Festa della Riforma 2023

Per la Festa della Riforma 2023, la chiesa metodista di Roma Via XX Settembre e la Consulta delle Chiese Evangeliche del Territorio romano hanno organizzato l’incontro “Un popolo sacerdotale. Doni e compiti nella chiesa della Riforma“. Hanno partecipato all’incontro il prof. Fulvio Ferrario, docente di Teologia Sistematica della Facoltà Valdese di Teologia, e il prof. Fabrizio Bosin, docente di Cristologia della Pontificia facoltà Marianum.

Ha moderato l’incontro la pastora Mirella Manocchio della chiesa metodista di via XX settembre.

 

Messaggio conclusivo dell’Assise della FCEI

«Sentinella, a che punto è la notte? Sentinella, a che punto è la notte?».

La sentinella risponde: «Viene la mattina, e viene anche la notte. Se volete interrogare, interrogate pure; tornate un’altra volta».

Isaia 21,11-12

Come il profeta Isaia, che parlava in un tempo di deportazione, sofferenza e crisi, sappiamo di camminare in tempi bui e difficili.

Camminiamo nella notte quando nel nome del nazionalismo, degli interessi economici, delle appartenenze religiose scoppiano guerre che non riusciamo a fermare.

Camminiamo nella notte quando la terra che Dio ci ha affidato perché la custodissimo si desertifica, quando diventa arida e repellente, quando costringe i suoi abitanti a cercare rifugio in altri paesi e in altri continenti. Quando milioni di persone non hanno cibo per sfamarsi, acqua per dissetarsi e irrigare i campi, accesso alle cure, a una casa dignitosa, all’istruzione, ai vaccini.

Camminiamo nella notte quando non riusciamo a dare speranza e fiducia alle nostre figlie e ai nostri figli, sempre più spesso convinti che il loro futuro sarà peggiore del nostro passato. Quando tante persone, giovani ed adulti, lavorano senza percepire il giusto salario; quando tanti immigrati sono sfruttati e talora trattati come schiavi privi di diritti umani fondamentali; quando le donne sono ferite, uccise o violate da un potere maschile violento e distruttivo; quando le persone sono discriminate, offese e persino uccise per la loro identità di genere e orientamento sessuale

Camminiamo nella notte quando vediamo vacillare i principi fondamentali delle democrazie; quando oligarchi, magnati e demagoghi irrompono sulla scena pubblica e, nel nome del popolo, propagandano una pericolosa miscela di nazionalismo, sovranismo, militarismo, radicalismo. E quando tutto questo limita i diritti umani, la libertà di parola e di coscienza; quando altera e manipola la verità; quando porta alla chiusura delle frontiere e a respingere immigrati e richiedenti asilo.

In questo tempo dobbiamo vigilare, consapevoli che Dio ci chiama a restare svegli, ad aprire occhi a cuore di fronte alle ingiustizie.

Non ci rassegniamo al pensiero dominante che pone al centro il profitto e il proprio interesse di individui, di popolo, di etnia. Denunciamo gli atteggiamenti xenofobi e razzisti, le idee e la propaganda antisemita e le discriminazioni nei confronti di varie comunità di fede, prima tra tutte quella islamica, che riscontriamo nella società europea e anche italiana.

Ci adoperiamo per sostenere chi vacilla, chi chiede soccorso, chi ha bisogno di protezione. A questo prossimo e a questa prossima apriamo le porte delle nostre chiese, dei nostri centri di aiuto e di accoglienza; di fronte a loro testimoniamo che l’Evangelo che predichiamo e che ci muove si incarna in gesti concreti di giustizia, pace, salvaguardia del creato.

Nell’attesa dell’alba nuova del Regno di Dio, noi camminiamo in questo tempo di oscurità profonda, nella fiducia che colui che cammina con noi e illumina i nostri passi incerti è Gesù Cristo, “la luce del mondo” (Gv. 9,5). Nel buio della falsità che si traveste da verità, noi annunciamo che “il frutto della luce consiste in tutto ciò che è bontà, giustizia e verità” (Ef. 5,9). Quando la vita di molti, di troppe, attraversa una galleria buia e tutto ciò che era familiare diventa ostacolo nell’oscurità, noi riaffermiamo che “la luce splende nelle tenebre, e le tenebre non l’hanno sopraffatta” (Gv. 1,5).

Tutto questo non ci esime dal sentire sulla nostra coscienza il peso di tutto ciò che per noi è “peccato”: il peccato di non aver saputo costruire la pace e la giustizia, custodire con cura la buona creazione di Dio, testimoniare con gioia e concretezza la nostra speranza in Cristo che fa ogni cosa nuova. Ma ci permette di vivere nella grazia e di camminare nella notte buia riconoscendo i tanti segni di speranza, i tanti germogli del Regno che viene, le tante voci che rompono il silenzio: l’interrogazione di chi chiede quanto è ancora lunga la notte, e la risposta fiduciosa della sentinella che ci conferma che il giorno verrà.

