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Farsi prossimo

Care sorelle e cari fratelli, dovrete sopportarmi in questi minuti in cui cercherò di riflettere insieme a voi partendo dal nostro servizio e dal brano scelto per oggi.

“Non ho tempo per avere fretta”. Questa la frase di Wesley che campeggia sulle nostre magliette, e che mi sembra adattissima oggi, insieme alla canzone scritta da Giorgio Gaber negli anni 70 “C’e solo la strada”, che recitava che bisogna ritornare nella strada perché in casa ti allontani dalla vita, dalla lotta, dal dolore e dalle bombe.

Tempo Fretta Strada.

Veniamo al nostro brano. Un italiano stava scendendo dalla stazione Termini verso piazza Venezia. Arrivano degli uomini e gli chiedono dei soldi; al diniego lo riempiono di botte e, rubandogli tutto, lo lasciano moribondo sul ciglio di via Nazionale. Passa un sacerdote, un pastore, un rabbino lo vede e passa oltre. Passa una suora, un diacono/a, lo vede e passa oltre. Passa un uomo di colore (un extracomunitario, oppure un rom, un disabile, anche qui mettiamoci la categoria che preferiamo), lo vede, si commuove e si ferma. Ecco una nelle migliaia di possibilità che racconterebbe forse oggi Gesù se camminasse e predicasse nella nostra Roma.

Il nostro brano, che inizia con una discussione teologica molto usuale tra i rabbì del tempo di Gesù, si potrebbe dividere in quattro scene.

“Si alzò” dice Luca. Domanda per avere una risposta o per mettere alla prova Gesù, quasi per sfidarlo? I nostri rapporti, le nostre discussionisono per crescere insieme o solo per mettere in difficoltà l’altro?  Gesù non cade nella trappola e mischia le carte, e distruggendo le certezze della prassi consolidata,  preferendo il piano morale a quello cultuale: alla giustizia della religione antepone un’altra giustizia, quella perla persona.

In alto c’è Gerusalemme, con le sue mura sicure,  la certezza di essere la città di Dio, protetta, bella, dove la presenza di Dio si palpa. Molto più giù c’è Gerico, pensate ad un dislivello di oltre 1000 m, la città dove risiedevano moltissimi sacerdoti. La strada tra le due città è aspra, desertica, piena di imprevisti e pericoli. Un uomo scende…

Scende dalla città di Dio alla città degli uomini. Una strada che da Dio porta lontano da Gerusalemme, porta verso la testimonianza verso l’uomo. L’uomo che scende non ha aggettivi, non è descritto. È un uomo e basta.

Chi era? anzi, chi è? Chi è oggi? Non ha nome, non ha una carta d’identità (tanto meno il samaritano gli chiederà documenti). Non un segno per sapere chi fosse, anzi chi sia, chi è. Poteva essere,  può essere, è un ebreo o un palestinesi; un ragazzo o un vecchio, un ricco o un povero, un onesto o un disonesto; può essere un bianco, un nero, un europeo, un americano, un cinese; può essere un cattolico, un evangelico, un musulmano… Può essere perfino un brigante anche lui; un assassino… Ma è sempre un rischio fermarsi non ad aiutare ma perfino a guardare.

Questo uomo che scende è uno dei tanti compagni di strada del Breakfast Time che dormono nelle vie vicino al nostro tempio.

Di quest’uomo non si sa il nome e il cognome, ma in compenso abbiamo molti particolari; un incalzare di note, una più grave dell’altra: spogliato, percosso, abbandonato, emarginato. È il Vangelo a dire “mezzo morto”, non mezzo vivo: un Vangelo che tende al peggio.

Un uomo: uno dei tanti uomini spogliati, percossi, umiliati, sfruttati, offesi, morenti, abbandonati ai margini della cosiddetta civiltà, ai margini delle grandi arterie della vita, delle organizzazioni criminali dei barconi, dell’industria, del commercio illegale delle nostre vie; abbandonati al limitare del deserto o nei lager libici; o ricacciati indietro verso i loro aguzzini. Un uomo di molti uomini; centinaia di milioni di indiani, di africani, di asiatici, di cinesi.

Il secondo momento è il penoso spettacolo della durezza, della indifferenza del sacerdote e del levita. Che camminano, vedono e passano oltre. Vedono con uno sguardo vuoto, con negligenza. La loro indifferenza è la nostra di fronte a molte situazioni. È la nostra immagine. Vediamo e passiamo oltre. Per rispettare una legge, per la fretta, perché guardiamo senza osservare, perché……

Non osserviamo perché la fretta ci impedisce di osservare.

PIGRIZIA, INCERTEZZA, INERZIA, TIMIDEZZA, PAURA, NEGLIGENZA

Queste sono le parole che fanno da sfondo all’atteggiamento del sacerdote e del levita. Sono le stesse che incontriamo camminando sulle strade della nostra città. Parlando tra noi, alcuni hanno condiviso la stessa preoccupazione: paura ad incontrare i “barboni”. Paura. Io stesso, quando con Luciano abbiamo proposto il servizio, avevo una grandissima paura. L’uomo della strada era stato per me sempre un tabù. Un pericolo, uno da aiutare, ma a debita distanza. Quasi da non toccare, figurare parlarci, fermarsi.

Tra il gesto criminale e l’aiuto del samaritano c’è un intervallo temporale importante: è il momento dell’egoismo del sacerdote e del levita che passano oltre. Questo atteggiamento è di ognuno di noi. Pensiamo a quando incontriamo dei barboni, dei neri, dei rom, delle persone sporche, con malattia della pelle, che puzzano.

Passare oltre:

per indifferenza …. Non mi interessa;

per fretta ….Devo fare cose più importanti;

per paura….. Cosa dirò, cosa farò.

 

Trovare una scusa è la cosa più semplice.

