di nascondermi e poi, sapendo che non avevo dove scappare, di cercare una qualche giustificazione alla mia malefatta.

Adamo ed Eva si comportano esattamente come dei bambini: cercano di nascondersi, ma scoperti cercano una giustificazione alla loro azione.
È proprio in questo preciso istante che il vaso – diciamo così – va in frantumi: Dio sa benissimo cosa è accaduto, ma non punta l’indice accusatore contro la coppia primigenia, piuttosto offre loro la possibilità di spiegarsi, di ammettere l’errore.

Adamo invece di accettare lo sbaglio accusa Eva, “la donna che tu mi hai messa accanto” rimbrotta a Dio.

Il vaso comincia a frantumarsi, l’equilibrio si sta rompendo: la donna che prima era per l’uomo, “ossa delle mie ossa e carne della mia carne”, la compagna ideale, diviene nemica, e sottilmente Adamo accusa Dio di questo, poiché è lui che le ha posto accanto la donna che l’ha spinto verso la trasgressione. Eva a sua volta incolperà il serpente.

Ecco andato in frantumi l’idilliaco rapporto tra uomo e donna, tra la creatura umana e il suo Creatore, tra gli esseri umani e la natura.
Dio ha offerto all’umanità uno spazio di libertà nel quale accettare le proprie responsabilità, ma Adamo ed Eva hanno preferito rimanere bambini, non divenire adulti.

E Dio li ha accettati per quello che erano: ha fatto per loro delle tuniche di pelle, ben più solide delle foglie di vite, affinché si potessero proteggere dalle difficoltà della vita. Allo stesso modo, Dio ha continuato ad occuparsi di tutta l’umanità: ci ha dato Gesù Cristo, suo figlio affinché potessimo finalmente divenire liberi, liberi da noi stessi, dal nostro farci bambini ed accettare anche la responsabilità che questa nostra libertà comporta. Non come un peso, ma come atto liberatorio: “si, sono stato io!”

Care sorelle e fratelli,

mi fermo qui.
Ognuno può e deve fare le sue riflessioni su cosa significa essere figli e figlie di Dio, eredi della grazia, chiamati a libertà.
Cosa significa essere membri di una comunità dove insieme si ricerca la volontà di Dio, si discutono i problemi e infine si rispettano, senza giudizi e senza scomuniche, le decisioni che ciascuno si assume in libertà e responsabilità.
Cosa significa essere credenti che vivono come cittadini di un mondo in cui la libertà e il rispetto di ogni singola persona sono troppe volte messe sotto i piedi, sono atterrate dal nostro non voler vivere la nostra responsabilità.
Amen

past. Mirella Manocchio