È questo il senso profondo della fede in Cristo che annunciamo: quando le tenebre sono più scure, immaginare la luce; dove regna lo sconforto, testimoniare la speranza; quando vincono la chiusura e gli egoismi, affermare l’accoglienza e la comunione; nel tempo dell’oppressione e della guerra, costruire la giustizia e la pace. “La notte è avanzata, il giorno è vicino; gettiamo dunque via le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce” (Romani 13,12).

 

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Culto evangelico della Riforma

Culto evangelico della Riforma
Domenica 3 novembre
RAIDUE ore 10,00

In Eurovisione dalla Chiesa valdese di Prali
nelle valli valdesi del Piemonte
a cura della rubrica Protestantesimo

Solus Christus
Culto in occasione della domenica della Riforma
protestante presieduto dai pastori valdesi della Valle con la
partecipazione del coro «Eiminal», diretto da Pierpaolo
Massel, e delle corali protestanti della Val Germanasca.
All’organo Malte Dahe.

Per rivedere le puntate visita il sito VIDEO
Protestantesimo su Facebook
Indirizzo mail : protestantesimo@fcei.it; protestantesimo@rai.it

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Prolusione Facoltà Valdese di Teologia

Da Riforma

La prolusione della pastora Letizia Tomassone sul variegato contributo femminile alla Riforma protestante

di Maria Teresa Piani

 

Sabato 5 ottobre, la Facoltà valdese di Teologia di Roma ha inaugurato il 165° anno accademico. Alla prolusione erano presenti il corpo docente, gli studenti e le studentesse iscritti alla Facoltà in vista del pastorato, gli iscritti al corso di Scienze bibliche e teologiche, gli studenti universitari ospiti del centro Melantone e gli aderenti al programma Erasmus. La prolusione, affidata per la prima volta a una donna, è stata tenuta dalla professoressa di Studi femministi e di genere Letizia Tomassone. Tema trattato: «Donne della Riforma. Un soggetto imprevisto?». Nella prolusione la Riforma è stata analizzata con criteri storici e con criteri di genere, attraverso l’analisi di testi scritti dalle donne che in vari modi ebbero parte attiva nel promuovere un cambiamento sociale e spirituale, nel XVI secolo.

 Si è approfondito il tema di come e se la Riforma portò trasformazioni per le donne nella chiesa e nella società. Se cambiarono i rapporti tra donne e uomini e come le prime poterono riappropriarsi e far valere i propri diritti: ricevere un’educazione, ereditare, avere proprietà, esercitare una professione.

Due principi della Riforma incisero sulla trasformazione sociale nella vita delle donne: il sacerdozio universale e il Sola Scriptura. La donna doveva essere sempre vista come sposa e legata alla vita familiare, al punto che era sconsigliata la condizione di vedovanza. Viene citato l’esempio di Wibrandis Rosenblatt che fu sposa di quattro Riformatori. L’unica possibilità socialmente riconosciuta era nel matrimonio e nella vita familiare. Ma, essendo la famiglia lo spazio in cui si svolgevano le attività artigianali e commerciali, la moglie diventava di fatto assieme al marito un’imprenditrice accettata e ascoltata. Un primo esempio lo abbiamo attraverso le molteplici attività imprenditoriali, come si direbbe oggi, di Katerina von Bora sposa di Lutero. Le donne, pur non avendo ufficialmente spazi di predicazione, o decisionali, o confessionali, furono molto attive proprio nella predicazione e nella diffusione delle idee della Riforma. Il principio del sacerdozio universale permette di poter vivere e far conoscere la propria fede nelle attività e nelle professioni da loro esercitate.

Nella prolusione è stata menzionata la situazione della città di Strasburgo, sede di una Riforma più tollerante e aperta di quella tedesca. In questa città un decimo della popolazione era di fede anabattista e due donne vengono ricordate: una come “anziano di Israele”, Barbara Rebstock, e Ursula Jost come guida e profetessa della comunità. Fu ancora una donna, Margarethe Pruess, audace editrice e tipografa che pubblicò le loro visioni. Margarethe rimase dentro le regole stabilite dalla società del suo tempo, accettando di prendere dei mariti tipografi con i quali poté mantenere e esercitare, con ruolo decisionale, la sua attività. Ciò le permise di far stampare scritti che apportarono un significativo contributo allo sviluppo dell’anabattismo. Ed è sempre una donna Katharina Zell, ex badessa che uscita dal convento sposò Matteo Zell, ad avere l’incarico di organizzare e coordinare l’accoglienza dei profughi in fuga dalle stragi legate alle guerre dei contadini. Il lavoro svolto dalla Zell fece sorgere l’idea che anche le donne potevano avere un ruolo e una vocazione nell’ambito della chiesa.