Passare oltre perché tante cose sono più urgenti, importanti. Più importanti di Ivan senza stampelle, dell’americano senza pantaloni, o di Christine senza vocabolario, di Agrid che ti fa un favore a prendere i nostri panini, ed oggi per la prima volta li ha rifiutati.

La fretta della società di oggi è la modalità del non fermarsi. Tutto è già vecchio appena lo leggo o lo scrivo, o lo posto sui social. Tutto vale un attimo sui social o nell’universo web.

E ciò che nella “non fretta” andrebbe coltivato diventa difficile, complesso, da aver paura, compresi i rapporti tra persone che hanno bisogno di tempo, di calma, di vissuti da condividere e sicuramente non di fretta.

E la fretta crea troppe volte rapporti anonimi, lontano dai sentimenti e dai vissuti.

Una delle cose belle del nostro giro è il fermarsi, e dopo alcuni mesi, parlare, chiedere un semplice come stai, è un fidarsi loro di noi e noi di loro. È un non passare oltre al prossimo senza fissa dimora perché ho due-cinque minuti a persona.

Farsi prossimo è creare  relazione. Ma una relazione  necessita di tempo.

Noi non abbiamo fretta, non abbiamo l’orologio che detta e che impone, che ci rende frenetici. Abbiamo tempo per loro, ma soprattutto per noi.

Ancora le frase di Wesley allora: non ho tempo per avere fretta.

Nella fretta del sacerdote e del levita c’è anche un’altra realtà: la paura di impegnare la propria persona.

Come ricordavo prima, la paura anche nel nostro Breakfast Time in molti di noi c’era. Paura nel non sentirsi capaci di relazionarsi con l’altro sconosciuto. Ma abbiamo vinto la paura, le pretese possessive, verso solo ciò che ci piace, che non costa fatica, che impone il fermarsi e sprecare tempo. Paura di impegnarsi in prima persona.

Noi questa paura l’abbiamo vinta. Nella consapevolezza che non puoi risolvere la povertà nel mondo, il problema degli alloggi, del lavoro per tutti ecc. ecc.Possiamo cambiare la vita di queste persone? No, ma possiamo “curare” e far curare. Infatti cerchiamo di indirizzare e dare indicazioni utili. Ma non potremmo mai risolvere. Anche perché molti di loro forse neanche lo vogliono.

Terzo momento: è carico della parola “fu mosso a compassione”. Che letteralmente nel vangelo di Luca indica l’essere preso alle viscere, come un morso, un crampo allo stomaco, uno spasmo, una ribellione, qualcosa che si muove dentro. È il cuore e la pancia. È la com-passione, è la passione con, insieme, è la commozione attiva, è la pietà, non il pietismo, è la Carità, non l’essere caritatevole alla Teresa di Calcutta. Non solo i buoni sentimenti, ma il dinamismo. Il samaritano passa con sguardo attento e risponde con l’azione.

I cammini del sacerdote, del levita e del samaritano sono gli stessi: solo che i due sono in compagnia di loro stessi e di un Dio-legge, l’altro invece è in cammino attento. L’attenzione ci fa aprire a nuove esperienze, ci fa nascere domande. Lui fa esperienza sul valore della persona, e questa esperienza gli dischiude nuove potenzialità relazionali e lo ha spinge a farsi prossimo.

Il samaritano è l’opposto dei due personaggi precedenti. Non va al tempio di Gerusalemme, non può; non ha paura di contaminarsi, perché per un ebreo osservante lui è già immondo in quanto samaritano.

Egli, emarginato religiosamente, non ha preoccupazioni cultuali. È capace di essere umano, di rimanere umano e provare compassione.

Quanto è difficile oggi rimanere umani. Basta guardare quello che accade intorno a noi. Momaude o la ragazza sul treno Milano-Venezia. Non ci indigniamo più neanche. Sommiamo i casi in una assuefazione che ci fa essere meno umani volta per volta.

Il samaritano nell’incontro e nella cura diventa più umano, anzi resta umano. La società, se ci lasciamo avviluppare, vincere da lei, ci rende meno umani. Pensiamo alle nuove politiche per le migrazioni, pensiamo alla società che sta distruggendo il creato, dono di Dio. Pensiamo alla logica del furbo. Ma soprattutto alla lenta infezione del silenzio di fronte alle piccole o grandi furberie. O ai germi di razzismo che stanno lievitando.

Il samaritano invece si fa prossimo perché si avvicina, si approssima, sana come se fosse se stesso, non bada alla fede, alla nazionalità, allo status sociale.

Quarto momento: il samaritano si prende cura, fascia le ferite nel presente e nel futuro. Non  abbandona il ferito al proprio destino. Prendersi cura è non fermarsi al presente, ma cercare di cambiare il futuro.

Se sono salvato e amato, non posso che vivere questo amore e questo bene, questa salvezza nel mio mondo, nel mio territorio, nelle mie relazioni vicine, prossime.

Se poniamo questo brano in relazione con Mt 25 una cosa che colpisce è che Dio non chiede quanto mi hai amato, quanto hai pregato, ci chiede come il suo amore, la sua salvezza sia stata condivisa con l’uomo e la donna vicino a noi. Non è il quanto che salva, ma il farsi prossimo perché siamo amati e salvati.  Il brano di Luca ci pone non tanto la domanda chi è il mio prossimo, ma chi si è fatto prossimo. Gesù ribalta il tutto in un gioco: certo, il derelitto è il mio prossimo, ma io sono capace di farmi suo prossimo?

E farsi prossimo è avvicinarsi all’uomo e alla donna con la stessa “tenerezza” di Dio, sincera e operosa. Anche piccola all’inizio, perché è un cammino di crescita. Non è che oggi decido di farmi prossimo.

