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Come gli angeli giungono a noi

HELMUT FISCHER,
Claudiana Editrice, Torino, 2015,
pp. 107, Euro 14,90

 

Breve e semplice questo testo di Helmut Fischer, teologo tedesco, che, con un linguaggio colloquiale e scorrevole, affronta un tema teologico denso e ricco di spunti e riferimenti interculturali, senza appesantirlo con disquisizioni dogmatiche o filosofiche, ma limitandosi a tracciare una sintesi, comunque completa per quanto ci interessa, della storia dell’angelologia. Il testo perde, ovviamente, di profondità accademica, ma ci guadagna in chiarezza e semplicità. E’ quindi un libro divulgativo, alla portata di tutti, che parte dalla constatazione di come, nonostante la secolarizzazione, la laicizzazione e la modernizzazione della nostra società e delle religioni, l’interesse per gli angeli non solo non sia diminuito, ma anzi accresciuto, e come la fede negli angeli sia presente anche in coloro che non professano una fede religiosa. Il libro contiene innanzi tutto una storia dell’origine della figura angelica, che non è specifica del cristianesimo, ma ha i suoi precursori in altre culture, in particolare nell’ebraismo, nello zoroastrismo e nell’ellenismo, cui si aggiungono nel tempo le influenze di sistemi filosofici, come lo gnosticismo e il neoplatonismo. Gli angeli nascono dall’esigenza di avere un intermediario, man mano che si affermano la trascendenza di Dio e il monoteismo: essi assumono i ruoli prima svolti direttamente da Dio nel suo rapporto con gli uomini e nel cristianesimo primitivo ereditano le funzioni già ricoperte nell’Antico Testamento: sono interpreti, messaggeri, aiutanti. Con il tempo il sistema angelico si articola e arricchisce, fino a dare vita alla gerarchia dello Pseudo Dionigi, che li suddivide in tre triadi, ognuna delle quali viene analizzata da Fischer, con riferimento anche alla sua rappresentazione figurativa: dall’aspetto di uomini barbuti o di giovani imberbi all’acquisizione dell’aureola e delle ali, dai simboli della sfera, dello scettro, degli abiti, del diadema, agli attributi del giudizio apocalittico, come la tromba o la spada. L’autore affronta poi la storia degli angeli nel Medioevo latino, nella Scolastica, nella Riforma, nell’Illuminismo, nel mondo cattolico ed ortodosso, cercando di evidenziare la concezione che di volta in volta è prevalsa: accettazione o rifiuto, interpretazione salvifica o simbolica, rifiuto del culto o uso nella liturgia. Una particolare attenzione è dedicata alla figura dell’angelo custode, che ancora oggi conosce un grande sviluppo nelle scienze e nelle arti. Col tempo gli angeli si modificano, acquistando maggiore realismo e perdendo il proprio significato religioso, fino a diventare gli amorini, simboli terreni del piacere sensuale. Il testo, arricchito da molte illustrazioni, termina con alcune riflessioni sul significato dell’angelo oggi, nella nostra vita personale: può essere considerato il messaggio d’aiuto nel bisogno o il messaggero che ci dà la forza di accettare ciò che non possiamo cambiare: è comunque un segno della presenza di Dio nella nostra vita.

 