Per le donne era un epoca complessa:di scontri, di discussioni, di conversioni. Un periodo fiorente per la scrittura di epistole e di testi per la Riforma quali inni, poesie, profezie. Le donne pubblicano e per poterlo fare, il più delle volte attribuiscono il merito al marito oppure firmano solo con le iniziali. Come fa notare la prof. Tomassone: «Le donne della Riforma, sono state capaci di creare una rete, di dialogare tra loro e sostenersi a vicenda. La rete delle donne in dialogo fra loro creava una forte solidarietà e sostegno che poi si riversava anche sul versante maschile delle relazioni».

Un’ altra spinta teologica della Riforma è stata la necessità di saper leggere e scrivere per accostarsi alla Scrittura in modo individuale. Per Lutero è importante che anche le donne sappiano predicare affinché, nel momento di forte necessità in mancanza dell’uomo, esse siano in grado di sostituirlo. «Quando non ci sono uomini che parlano, è necessario che lo facciano le donne». Diventa obbligatorio che i genitori, facciano frequentare le scuole sia ai figli che alle figlie. Con la Riforma anche i mariti si fanno carico e partecipano alla cura della prole. La scuola, pubblica e gratuita, verrà affidata ai magistrati civili che sostituiranno l’opera dei conventi. A Ginevra, alle ragazze della seconda generazione della Riforma, sarà preclusa l’istruzione gratuita delle scuole superiori. Questo comporterà gravi conseguenze che si protrarranno per lungo tempo.

Pertanto, le donne sono riuscite a contribuire attivamente ai cambiamenti che la Riforma ha portato nella società e nella chiesa, superando gli ostacoli imposti dalla mentalità del tempo.

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Gli Ebrei di Lutero

 di THOMAS KAUFMANN,
Claudiana, Torino, 2016,
pp. 219, Euro 19,50

Una corretta celebrazione della Riforma non può prescindere da una valutazione obiettiva dei suoi lati oscuri. E’ quanto cerca di fare, con grande rigore storico, questo testo di Kaufmann a proposito dell’atteggiamento di Lutero nei confronti degli ebrei. L’obiettivo è quello di inquadrare storicamente tale aspetto cogliendone la diffusione generalizzata anche negli ambienti cattolici ed umanistici dell’epoca, al fine non di giustificarlo, ma di comprenderne le motivazioni.

Il testo approfondisce diversi elementi: innanzi tutto il passaggio di Lutero dall’antigiudaismo, caratterizzato da motivazioni religiose, all’antisemitismo, improntato invece ad un odio razziale. In secondo luogo Kaufmann affronta il differente atteggiamento del primo Lutero rispetto a quello maturo: la prima fase si rispecchia nel trattato Gesù Cristo è nato ebreo (1523), caratterizzato dalla tolleranza e da un atteggiamento benevolo che fece addirittura sperare gli ebrei del suo tempo di aver trovato in lui un amico e sostenitore; la seconda risalta particolarmente nell’opera Degli ebrei e delle loro menzogne (1543), segnata invece da un fermo rifiuto, da un linguaggio volgare e da una polemica violenta che arrivava fino a propugnare l’espulsione degli ebrei dall’Europa cristiana.

Kaufmann cerca di comprendere le motivazioni dell’uno e dell’altro atteggiamento, sostenendo che il mutamento non è imputabile alla modifica delle convinzioni teologiche, bensì ad una serie di fattori “pratici”, prima fra tutti la delusione per le mancate conversioni degli ebrei, che Lutero riteneva possibile ottenere con un atteggiamento benevolo e che invece non ebbero luogo nella misura sperata: questo “indurimento” degli ebrei convinse Lutero della loro natura demoniaca.

Infine, l’autore affronta la storia degli effetti, attraverso una carrellata storica caratterizzata da una “recezione selettiva” che, rifacendosi al primo o al secondo Lutero, ha recepito ora l’atteggiamento tollerante ora quello polemico: ad esempio, i pietisti considerarono Lutero un modello di tolleranza e di mentalità illuministica; i populisti e i nazisti lo strumentalizzarono per sostenere la politica razziale. A parere di Kaufmann, gli scritti di Lutero non possono aver ispirato direttamente l’ideologia antisemita eliminatoria del nazionalsocialismo, ma certamente hanno favorito l’Olocausto, paralizzando il coraggio civile della popolazione luterana. Kaufmann conclude criticando sia la recezione selettiva di Lutero sia la sua trasformazione in un’icona e sottolineando che “l’antisemitismo di Lutero è una componente integrale della sua persona e della sua teologia; lo si può trattare adeguatamente soltanto con una corretta storicizzazione”, che lo relativizza e ne fa emergere la fallibilità.