Nel farmi prossimo grido, mi indigno, denuncio, condanno le ingiustizie, le violenze, le povertà, in una parola il non amore.

Una bellissima cosa nel nostro Breakfast Time è l’assenza di delega. Che bravi che siete, continuate anche per noi. Vi deleghiamo, rappresentate la comunità.

Tutto questo non credo che l’abbiamo vissuto o sentito. Almeno io no, anzi ho respirato il contagio continuo di fratelli e sorelle che, anche se non possono venire, si sono interrogati su come essere prossimi insieme a noi. Come farci sentire che ci sono anche loro. E vi confesso che sentiamo che non siamo delegati vostri, ma siamo noi tutti insieme a fare questo. Ognuno con le proprie possibilità.

In un momento in cui il disinteresse per chi è in difficoltà è un leit motiv della nostra società, dove le guerre tra poveri è sono un arma sociale per conquistare visibilità e voti, abbiamo riflettuto che il nostro no era rispondere I care. A non è un mio problema, non possiamo accogliere tutti, non possiamo aiutare chi vive in strada ecc, noi abbiamo cercato di rispondere I care. Mi stai a cuore, è un mio problema perché sei mio fratello e mia sorella. I care è farsi prossimo.

Non chiediamoci quindi chi è il mio prossimo, ma chiediamoci a chi ci approssimiamo. Essere prossimo dipende da noi. Ed essere prossimo di qualcuno ci fa comunicare vita. Nel senso più piccolo: un sorriso, una parola, far sentire l’altro soggetto della mia relazione, non oggetto. Senza chiedere nulla in cambio, senza aspettarsi neanche un grazie, che però viene quasi sempre offerto.

L’incontro tra noi e con loro. Non come slogan bello, ma come vita vissuta. C’è chi non vuole parlare, chi ti vuole raccontare tutta la sua vita in tre minuti. Chi dorme e lasciamo lì e andiamo via. Chi ti guarda con meraviglia. Chi ti benedice non per il sacchetto ma perché vuoi incontrarlo come persona,  perché lo rendi importante e degno di un incontro. O la trans sudamericana che ti chiede un parrucchiere per essere bella per il suo compagno, alcolizzato che vive accanto a lei a cui sistema maglia e capelli e lo bacia teneramente.

E farsi prossimo è creare un rapporto di reciprocità. Perché noi non diamo soltanto, ma anche riceviamo, in termini di doni spirituali:

  • innanzi tutto i nostri amici ci insegnano l’ umiltà.  perché ci dicono dei no: a volte rifiutano il cibo, a volte disprezzano quello che diamo loro, chiedendo qualcosa di diverso, o fanno gli schizzinosi, pregandoci, ad esempio, di non toccare il bicchiere con le nostre mani. Ci rimaniamo male: perché? Perché diamo per scontato che il nostro buonismo deve essere apprezzato, ci sentiamo superiori, ma loro ci riportano su un piano di parità.
  • la solidarietà. Queste persone, che vivono nell’indigenza e hanno bisogno di tutto, hanno un pensiero per gli altri: per la compagna che sta mendicando altrove, per l’amico che si è allontanato. Sono pronti a condividere.Si accontentano di quello che diamo, non si approfittano, non chiedono denaro
  • infine la serenità. Queste persone non sono arrabbiate col mondo, non si lamentano, non piangono, non cercano di impietosire col racconto dei loro guai: sorridono, ringraziano, ci benedicono, ci augurano buona domenica, ci trasmettono una serenità interiore che non ha prezzo.

L’amore di Dio che ci riempie, ci renda disponibili ad imitare, a donare, a testimoniare l’amore scoperto, riconosciuto e vissuto.

Amen

 

Fabio Perroni

Un uomo e il suo sogno

(L’articolo ridotto è stato pubblicato da Riforma)

La storia come magistra vitae è messa in discussione dal quotidiano che stiamo vivendo. “A cena con Martin Luther King”, serata di spettacolo, musica gospel e cucina americana, organizzata dalla Chiesa metodista di Roma lo scorso 20 ottobre, è iniziata proprio dedicando la serata a Mamadou, il ragazzo senegalese, lavoratore regolare a Trento, oggetto di uno dei ripetuti episodi di razzismo che si compiono in Italia in queste tristi settimane.

Mamadou, cacciato dal suo posto sull’autobus da Trento a Roma, come Rosa Parks, perché entrambi indegni di stare seduti, stanchi dopo una giornata di lavoro, vicino ad un bianco razzista.

Siamo partiti da qui, per un itinerario che ci ha portato a scoprire, riflettere su alcune parole chiave della vita del pastore battista afroamericano ucciso a Memphis il  4 aprile di 50 anni fa.

Il testo, scritto con cura dalla nostra sorella di chiesa Antonella Varcasia, partiva dal famosissimo “I have a dream” per fare tappa su alcuni episodi, incontri e relazioni di King negli anni della lotta nonviolenta contro il sistema della segregazione dei neri americani. L’itinerario, non poteva non fare tappa su Rosa Parks, l’ostinata sarta, divenuta una figura simbolo dei diritti civili, arrestata perché, non avendo trovato posto nel settore riservato ai  “coloured people” sugli autobus di Montgomery, aveva rifiutato di cedere il suo posto ad un bianco. L’umiliazione a causa del semplice fatto di essere neri, risuonò nel discorso di King tenuto sempre a Montgomery nel dicembre del 1955. Un discorso dove concilia con forza l’amore cristiano, la giustizia e il diritto. Un discorso amplificato, nel testo di Varcasia, da tre poesie di Langston Hughes, poesie di ritratti penetranti e vivaci della vita e della situazione dei neri in America.