Antonella Varcasia

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Sola Scriptura

La Riforma, mettendo al centro la Scrittura (intesa come raccolta degli scritti dell’Antico e del Nuovo Testamento), ha voluto indicare la sorgente a cui quotidianamente i cristiani possono dissetare la loro sete di conoscenza di Dio. Ciò vale non solo per i protestanti ma per tutte le chiese cristiane – le quali oltretutto sono teologicamente cresciute negli ultimi decenni grazie anche al dialogo ecumenico. L’ecumenismo infatti ha trovato proprio nella Scrittura il terreno fertile d’incontro delle tre grandi famiglie confessionali. Attraverso lo sviluppo delle scienze bibliche, la contrapposizione tra Scrittura e Tradizione si è relativizzata. La Scrittura stessa è frutto di una tradizione orale che ha preceduto sia i testi scritti – i vari libri della Bibbia – sia l’ingresso, l’accoglimento a pieno titolo di questi stessi testi nella famiglia degli scritti canonici.
Anche il canone biblico rappresenta pur sempre una scelta umana, ancorché ispirata. Il canone non esaurisce la rivelazione di Dio. Da questa Scrittura (che di fatto è una biblioteca di libri diversi, sia come autori che come datazioni) si dipartono interpretazioni che, non di rado, appaiono opposte tra loro, proprio come i comportamenti morali che ne discendono. Sicché da un unico testo biblico si aprono vie che possono condurre a conseguenze ecclesiologiche differenziate, malgrado il riferimento alla stessa Scrittura. È stato così sia nel secolo della Riforma luterana, zwingliana, calvinista (si pensi, per fare un solo esempio storico, al dibattito conflittuale sulla Santa Cena), sia nei secoli successivi e oggi questa pluralità interpretativa perdura.Anche nella grande famiglia evangelica è presente una spiccata diversificazione d’interpretazioni e posizioni teologiche conseguenti. Se allarghiamo lo sguardo alle altre chiese cristiane, notiamo come le diversità interpretative si accentuino: vedi la questione del concetto stesso di chiesa o il primato petrino o la successione apostolica, o il rapporto con il popolo d’Israele o la concezione del sacerdozio e dei ministeri o il ruolo delle donne nella chiesa…
Ma come leggiamo i testi biblici? Non da oggi assistiamo alla rivitalizzazione di un approccio biblicistico alla Parola di Dio, che riduce il principio del Sola Scriptura a «Unica Scriptura». Vale a dire che si tende ad affermare l’imposizione di un’unica interpretazione dello stesso testo biblico, nella pretesa che l’interpretazione data sia la sola vera e assoluta. Quasi che ogni versetto o pericope biblica racchiuda uno e un solo significato. E questo crea un terreno favorevole al fondamentalismo nelle sue varie espressioni. Mentre sappiamo – anche perché le scienze bibliche lo hanno da tempo dimostrato – che i testi biblici (e non solo quelli) racchiudono significati e scenari diversi, insieme a una ricca gamma di indicazioni che vanno scoperte scavando nella lettera scritta. Il testo biblico, insomma, va ricollocato e compreso, per quanto scientificamente possibile, nel contesto storico in cui venne pensato e formulato. Occorre tener in debito conto che il linguaggio è frutto della temperie culturale di un’epoca. I testi biblici, alla stregua di altri testi antichi, prima di essere messi per iscritto in un momento storico preciso, sono stati tramandati oralmente. Questo passaggio dall’orale allo scritto, come da una lingua a un’altra (per esempio la Traduzione dei LXX) ha logicamente comportato mutazioni che vanno individuate con metodi scientifici.

Sola Scriptura per noi significa sostanzialmente tre cose.
In primo luogo che Dio è sovranamente libero, e quindi può rivelarsi anche al di là della Scrittura stessa; ma di certo Dio si è rivelato in questa Scrittura dell’Antico e del Nuovo Testamento.
In secondo luogo che la Scrittura da noi ricevuta deve confrontarsi non solo con il tempo in cui è stata pensata e ispirata, ma anche e soprattutto con il nostro tempo: è il presente di chi legge, infatti, il vero banco di prova della comprensione dello spirito del testo e non solo della lettera.
In terzo luogo che la Scrittura è per noi il principale nutrimento della nostra fede, del nostro pregare, della nostra spiritualità, del nostro essere chiesa.