Antonella Varcasia

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Ripensare la Riforma protestante.

Ripensare la Riforma protestante. Nuove prospettive degli studi italiani
a cura di LUCIA FELICI,
Claudiana, Torino, 2016, pp. 410,
Euro 29,00

Questa raccolta di saggi ripercorre la storia degli studi italiani sulla Riforma protestante, evidenziandone limiti e lacune, ma anche sottolineandone i nuovi orientamenti. Il volume è suddiviso in due parti: la prima relativa ai movimenti eterodossi in Italia; la seconda al rapporto tra questi e il mondo europeo. Diversi sono i pregi del testo: innanzi tutto, l’approccio interdisciplinare, che permette di cogliere le diverse “anime” della Riforma. Accanto ai saggi storici, infatti, ne esistono altri concernenti la storia dell’arte e della letteratura, come quello sul dibattito relativo alle immagini, con un’interpretazione “riformata” di Jacopo Pontormo, il quale avrebbe utilizzato le sue opere per trasmettere messaggi teologici eterodossi. O come quello che spiega perché i testi religiosi eterodossi furono a lungo esclusi dal canone della letteratura italiana, in quanto considerati non rappresentativi del sentimento religioso nazionale. Teologico è invece il saggio di Paolo Ricca, dedicato all’analisi della natura stessa della Riforma, che consiste nell’aver dato un nuovo fondamento alla Chiesa, ponendo la Bibbia al posto del papato. Altro pregio del volume è l’attenzione alle figure “marginali” della Riforma, di cui viene sottolineata l’importante opera di sostegno e propagazione delle nuove idee, come i nobili e le donne del territorio padano-veneto che, protagonisti di una dissidenza “sommersa e silenziosa”, incapace di influenzare la vita politica, sociale e culturale, erano però in grado di intessere vaste reti clandestine di contatti.

Molti saggi sottolineano la politica come elemento costitutivo della Riforma in Italia: ad esempio, la polemica dei baroni napoletani contro l’introduzione dell’Inquisizione era motivata anche dalla difesa dei propri beni e prerogative, così come la repressione da loro subita derivava dal timore che le nuove idee potessero fomentare ribellioni all’ordine costituito. Altro elemento di valore è l’attenzione riservata alla Riforma radicale, sia per il risorgere dell’interesse degli studiosi, sia perché fu soprattutto in questa forma che si declinò il movimento ereticale italiano. Fra tutti emerge il saggio che propugna un’idea più ampia del radicalismo italiano, sotto la cui denominazione si nascondono fenomeni assai diversificati che, da un lato, non possono essere ridotti a semplici devianze ereticali rispetto alla Riforma magisteriale e, dall’altro, rappresentano una fucina di idee essenziali per la nascita della civiltà moderna. Dai saggi raccolti emerge un’Italia sommessa ma non taciturna, ricettiva delle novità provenienti d’oltralpe e in grado di rielaborarle in forma autonoma unendole alle proprie tradizioni, nonché di sviluppare le idee di tolleranza e libertà di coscienza, fornendo così un contributo fondamentale al protestantesimo europeo e incidendo in modo decisivo sull’evoluzione della società moderna.