Come risposta alle ripetute violenze, il testo riunisce in un fittizio confronto quattro grandi leader della lotta per i diritti delle persone di colore. Prendendo spunto, infatti,  dai discorsi ufficiali, ricostruisce una ipoteticatavola rotonda dove, nella differenti azioni di lotta e/o di resistenza non violenta, siedono e dialogano Nelson Mandela, Malcolm X, lo stesso King, insieme con John Fitzgerald Kennedy, il presidente americano assassinato a Dallas nel 1963, fautore dei progetti di legge contro la discriminazione razziale nei luoghi pubblici, nelle scuole ecc.

Non manca nel testo la dura critica del pastore battista alla chiesa, alle chiese, segnata dalla delusione per i molti ministri di culto che si sono opposti duramente alle lotte nonviolente da lui messe in atto. Infatti risuona, nel tempio metodista di Roma,dovesi è svolta la serata, la celebre lettera dalla prigione di Birmingham, dove King, tra l’altro, scrive: “Deluso, ho pianto per la negligenza della chiesa. Troppo spesso la chiesa di oggi è una voce inefficace, debole; troppo spesso è la prima a difendere lo status quo. Ma sulla chiesa incombe il giudizio di Dio: se essa non recupera lo spirito di sacrificio dei primi tempi, sarà messa da parte”.

Tuttavia non la delusione, ma la speranza in un mattino diverso, aperto da un’alba che rischiara e segna la fine della notte, si coglie nella scena dove è proclamata la celebre predicazione “Bussare a mezzanotte” del 1963 sul brano di Luca 11, 5-8. Infatti scrive King: “Alla chiesa deve essere ricordato che non è nè il padrone nè il servo dello stato, ma piuttosto la coscienza dello stato: se essa parlerà ed agirà senza paura in termini di giustizia e di pace, gli uomini la riconosceranno come una grande associazione d’amore che dà luce e pane ai viaggiatori soli a mezzanotte. La parola che la chiesa deve pronunciare è che nessuna mezzanotte rimane a lungo. L’alba verrà: la delusione, il dolore e la disperazione sono nate a mezzanotte, ma segue il mattino”.

Lo spettacolo si conclude con  due sermoni che sintetizzano la vita e la fede di King: quello letto durante il suo funerale,in cui chiede di essere ricordato non per i premi ricevuti, ma per il bene che ha cercato di fare al prossimo,  e quello in cui egli fa una sua personale confessione di fede in Dio: “Dio”, scrive King, “che è lo stesso ieri, oggi e per sempre. (…) Dio che cammina con noi attraverso la valle dell’ombra della morte (…)il Dio dell’universo, il Dio che supererà tutte le ere”.

La regia della spettacolo, affidata a Dino Castiglia, ha saputo dare il giusto risalto alle singole scene e valorizzare il carattere, i sentimenti e le emozioni dei personaggi di volta in volta chiamati ad interagire col protagonista.

Le scene del testo sono state inframmezzate da musiche, per piano e corno, e da inni e gospel eseguiti professionalmente dal coro della chiesa metodista di Roma, diretto da Anais Lee Chiesa. Al termine della serata è stato letto un messaggio pervenuto dalla figlia del pastore battista, che fino a qualche giorno fa era in visita in Italia, dove prendendo spunto dalla lettera dal carcere di Birmingham, ci ha esortato a continuare la risonanza del messaggio di Martin Luther King e vivere la speranza per una comunità dove la rivoluzione radicata in Cristo sia realizzata con la nonviolenza.

Una serata dove non è mancata la proiezione dei filmati originali: dal più celebre discorso a Washington ricordato all’inizio, “I have a dream”, alle immagini del funerale del pastore battista. Ma soprattutto non è mancato l’invito a continuare un impegno per una chiesa e una società a fianco dei tanti “neri” di oggi, perché lo stare a fianco, l’essere prossimi, il camminare e lottare insieme, in modo non violento, è l’unico strumento che i cristiani hanno per tentare di cambiare e migliorare il mondo e dare il proprio contributo per realizzare il regno di Dio sulla terra. Come ci spronerebbe oggi  Martin Luther King:  “L’obiettivo che cerchiamo è una società in pace con se stessa. Quel giorno sarà non per il bianco o per il nero: sarà il giorno dell’uomo”.

 

Ietro e Mosè

Care sorelle e cari fratelli nel Signore, questa mattina abbiamo letto e ascoltato il racconto del capitolo 18 del libro di Esodo.

Questo capitolo ci ricorda la visita di Ietro a Mosè; lo scopo principale di essa era, in primo luogo, confermare che Dio è il più grande di tutti gli dei, così con un culto di ringraziamento il sacerdote offrì un olocausto, un’espressione di riconoscenza davanti a lui  per tutto quello che ha fatto per Mosè e per il popolo d’Israele a partire dalla sua liberazione dalla mano del faraone e degli egiziani.

In secondo luogo, dargli il consiglio di come doveva procedere nella guida di questo popolo. Mosè da solo, secondo Ietro non doveva amministrare la giustizia al popolo,  per ogni faccenda di ogni singola persona,  ma il suo compito specifico era di insegnare i decreti e le leggi alle persone riconosciuti CAPACI e TIMORATI di Dio, poiché per questo motivo potrà poi resistere, arrivando alla loro destinazione.

Immaginate questo racconto di un popolo nella quale ciascuno doveva cominciare a mettere a posto ogni cosa nella propria vita. Era fondamentale implementare la pratica di ordine a nome della buona convivenza, in rapporto con gli altri e su ogni cosa che poteva causare il disordine.

Dopo che il popolo si mise a camminare e finalmente fu liberato; cominciò ad imparare cosa vuol dire essere tale: “libero seguendo le leggi di Dio”.

Con la visita sacerdotale e il consiglio di Ietro  di Madian, Mosè non dovrà più amministrare la giustizia al popolo ma altri se ne faranno carico a patto che fossero stati capaci e timorati di Dio.