Non siamo noi, chiese protestanti, i detentori esclusivi della Scrittura e di interpretazioni che vorremmo assolutizzare. La realtà è che noi, in qualche modo, siamo stati affascinati e «catturati» dal Sola Scriptura: un principio che ci guida e spinge a percorrere itinerari nuovi e inediti nella straordinaria scoperta di un continuo dialogo con Dio in Gesù Cristo. «Fermatevi sulle vie e guardate, domandate quali siano i sentieri antichi, dove sia la buona strada, e incamminatevi per essa; voi troverete riposo alle anime vostre!» (Geremia 6, 16).
L’emozione e la fiducia in Dio, che avvertiamo nel leggere la Scrittura, non ci impediscono dall’avvalerci di metodi di analisi critica dei testi. Qualunque metodo d’indagine – da quello esegetico-storico-critico a quello letterario, simbolico, psicoanalitico, narrativo – è al servizio di una sempre migliore comprensione del testo biblico e non viceversa. Ciò che realmente conta è che lo Spirito del Signore faccia rivivere per noi quella Parola antica che ci è stata trasmessa: una Parola che per Grazia di Dio, ogni giorno, dona a noi speranza, incoraggiamento, guarigione, redenzione, gioia riconoscente.
La Scrittura vive se lo Spirito del Signore la chiama alla vita e noi con lei. La chiesa nasce, cresce e si orienta nel suo procedere attraverso l’ascolto e la comprensione della Parola biblica.

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Solus Christus

 

Dire «Solo Cristo» non significa giudicare o disprezzare la fede, la spiritualità, le credenze altrui. Significa solo dire che, per noi, Cristo è la via attraverso la quale Dio si rivela, e, di conseguenza, quella che intendiamo seguire. Una via, un percorso, non un concetto: lungo una via si cammina, ci si guarda avanti e indietro, ci si ferma o ci si accampa, si incontrano altri viandanti. Come ci ricorda il libro degli Atti, i primi cristiani erano chiamati «quelli della Via».Cercare Dio solo in Gesù Cristo significa cercarlo nel confronto con un essere umano concreto, nato, vissuto e operante in un luogo e un’epoca storica precisa, morto di una morte atroce e vergognosa. In un mondo pieno più che mai di aspiranti maestri, sacerdoti e signori, per noi Gesù Cristo è l’unico Maestro, Sacerdote e Signore.

L’unico maestro: colui che per noi ha «parole di vita eterna» (Gv 6, 68), parole e azioni che ci mettono in questione, ci sconvolgono, ci fanno guardare con altri occhi le cose, le persone, i fatti della nostra vita.

L’unico sacerdote: il solo intermediario tra noi e Dio, che ha proclamato e attuato la fine del regime dei sacrifici e della distinzione tra sacro e profano. In Cristo non abbiamo più bisogno di luoghi santi, di professionisti del divino, di offerte sull’altare per placare l’ira di Dio o ingraziarcene i favori.
L’unico Signore: il condannato a morte, sconfitto e abbandonato da tutti, la cui autorità non si basa sul denaro, sulle armi, sulla parola seduttrice, il cui modo di agire mette in discussione tutti gli altri poteri. Il Crocifisso che, tre giorni dopo, è risorto. Con la sua risurrezione (caparra e speranza per ognuno di noi), Dio stesso ha annunciato che la morte e i poteri di questo mondo non hanno l’ultima parola.
Riconoscere il Solo Cristo significa relativizzare tutte le filosofie, le ideologie, le religioni, le potenze che aspirano alla nostra adesione e alla nostra obbedienza. Anche dopo la pretesa «fine delle ideologie» restiamo tentati di cercare la nostra sicurezza nell’abbandono acritico a qualche assoluto. Non ci sono solo i fondamentalismi religiosi: pensiamo ai nazionalismi, al razzismo, alla fiducia nella competizione, nella finanza o nel progresso scientifico.
Solo Cristo non è un integralismo contrapposto ad altri integralismi; è un criterio di libertà, soprattutto verso le idee, le cause, i modi di pensare che ci sono più vicini e congeniali. Il loro ruolo e valore è quello di strumenti per capire e cambiare la realtà, non di fini, di ideali da realizzare a ogni costo. Perché «tutto è nostro, ma noi siamo di Cristo» (cfr. 1 Cor. 3, 22-23).