Antonella Varcasia

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Sola Scriptura

La Riforma, mettendo al centro la Scrittura (intesa come raccolta degli scritti dell’Antico e del Nuovo Testamento), ha voluto indicare la sorgente a cui quotidianamente i cristiani possono dissetare la loro sete di conoscenza di Dio. Ciò vale non solo per i protestanti ma per tutte le chiese cristiane – le quali oltretutto sono teologicamente cresciute negli ultimi decenni grazie anche al dialogo ecumenico. L’ecumenismo infatti ha trovato proprio nella Scrittura il terreno fertile d’incontro delle tre grandi famiglie confessionali. Attraverso lo sviluppo delle scienze bibliche, la contrapposizione tra Scrittura e Tradizione si è relativizzata. La Scrittura stessa è frutto di una tradizione orale che ha preceduto sia i testi scritti – i vari libri della Bibbia – sia l’ingresso, l’accoglimento a pieno titolo di questi stessi testi nella famiglia degli scritti canonici.
Anche il canone biblico rappresenta pur sempre una scelta umana, ancorché ispirata. Il canone non esaurisce la rivelazione di Dio. Da questa Scrittura (che di fatto è una biblioteca di libri diversi, sia come autori che come datazioni) si dipartono interpretazioni che, non di rado, appaiono opposte tra loro, proprio come i comportamenti morali che ne discendono. Sicché da un unico testo biblico si aprono vie che possono condurre a conseguenze ecclesiologiche differenziate, malgrado il riferimento alla stessa Scrittura. È stato così sia nel secolo della Riforma luterana, zwingliana, calvinista (si pensi, per fare un solo esempio storico, al dibattito conflittuale sulla Santa Cena), sia nei secoli successivi e oggi questa pluralità interpretativa perdura.Anche nella grande famiglia evangelica è presente una spiccata diversificazione d’interpretazioni e posizioni teologiche conseguenti. Se allarghiamo lo sguardo alle altre chiese cristiane, notiamo come le diversità interpretative si accentuino: vedi la questione del concetto stesso di chiesa o il primato petrino o la successione apostolica, o il rapporto con il popolo d’Israele o la concezione del sacerdozio e dei ministeri o il ruolo delle donne nella chiesa…
Ma come leggiamo i testi biblici? Non da oggi assistiamo alla rivitalizzazione di un approccio biblicistico alla Parola di Dio, che riduce il principio del Sola Scriptura a «Unica Scriptura». Vale a dire che si tende ad affermare l’imposizione di un’unica interpretazione dello stesso testo biblico, nella pretesa che l’interpretazione data sia la sola vera e assoluta. Quasi che ogni versetto o pericope biblica racchiuda uno e un solo significato. E questo crea un terreno favorevole al fondamentalismo nelle sue varie espressioni. Mentre sappiamo – anche perché le scienze bibliche lo hanno da tempo dimostrato – che i testi biblici (e non solo quelli) racchiudono significati e scenari diversi, insieme a una ricca gamma di indicazioni che vanno scoperte scavando nella lettera scritta. Il testo biblico, insomma, va ricollocato e compreso, per quanto scientificamente possibile, nel contesto storico in cui venne pensato e formulato. Occorre tener in debito conto che il linguaggio è frutto della temperie culturale di un’epoca. I testi biblici, alla stregua di altri testi antichi, prima di essere messi per iscritto in un momento storico preciso, sono stati tramandati oralmente. Questo passaggio dall’orale allo scritto, come da una lingua a un’altra (per esempio la Traduzione dei LXX) ha logicamente comportato mutazioni che vanno individuate con metodi scientifici.

Sola Scriptura per noi significa sostanzialmente tre cose.
In primo luogo che Dio è sovranamente libero, e quindi può rivelarsi anche al di là della Scrittura stessa; ma di certo Dio si è rivelato in questa Scrittura dell’Antico e del Nuovo Testamento.
In secondo luogo che la Scrittura da noi ricevuta deve confrontarsi non solo con il tempo in cui è stata pensata e ispirata, ma anche e soprattutto con il nostro tempo: è il presente di chi legge, infatti, il vero banco di prova della comprensione dello spirito del testo e non solo della lettera.
In terzo luogo che la Scrittura è per noi il principale nutrimento della nostra fede, del nostro pregare, della nostra spiritualità, del nostro essere chiesa.

Non siamo noi, chiese protestanti, i detentori esclusivi della Scrittura e di interpretazioni che vorremmo assolutizzare. La realtà è che noi, in qualche modo, siamo stati affascinati e «catturati» dal Sola Scriptura: un principio che ci guida e spinge a percorrere itinerari nuovi e inediti nella straordinaria scoperta di un continuo dialogo con Dio in Gesù Cristo. «Fermatevi sulle vie e guardate, domandate quali siano i sentieri antichi, dove sia la buona strada, e incamminatevi per essa; voi troverete riposo alle anime vostre!» (Geremia 6, 16).
L’emozione e la fiducia in Dio, che avvertiamo nel leggere la Scrittura, non ci impediscono dall’avvalerci di metodi di analisi critica dei testi. Qualunque metodo d’indagine – da quello esegetico-storico-critico a quello letterario, simbolico, psicoanalitico, narrativo – è al servizio di una sempre migliore comprensione del testo biblico e non viceversa. Ciò che realmente conta è che lo Spirito del Signore faccia rivivere per noi quella Parola antica che ci è stata trasmessa: una Parola che per Grazia di Dio, ogni giorno, dona a noi speranza, incoraggiamento, guarigione, redenzione, gioia riconoscente.
La Scrittura vive se lo Spirito del Signore la chiama alla vita e noi con lei. La chiesa nasce, cresce e si orienta nel suo procedere attraverso l’ascolto e la comprensione della Parola biblica.

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Solus Christus

 

Dire «Solo Cristo» non significa giudicare o disprezzare la fede, la spiritualità, le credenze altrui. Significa solo dire che, per noi, Cristo è la via attraverso la quale Dio si rivela, e, di conseguenza, quella che intendiamo seguire. Una via, un percorso, non un concetto: lungo una via si cammina, ci si guarda avanti e indietro, ci si ferma o ci si accampa, si incontrano altri viandanti. Come ci ricorda il libro degli Atti, i primi cristiani erano chiamati «quelli della Via».Cercare Dio solo in Gesù Cristo significa cercarlo nel confronto con un essere umano concreto, nato, vissuto e operante in un luogo e un’epoca storica precisa, morto di una morte atroce e vergognosa. In un mondo pieno più che mai di aspiranti maestri, sacerdoti e signori, per noi Gesù Cristo è l’unico Maestro, Sacerdote e Signore.