Quindi, sia che doveva amministrare un gruppo grande o uno piccolo, è necessario avere la capacità e il timore del Signore, il Dio più grande.

Qual è la prima cosa che doveva fare Mosè?

Egli doveva insegnare i decreti e le leggi di Dio(i comandamenti) a queste persone e riconoscere in loro la capacità e il timore in Dio prima di governare una migliaia, una centinaia, una cinquantina o una decina di persone. Il consiglio di Ietro era di incominciare a costituire e a informare loro ciò che dovrebbero fare per governare bene un popolo o un’intera nazione. La costituzione dei gruppi dai più numerosi ai più pochi era fondamentale nella pratica dell’ordine di convivenza di un popolo secondo il parere di Ietro, che fu consigliato a Mosè, suo genero.

Questo brano ci insegna che nel governare un popolo è necessario avere delle persone formate che hanno avuto una formazione uguale al primo eletto CAPO di tutti gli eletti come Mosè così che non si possa sbagliare sulle normi e sulle leggi di Dio. Questi eletti devono manifestare anche loro la capacità di giudicare, di risolvere i problemi di ogni singola persona  nella vita quotidiana. Questi uomini eletti da Mosè saranno quelli che dovranno prendere cura e decidere per il bene di ognuno. Le cause difficili devono arrivare al capo di tutti.

Nella lettera di Paolo ai Romani 13,1-7 si allude che loro sono le persone  riconosciute nelle chiese antiche, le  nostre  Autorità superiori, autorizzate ad esercitare un ruolo di giudicare ciò che è bene e ciò che è male. <<Ogni persona sia sottomessa alle autorità superiore, perché non vi è autorità se non da Dio, le autorità che esistono sono stabilite da Dio>>. Romani 13,1

Vorrei  leggere queste parole che ha scritto la nostra sorella Chica Vezzosi, un ordine del giorno appoggiato da tutti al termine della nostra Assemblea di Chiesa, avvenuta la domenica 14 ottobre 2018.

L’assemblea della chiesa metodista di Roma via XX Settembre, riunita il 14 ottobre 2018, rivolge richiesta formale all’OPCEMI, alla Tavola Valdese e alla FCEI di far udire con tutti i mezzi possibili – dalla stampa all’uso dei socials – la nostra voce di condanna assoluta per le gravi situazioni di crescente accanimento xenofobo che si stanno verificando nel nostro paese nei confronti degli immigrati, compresi i bambini (come ad esempio a Lodi e Monfalcone).

Non possiamo far passare sotto silenzio gli atti di discriminazione e di violenza non solo morale che ultimamente si moltiplicano nella nostra casa comune, addirittura fomentati dalle autorità che dovrebbero gestire le cose correttamente.

 

Noi abbiamo ricevuto le norme, le prescrizioni e le leggi di Dio. Noi siamo credenti in Dio, abbiamo il dovere di volgere verso di lui. La nostra coscienza non ci lascia tacere. Ci sentiamo un’enorme inquietudine quando si trascura l’insegnamento dell’amore verso il nostro prossimo. Quell’amore che sappia riconoscere che ogni  persona è da rispettare, dando il nostro sostegno per poter vivere in questo mondo, un compito di accogliere e di ospitare.

Ora le nostre autorità superiori in Italia rifiutano e limitano l’accoglienza agli immigrati, ai rifugiati e non solo. Questo forse avverte la loro incapacità di giudicare e la mancanza di timore a Dio?Se Dio ha creato il mondo, la terra è per tutti e non per un solo popolo.Forse ciò che ci manca ora è quell’insegnamento base che gli israeliti di allora, come popolo, ricevettero dal consiglio del sacerdote Ietro.I decreti e le leggi di Dio sono tutto in un quadro cioè è per tutto il mondo, valido per ogni nazione, così l’Italia, che è un paese come tutti gli altri, ogni uomo è libero di lavorare e di stabilirsi.

Certamente, ci vuole una formazione continua di ogni singolo individuo, di ogni categoria(classe, genere, ordine, tipologia).  Dobbiamo accettare e riconoscere che non siamo tutti uguali. Questo fatto ci mette in difficoltà ed è la crisi che stiamo affrontando.

Il popolo di Israele fu sottomesso e soggiogato dal popolo egiziano, ebbe una storia di cammino per lunghi anni nel deserto con esperienze di dura prova.Aveva avuto questo ricordo/memoria in passato perciò era raccomandato di non trattare male lo straniero, l’altro, il suo prossimo. <<Amate lo straniero anche voi foste straniero nel paese di Egitto>> Dt. 10,19 Le nostre autorità superiori, quelle che governano l’Italia ora, sono giovani(immaturi), non hanno avuto queste esperienze di difficoltà, non vi sono paragoni a quell’esperienza del popolo d’Israele nel mettere in ordine ogni cosa e ogni bisogno partiva dalla richiesta del sostegno materiale come acqua e/o cibo. La mancanza dell’insegnamento a causa dalle poche esperienze non fa crescere una persona, perché nella vita, è nell’incontro con le persone che si impara molto, soprattutto dalle esperienze dure e difficoltà nel risolvere i problemi legati alle situazioni concrete di tutti noi. Cittadini italiani, stranieri, immigrati, rifugiati ecc. ora si sono mescolati tutto in Italia perciò abbiamo una grande crisi da affrontare con coraggio e speriamo che il Signore Dio ci aiuti.

Ho sentito molto dire dagli italiani anziani che si erano dati da fare, avevano imboccato le maniche per avere tutto questo benessere di oggi, e le autorità superiori ora vogliono dire al suo popolo, ai suoi compatrioti che non c’è posto per l’accoglienza agli immigrati.Esercitare l’ospitalità per noi credenti in Dio a chiunque è fondamentale, noi crediamo che siamo tutti figli di Dio sparsi nel mondo.E’ difficile affrontare la nostra situazione di oggi in Italia perché c’è una scarsa conoscenza delle leggi di Dio e nella sua pratica, quello che aveva voluto che si facesse  per tutta l’umanità.L’Italia è solo una porzione di terra nel mondo così come tutti i paesi e vuole amministrare la sua giustizia in questo modo, tralasciando il compito, il dovere di tutelare e proteggere tutti i diritti umani.

Ieri sera abbiamo ricordato Martin Luther King, il suo pensiero d’uguaglianza degli uomini e delle donne come medesimi figli quindi fratelli nel Signore, ci accompagna tutt’ora.  Sono passati ormai 50 anni dalla la sua morte e noi vediamo o scorgiamo che nella nostra convivenza con gli altri siamo ancora in cammino a un altro tipo di percorso nel deserto.

Siamo chiamati ora a superare le nostre difficoltà di mettere in ordine o di trovare un modo di mettere in ordine il nostro vivere pregando Dio che è l’ autorità suprema, la nostra guida sicura.

Come chiesa evangelica metodista di via XX settembre dobbiamo fare la nostra parte.Che cosa? Dovremo impegnarci a trovare il modo giusto di affrontare l’argomento dell’essere chiesa insieme. Come vedete, con questa comunità rappresentiamo un elemento di questo paese e nel nostro interno abbiamo eletto degli uomini e delle donne capaci e timorati di Dio per governare la  chiesa del Signore.

Quest’assemblea di ottobre è un momento /un tempo dedicato per provare a individuare le piste da  seguire.In qual è  direzione vogliamo andare? Cercando sempre di trovare i modi e mezzi per arrivare ad un punto di traguardo.Nel discutere l’aspetto della vita della chiesa nel nostro chiamato “essere chiesa insieme” si è tentato di risolvere e di dissolvere nel nostro linguaggio le parole che ci portano a dividerci e distinguerci. Vogliamo essere chiamati la chiesa evangelica metodista di via XX settembre punto, basta.La nostra  comunità è una chiesa, ma per descriverla poi è inevitabile dire che ci sono i gruppi: dei filippini, degli italiani, dei cinesi, qualche fratello malgascio, coreano e altri che compongono ad essa.Nel nostro parlare, nel nostro linguaggio riferito all’essere chiesa insieme, è inevitabile l’uso di parole che ci distinguono e ci accomunano ma ricordiamo che la nostra comunione nella fede in Gesù Cristo è il primo che deve occupare la nostra mente e il nostro cuore quindi il nostro essere chiesa.Il nostro essere chiesa insiemeva vissuto mettendo e disponendo insieme i nostri talenti e doni spirituali.

Voglia il Signore benedire la nostra testimonianza di fede, di speranza  e d’amore. Amen.

 

past. Joylin Galapon

Confessate i vostri peccati

Care sorelle e cari fratelli nel Signore, domenica scorsa abbiamo rinnovato la nostra consapevolezza sull’esortazione / ammonizione dell’apostolo Giacomo ai fratelli di fede nel Signore(alla comunità di credenti d’allora)  di  essere immune dai favoritismi cioè di non avere un atteggiamento di riguardo personale nella comunità bensì di praticare e  di vivere il dono della  fede confessata in Cristo Gesù perennemente.

E oggi vorrei proporvi un altro brano che ha scritto lo stesso apostolo che penso sia utile per noi credenti nella vera pratica d’accoglienza e di fede per il loro legame stretto nel nome del Signore capo della chiesa.

La chiesa di Cristo Gesù, paragonata come un corpo umano dall’apostolo Paolo nella sua lettera ai Corinzi fu purificata, santificata e salvata per mezzo del figlio di Dio da ogni peccato per poi portare ed essere un mezzo di guarigione nel suo interno. La profezia del profeta Isaia si è avverata in Gesù il Cristo, il servo di Dio. Il capo è Gesù Cristo, il suo corpo è la chiesa con i suoi membri che siamo noi.

Nella lettera di Giacomo al cap. 5 versetti  da 13 al 16 il credente membro, appartiene al corpo, vive per esso, si alimenta/si nutre dai suoi simili è in perfetto collegamento da tutti.».Quando il corpo non viene alimentato bene si indebolisce, si amala perciò ogni membro del corpo deve avere la cura necessaria, il prendersi cura è il compito principale di tutti. Il suo alimento è fornito da tutti gli altri, e una volta che si scopre ciò che si fa star male, che lo rende debole, trova guarigione da un’altra parte del unico corpo.  Il pensiero di Giacomo qui sembra dirci che il membro malato, che fa parte del corpo, trova negli altri membri il modo di guarire per mezzo della preghiera e confessione dei suoi peccati. Fuori da Cristo Gesù e da questo corpo non c’è guarigione.  Nello stesso corpo che è di Cristo Gesù si trova la guarigione di tutti i membri. Perciò non è un membro solo, autonomo, non può essere solo nel portare la sua malattia, altri saranno presenti per essere di aiuto, di sostegno per rendere il corpo di Cristo Gesù sano. Questa è la chiesa.Nella profezia nel libro di Isaia al 53,da 1 a 5 troviamo la risposta del nostro capo espiatore, di colui che ha fatto tutto, che ha condiviso e compreso pienamente con noi ogni esperienza di dolore, di sofferenza e di peccato.

Se l’apostolo Paolo ha paragonato la chiesa come un corpo umano, le membra di questo corpo sono chiamate  con i loro proprio nomi(occhio, mano, piedi, orecchi..ecc. come Anna,Barbara,Catirina,Daniela cioè noi come membri di chiesa), con funzioni differenti per poter stare bene e dare una ragione e uno scopo di essere.