L’unico maestro: colui che per noi ha «parole di vita eterna» (Gv 6, 68), parole e azioni che ci mettono in questione, ci sconvolgono, ci fanno guardare con altri occhi le cose, le persone, i fatti della nostra vita.

L’unico sacerdote: il solo intermediario tra noi e Dio, che ha proclamato e attuato la fine del regime dei sacrifici e della distinzione tra sacro e profano. In Cristo non abbiamo più bisogno di luoghi santi, di professionisti del divino, di offerte sull’altare per placare l’ira di Dio o ingraziarcene i favori.
L’unico Signore: il condannato a morte, sconfitto e abbandonato da tutti, la cui autorità non si basa sul denaro, sulle armi, sulla parola seduttrice, il cui modo di agire mette in discussione tutti gli altri poteri. Il Crocifisso che, tre giorni dopo, è risorto. Con la sua risurrezione (caparra e speranza per ognuno di noi), Dio stesso ha annunciato che la morte e i poteri di questo mondo non hanno l’ultima parola.
Riconoscere il Solo Cristo significa relativizzare tutte le filosofie, le ideologie, le religioni, le potenze che aspirano alla nostra adesione e alla nostra obbedienza. Anche dopo la pretesa «fine delle ideologie» restiamo tentati di cercare la nostra sicurezza nell’abbandono acritico a qualche assoluto. Non ci sono solo i fondamentalismi religiosi: pensiamo ai nazionalismi, al razzismo, alla fiducia nella competizione, nella finanza o nel progresso scientifico.
Solo Cristo non è un integralismo contrapposto ad altri integralismi; è un criterio di libertà, soprattutto verso le idee, le cause, i modi di pensare che ci sono più vicini e congeniali. Il loro ruolo e valore è quello di strumenti per capire e cambiare la realtà, non di fini, di ideali da realizzare a ogni costo. Perché «tutto è nostro, ma noi siamo di Cristo» (cfr. 1 Cor. 3, 22-23).

Avere Cristo come maestro non significa osservare il mondo dall’alto, con la sicumera di chi possiede la verità. Al contrario, significa imparare quello che Bonhoeffer chiama «lo sguardo dal basso»: guardare gli eventi dalla prospettiva «degli esclusi, dei sospetti, dei maltrattati, degli impotenti, degli oppressi e dei derisi». In Gesù Cristo ci viene rivelato non un Dio aggressivo e distruttore che rivaleggia con gli altri poteri per la conquista del mondo, ma un Dio sofferente e solidale con tutti e tutte noi, con tutti i dimenticati e gli sconosciuti, con tutta la creazione mai come oggi minacciata.
Il Solus Christus è un aiuto a orientarsi nell’incertezza di una società «liquida», priva di punti di riferimento, dove regnano il rischio, la precarietà, l’insicurezza, la disperazione. Nel Cristo crocifisso e risorto impariamo a vivere la nostra debolezza, senza lasciarci sballottare da «ogni vento di dottrina» (cfr. Ef 4, 14), né trincerarci in identità forti e assolute. Gesù ci libera dalla frenesia dell’attivismo (anche quello ecclesiastico) e dall’ossessione di salvare il mondo: al suo seguito c’è da lavorare, ma anche da pregare, da contemplare, da «stare in silenzio davanti al Signore e aspettarlo» (cfr. Sal 37, 7).
Gesù di Nazareth non è rimasto nella tomba, ma neanche cammina visibilmente su questa terra.
Crediamo che egli è presente tra noi, dovunque due o tre sono riuniti nel suo nome. Gesù ci ha lasciato la sua Parola da meditare, e il suo Spirito che ci aiuta a farla nostra. Ci ha lasciato il prossimo in cui cercare il suo volto, e sorelle e fratelli con cui ogni giorno costituire la chiesa che testimonia di lui.

 

 

 

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Soli Deo Gloria

Narrano i cieli la gloria di Dio, gli spazi annunziano l’opera delle sue mani
(Salmo 19)

«È privo di fondamento (…) questo legare l’uomo a se stesso, anziché fargli prendere coscienza del fatto che un corretto orientamento dell’esistenza scaturisce da una volontà di ricercare, accrescere, esprimere la gloria del Signore». Questa la risposta, cioè «Soli Deo gloria», solo a Dio la gloria, che Giovanni Calvino manda da Ginevra nel settembre del 1539 al cardinale di Carpentras Jacopo Sadoleto. Quest’ultimo, nella sua lettera del marzo dello stesso anno, aveva invitato pubblicamente i ginevrini, con i quali Calvino viveva in quel momento tutta la novità della Riforma, a ritornare sulla «retta via» della Chiesa cattolica. A rendere quindi «gloria», piuttosto, alla sua Chiesa, alla disciplina, alla dottrina, ai dogmi.
Senza i dogmi e i sacramenti della tradizione cattolica, aveva scritto il cardinale, sarebbe preclusa la vita eterna ai credenti ribelli. Una minaccia terribilissima che, come Calvino sottolinea, tende a tenere imprigionate le anime a cui non sia permessa una propria originale «lettura» della Parola delle Scritture, e quindi un dialogo libero, personale, confidente e responsabile, con il Dio che la Riforma vuole recuperare in tutta la sua gloria «esclusiva».