Per l’apostolo Giacomo diversamente e parallelamente ci porta allo scoperto profondo del nostro benestare essendoci l’uno per altro nella nostra vita spirituale.

Lui pone delle domande:

 C’è tra voi qualcuno che soffre? Preghi.

In altre parole si può dire: Chi soffre prega, sapete chi sta soffrendo nella comunità? Così, quando ti trovi nella situazione di dolore e in pena devi pregare in mezzo ai fratelli di fede. Altri possono pregare per te perché sono dati da Dio a tua disposizione.Voi fratelli e sorelle pregate per lui o per lei. Non dovete sentirvi da soli perché avete l’uno l’altro essendovi parte di un unico corpo.

C’è qualcuno di animo lieto? Canti degli inni.

In altre parole si può dire: Chi è felice canta, sapete chi è felice nella comunità? Lo è colei che canta inni di lode al Signore che lo appartiene.  Non solo canta un canto di lode, ma anche di lamento per essere guarito.

C’è qualcuno che è malato?Chiama gli anziani della chiesa che preghino per lui, ungendolo d’olio nel nome del Signore.In altre parole si può dire: Chi sta male fra voi?  sapete chi sta male in mezzo a voi fratelli e sorelle? Ci sono i fratelli nella comunità che devono pregare  Dio, ci sono i fratelli che invocano il nome di Dio per intercedere affinché sia guarito dalla sua malattia.

L’esempio del racconto dell’uomo paralitico che abbiamo ascoltato nella quale  4 uomini, forse erano i suoi amici, lo portarono a Gesù per essere guarito. Quanto è importante la preghiera di intercessione che rivolgiamo al Signore in questo senso.

Nella comunità di credenti c’è la soprabbondanza di benedizione perché ciascuno possiede il dono della guarigione. Ciascuno  ha avuto il dono della fede per risanare quel membro malato del corpo.E’ fondamentale che uno sappia anche dire o nominare la propria malattia senza nasconderla per non essere o non rimanere da solo a portarla.Per Giacomo dunque è fondamentale ricordare chi siamo noi per l’altro o per l’altra. La nostra confessione di fede qui sta nel nostro affermare che la nostra condizione di essere umana è tale e quale. Siamo tutti uguali e pari davanti al nostro Dio. Quando le nostre malattie sono confessate in maniera reciproca ci sentiamo sollevate, la esperienza di sofferenza e il dolore sono meno gravi, avviando così la guarigione perché non ci sentiamo più soli, non siamo più soli a portare il peso della colpa e del peccato, ma insieme nel portare quel peso di malattia che ci aveva tormentato continuamente. La preghiera della fede salverà il malato e il Signore lo ristabilirà; se egli ha commesso dei peccati, gli saranno perdonati.

L’apostolo Giacomo sembrava dicendo lo stesso che se dovessimo trovare in questa situazione di parlarne agli altri. Siate confessanti, fiduciosi perché ci sono i nostri fratelli simili a noi che comprendono, che esperimentano o che forse hanno già passato la stessa situazione; per sentirvi liberati, dite che cosa vi sentite, dite entrambi dove vi sentite manchevoli perché parlandone potete avere tra di voi delle risposte che porta al ristabilimento del vostro corpo. Non dimenticate che siete tutti nella stessa condizione ma nel tempo delle prove svariate vengono inaspettate,  preparative perché  questa è la vostra vita, è il peso da portare ogni giorno.

Quando uno/a si sente che ha peccato, che confessi per acquisire la guarigione.

Ogni preghiera, ogni richiesta di guarigione è esaudita in nome della fede confessata in Cristo Gesù.La fede vissuta in comunione con gli altri è la vita eterna che ha promesso il Padre del cielo e della terra, ridona la salute perché è la medicina(cura) di ogni malattia spirituale come di un animo turbato, di un senso di colpa, di un senso di imperfezione. La nostra fede in Dio è comunitaria perché si concretizza nel nostro stare bene insieme di fronte a Lui che si fa trovare sempre quando ci sentiamo di essere bisognosi di guarigione.

Nella liturgia domenicale, la parte dell’ordine del nostro culto, in cui c’è la nostra confessione di peccato comunitaria e pubblica, è necessaria per farci rendere conto che siamo tutti uguali peccatori davanti al nostro Dio e al nostro prossimo. Così anche l’annuncio del perdono è comunitario e pubblico, è necessaria per farci rendere conto che siamo tutti uguali peccatori perdonati,  graziati davanti al nostro Dio e al nostro prossimo.

I credenti nella liturgia domenicale condividono e riconoscono il peso da portare di quell’inadempienza, l’uno per l’altro, oppure la coppia dell’altro, poi entrambi sono uno e diventano perfetti perché appartengono al signore Gesù Cristo il loro redentore che li ha resi perfetti.Questo è l’evangelo per noi che abbiamo udito la voce del Signore e ci siamo ritrovati qui in questo tempio del nostro Signore. Confessate dunque i vostri peccati gli uni agli altri, pregate gli uni per gli altri affinché siate guariti; la preghiera del giusto ha grande efficacia.

Quando l’apostolo ha posto le domande ai credenti, egli sapeva che rischiavano di trascurare questo aspetto di essere confessanti peccatori perché avevano dimenticato del loro essere peccatori ma resi giusti. Così, essi potevano avere delle difficoltà di ammettere tali che in qualsiasi momento anche se erano forti nella fede la tentazione opera dello spirito maligno è altrettanto forte che entra in gioco come era stato nella vita di Giobbe.

Questi versetti della lettera di Giacomo, mi hanno fatto riflettere a lungo soprattutto è una benedizione per noi da ricercare perché  così possiamo esserci di aiuto uno con l’altro,

nella preghiera,

nella confessione

e nella remissione dei nostri peccati.