Soli Deo gloria diventa uno dei cinque «Sola» della Riforma, fondamentale e fondante degli altri quattro. Perché per rendere gloria a Dio, che vuol dire amarlo per la sua bontà e la sua creazione di cui facciamo parte, bisogna ascoltare la propria vocazione, cioè la Fede, nutrirla con la Scrittura, gioire della Grazia, riferirsi costantemente all’esempio di Cristo. Ed esprimere e declinare sempre nuovi contenuti e comportamenti in modo appunto che Soli Deo gloria possa continuare e ribadire il proprio significato nelle varie e mutevoli condizioni storiche.
Cambiano infatti nel corso della storia gli idoli a cui opporsi, ma Soli Deo gloria indica di epoca in epoca la loro inconsistenza, anche quando la massa umana li sacralizza. Oggi questi idoli sono il profitto e la finanza, lo sfruttamento di una parte del mondo su un’altra, la tecnologia fine a se stessa, quella scienza che si autorizza e si compiace con arroganza dei propri risultati. Abilità e conoscenze, e il potere che ne deriva, illudono gli uomini di essere centrali e autosufficienti. È l’eterna e diabolica superbia che si incarna, a seconda dei tempi e dei luoghi, in diversi personaggi e diverse ideologie autocelebrative. Desiderio di superare il limite posto all’essere umano, che ha le proprie radici nella preistoria, come ci insegna il mito di Adamo ed Eva. Tentata prima Eva, forse perché il matriarcato ha illuso le donne di un proprio potere nel generare la vita, poi Adamo quando, sempre nella notte dei tempi, il «maschile» ha ribaltato la situazione di potere sottomettendo il «femminile».

Tutto l’Antico testamento racconta come Dio, nella sua assoluta libertà, ha scelto, tra popolazioni adoranti dee madri, animali, feticci e faraoni, il popolo ebraico perché era quello con cui Egli si poteva più facilmente relazionare. Il patto della circoncisione forse segna proprio questo rendere gloria all’unico vero potere generativo che appartiene a Dio e non all’uomo, siglato attraverso un segno visibile nella carne.

Dio assegna al popolo ebraico in quei tempi il compito di tramandare il proprio messaggio d’amore. Che si esprime nella consegna a questo sparuto e spaventato gruppo di esuli della prima incontrovertibile testimonianza, appunto, della paterna attenzione verso l’umanità, che si dibatte dentro le proprie debolezze e fragilità e confusioni: i dieci Comandamenti, che fanno una lapidaria chiarezza su ciò che è bene e ciò che è male, e che iniziano proprio con «Io sono il Signore Dio tuo, non avrai altro Dio all’infuori di me». Un Dio che, andando a ritroso nel racconto, aveva già insegnato attraverso l’episodio di Abramo, disposto a uccidere il proprio figlio, che i sacrifici umani, che al tempo erano una pratica comune, non erano necessari alla sua gloria, non erano graditi, non erano permessi.

Se la parola «gloria» ci sembra impegnativa, se può condurre a immaginare un Dio Padre lontano nell’«alto dei cieli», possiamo correggere la sensazione tornando, nella Trinità, alla figura e all’esempio illuminante di Gesù, che, intervenendo nella storia, ha allargato il messaggio divino a tutti. E ricordandoci che lo Spirito di Dio è con noi quotidianamente, agisce in noi direi maternamente come suggerisce la sua etimologia ebraica al femminile: ruah.
Non a caso Johann Sebastian Bach, cantore della Riforma, siglava le sue composizioni musicali all’insegna del Soli Deo Gloria. Intuiamo infatti che certi risultati umani, eccezionali come quelli delle bachiane Passione secondo Giovanni e Passione  secondo Matteo, ma anche assolutamente più quotidiani quali sono quelli che sperimentiamo noi credenti quando siamo chiamati a fare piccole e grandi scelte, non possono attuarsi se non con l’aiuto di Dio. Che agisce dentro di noi e che ci illumina la via.
Tutto quello che riusciamo a realizzare non è per noi. È per la sua gloria

 

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Sola fide

«Dio ha così amato il mondo che ha dato il suo unico figlio perché tutti coloro che credono in lui non muoiano, ma abbiano vita eterna. Dio non ha mandato suo figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma per salvarlo attraverso di lui» (Giovanni 3, 16-17)
Parlare di fede, forse, può essere ambiguo e poco comprensibile, poiché spesso questo termine si utilizza per indicare manifestazioni di fanatismo religioso oppure per esprimere varie forme di superstizione; inoltre la nostra è una società fortemente secolarizzata e, dunque, la «fede in Dio» interessa poco, semmai appartiene alla dimensione privata dell’individuo. Senza dubbio non si può ridurre il Dio dei Cristiani a una spiegazione razionale e i dogmi della chiesa, a partire dalla Trinità, appaiono talora complicati e oscuri per chi è alieno dal linguaggio filosofico e teologico. Al contrario, l’uomo Gesù continua ad affascinare perché offre qualche certezza storica, almeno in alcuni dati fondamentali e, soprattutto, per il messaggio trasmessoci, che rimane attuale.

Tuttavia l’etica dell’ebreo Gesù, per quanto rivoluzionaria ed anticonformista, non rappresenta in toto il suo messaggio di salvezza, perché avere fede non significa esclusivamente sforzarsi di seguire i suoi insegnamenti morali (per quanto ciò sia già un ottimo proposito, valido per tutti, atei e credenti); piuttosto – ancora prima di agire – significa, illuminati dalla Grazia divina, affidarsi per intero alla «buona notizia» ed essere sicuri che quell’oscuro figlio di un falegname, probabilmente falegname anche lui nei primi trent’anni della sua vita, è morto in croce per la liberazione degli esseri umani dal male, per iniziare il nuovo regno, per riconciliare noi – umanità corrotta e incapace di essere davvero giusta e onesta, incapace di amare il prossimo senza riserve o autocompiacimenti – con l’Eterno. La fede diventa allora il fondamento delle nostre azioni, perché da sole non basterebbero a renderci uomini e donne completi, nel senso biblico dell’espressione, giacché «Iddio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò» (Gn. 1, 27): e come potremmo essere a immagine del nostro Signore, se non specchiandoci nella sua immagine proprio attraverso la fede in Cristo, intesa alla latina come la «fiducia» che nel suo sguardo d’amore ritroveremo l’integrità originale?

Lutero, con uno straordinario paradosso, dichiarava che l’essere umano in Cristo è simul iustus et peccator, «contemporaneamente giusto e peccatore», quasi a dire che la luce del bene ci viene anticipata grazie all’abbandono fiducioso in Dio. E, attraverso una seconda provocazione, diceva pecca fortiter, sed crede fortius, «pecca profondamente, ma credi più profondamente»: dunque la fede/fiducia è più forte del male giacché, se è accolta, ci orienta e dà un senso altro, una prospettiva diversa alle nostre vite.
«Soltanto la fede» perciò non esprime né la superstizione religiosa né le credenze miracolistiche, che rifiutiamo considerandole inutili e pericolose, ma è un atto di affidamento che non chiede dimostrazioni, è la scoperta dell’amore di Dio per ciascuno di noi. E tutto questo si fonda sull’ascolto della Parola biblica, sulla sua lenta meditazione, in un cammino di ricerca ininterrotto e promosso dal dubbio: il ragionamento umano non è in grado di comprendere fino in fondo e, quindi, di racchiudere in un sistema l’Eterno e l’evento della Croce e della Resurrezione, dato che lo Spirito di Dio è sovranamente libero. Come scrive Giovanni, «lo sprito soffia dove vuole e si sente la sua voce, ma non si sa da dove venga e dove vada» (Gv, 3, 8).

«Soltanto la fede» ci invita a sciogliere i cuori induriti per affidarci a Cristo, in cui solo possiamo trovare una vera dimensione di libertà perché sapere abbandonarsi all’amore, superando le sovrastrutture della ragione, ci permette poi di essere e di vivere nel mondo da persone davvero libere, che indirizzano le loro azioni senza vincoli, fuori dalle logiche del tornaconto: «Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date» (Mt. 10, 8).
«Soltanto la fede» fa risuonare l’insegnamento dell’apostolo Paolo, che scriveva: «Non mi vergogno della buona notizia, […] poiché la giustizia di Dio è stata rivelata in essa da fede in fede» (Rom. 1, 16-17). La buona notizia, che noi siamo abituati a chiamare «Evangelo», ci è stata rivelata «di fede in fede» perché il giusto vivrà attraverso la fede e questa catena di fede/fiducia, trasmessa nei secoli, ci interpella ancora oggi – forse più di ieri, in quanto essa non è data per scontata, ma ci impone il confronto con una cultura e con un mondo in cui da un lato Dio (fortunatamente) non è più un obbligo e dall’altro assistiamo a devianti forme di fanatismo in nome di Dio.