«Confessate dunque i vostri peccati gli uni agli altri »Secondo quello che dice la lettera di Giacomo, dovremmo essere in grado di confessarci a vicenda. Il vero senso di:«confessare i propri peccati » vuol dire non solo ammettere il peccato ma assumersi la piena responsabilità per il peccato commesso. Questo dato di fatto è illustrato molto bene nelle pagine della Bibbia dove c’è la descrizione del primo «peccato »dell’umanità: quando Dio chiede ad Adamo se avesse mangiato il frutto proibito, egli, invece di rispondere assumendo le sue responsabilità, dà la colpa alla donna e dice«la donna che tu hai messo accanto, è lei che mi ha dato del frutto….»Gen.3,12 e quando Dio pone la stessa domanda alla donna, lei dà la colpa al serpente e dice«il serpente mi ha ingannata e io ne ho mangiato…»Gen. 3,13. La colpa è sempre di un altro.

Spesso anche noi, facciamo cosìcome loro, riconosciamo di essere peccatori, ma la piena colpa è (la responsabilità) per quello che si è commesso non la vogliamo ammettere ci si scusa sempre con tanti ragionamenti e troviamo mille motivazioni per renderci meno colpevoli di quello che si è fatto in realtà. Ma confessando con consapevolezza e pentimento a Dio e al prossimo Dio perdona.

Questo significa che Dio perdona chi confessa umilmente i suoi peccati «Se egli ha commesso dei peccati, gli saranno perdonati »e di confessare i peccati l’uno all’altro, pregando l’uno per l’altro affinché siamo guariti.

Il peccato ci allontana da Dio ma Gesù come ha profetizzato Isaia è il nostro servo del Signore si è caricato le nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori e con la sua passione cancellerà tutti i nostri peccati tutto questo ha fatto per amore al fine di ottenere la nostra riconciliazione, il perdono e la salvezza. Gesù ci purifica con la sua misericordia infinita e ci restituisce alla comunione con il Padre e con i fratelli ci dona il suo amore, la sua gioia e la sua pace. Amen.

past. Joylin Galapon

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Dell’aldilà e dall’aldilà. Che cosa accade quando si muore?

“Dell’aldilà e dall’aldilà. Che cosa accade quando si muore?”di  Paolo Ricca,
Claudiana, Torino, 2018, pp. 184,
Euro 15,00

 

Il tema del dopo-morte, insieme fascinoso e terribile, da sempre spinge gli uomini ad interrogarsi, cercando risposte che in nessun caso possono essere dimostrate. In questo bel trattato Paolo Ricca ricostruisce il percorso storico-teologico dell’idea dell’aldilà, sottolineando punti di forza e di debolezza delle varie teorie, allo scopo di individuare quale “potrebbe” essere per un cristiano la risposta più coerente con la propria fede. Tre sono le possibili ipotesi su quello che accade nell’aldilà: la fine definitiva di tutto; una pausa in attesa del ritorno alla vita; una continuazione in modo diverso. Ognuna di queste risposte viene approfondita, mettendone in luce le sfumature: innanzitutto, la posizione dell’Antico e del Nuovo Testamento e il significato di termini come limbo, geenna e paradiso; quindi la teoria platonica dell’immortalità dell’anima, estranea al mondo biblico, ma lentamente “cristianizzata” fino a diventare dogma. Si discutono le posizioni, nei confronti di questo tema, di Agostino e Tommaso d’Aquino, di Lutero e Calvino, di teologi moderni come Karl Barth, e si affrontano complessi interrogativi sulla natura dell’anima, sul suo rapporto col corpo, sul luogo dove va, se espia nel purgatorio, se dorme o se viaggia, sul concetto di eternità, sul giudizio individuale e sull’intercessione reciproca tra i vivi e i morti, sulla paura della morte e i mezzi per esorcizzarla. Anche sulla dottrina della reincarnazione si individuano, e si confutano, le fonti bibliche a sostegno, mentre se ne riconosce la presenza nei testi gnostici, e vengono illustrate alcune posizioni, come quella ambigua di Origene, che in realtà sosteneva la preesistenza dell’anima, o la credenza dei catari, presso i quali tale dottrina, funzionale a completare la penitenza dell’anima, faceva parte di un insegnamento esoterico, fino alle concezioni teosofiche ed antroposofiche, che legano invece la necessità della reincarnazione al compimento della conoscenza. Si affronta il problema del numero delle reincarnazioni e della tipologia di corpo, umano o animale, in cui ci si può reincarnare, per concludere che, nonostante alcuni aspetti positivi, si tratta di una dottrina incompatibile con quella cristiana. La teoria della risurrezione dei corpi è analizzata attraverso la testimonianza biblica, mettendo in rilievo le sue caratteristiche: la continuità della persona e la trasformazione del corpo: “la risurrezione non è il prolungamento della vita terrena, ma l’inizio di un’altra vita”. Le risposte del Nuovo Testamento al problema dell’aldilà sono tutte concordi sul fatto che la morte non può separare il credente da Cristo; perciò il problema riguarda solo la tempistica, se la comunione con Cristo avverrà immediatamente dopo la morte o se ci sarà uno stato intermedio, caratterizzato da un’attesa vigile o da un sonno temporaneo. Si discute anche dei criteri del giudizio universale, se per fede o per opere, e della sorte dei non credenti. Completano il testo una sezione figurativa commentata, che documenta l’approccio al tema nell’ambito artistico, e un’appendice con tre testi significativi sull’argomento, tratti da Lutero, Calvino e Bonhoeffer. In conclusione, testo ricco e interessante, che forse non ci aiuta a superare la paura della morte, ma certamente contribuisce a farci meglio comprendere un argomento fondamentale per la nostra fede, oggi troppo spesso trascurato.

Antonella Varcasia