Avere Cristo come maestro non significa osservare il mondo dall’alto, con la sicumera di chi possiede la verità. Al contrario, significa imparare quello che Bonhoeffer chiama «lo sguardo dal basso»: guardare gli eventi dalla prospettiva «degli esclusi, dei sospetti, dei maltrattati, degli impotenti, degli oppressi e dei derisi». In Gesù Cristo ci viene rivelato non un Dio aggressivo e distruttore che rivaleggia con gli altri poteri per la conquista del mondo, ma un Dio sofferente e solidale con tutti e tutte noi, con tutti i dimenticati e gli sconosciuti, con tutta la creazione mai come oggi minacciata.
Il Solus Christus è un aiuto a orientarsi nell’incertezza di una società «liquida», priva di punti di riferimento, dove regnano il rischio, la precarietà, l’insicurezza, la disperazione. Nel Cristo crocifisso e risorto impariamo a vivere la nostra debolezza, senza lasciarci sballottare da «ogni vento di dottrina» (cfr. Ef 4, 14), né trincerarci in identità forti e assolute. Gesù ci libera dalla frenesia dell’attivismo (anche quello ecclesiastico) e dall’ossessione di salvare il mondo: al suo seguito c’è da lavorare, ma anche da pregare, da contemplare, da «stare in silenzio davanti al Signore e aspettarlo» (cfr. Sal 37, 7).
Gesù di Nazareth non è rimasto nella tomba, ma neanche cammina visibilmente su questa terra.
Crediamo che egli è presente tra noi, dovunque due o tre sono riuniti nel suo nome. Gesù ci ha lasciato la sua Parola da meditare, e il suo Spirito che ci aiuta a farla nostra. Ci ha lasciato il prossimo in cui cercare il suo volto, e sorelle e fratelli con cui ogni giorno costituire la chiesa che testimonia di lui.

 

 

 

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Soli Deo Gloria

Narrano i cieli la gloria di Dio, gli spazi annunziano l’opera delle sue mani
(Salmo 19)

«È privo di fondamento (…) questo legare l’uomo a se stesso, anziché fargli prendere coscienza del fatto che un corretto orientamento dell’esistenza scaturisce da una volontà di ricercare, accrescere, esprimere la gloria del Signore». Questa la risposta, cioè «Soli Deo gloria», solo a Dio la gloria, che Giovanni Calvino manda da Ginevra nel settembre del 1539 al cardinale di Carpentras Jacopo Sadoleto. Quest’ultimo, nella sua lettera del marzo dello stesso anno, aveva invitato pubblicamente i ginevrini, con i quali Calvino viveva in quel momento tutta la novità della Riforma, a ritornare sulla «retta via» della Chiesa cattolica. A rendere quindi «gloria», piuttosto, alla sua Chiesa, alla disciplina, alla dottrina, ai dogmi.
Senza i dogmi e i sacramenti della tradizione cattolica, aveva scritto il cardinale, sarebbe preclusa la vita eterna ai credenti ribelli. Una minaccia terribilissima che, come Calvino sottolinea, tende a tenere imprigionate le anime a cui non sia permessa una propria originale «lettura» della Parola delle Scritture, e quindi un dialogo libero, personale, confidente e responsabile, con il Dio che la Riforma vuole recuperare in tutta la sua gloria «esclusiva».

Soli Deo gloria diventa uno dei cinque «Sola» della Riforma, fondamentale e fondante degli altri quattro. Perché per rendere gloria a Dio, che vuol dire amarlo per la sua bontà e la sua creazione di cui facciamo parte, bisogna ascoltare la propria vocazione, cioè la Fede, nutrirla con la Scrittura, gioire della Grazia, riferirsi costantemente all’esempio di Cristo. Ed esprimere e declinare sempre nuovi contenuti e comportamenti in modo appunto che Soli Deo gloria possa continuare e ribadire il proprio significato nelle varie e mutevoli condizioni storiche.
Cambiano infatti nel corso della storia gli idoli a cui opporsi, ma Soli Deo gloria indica di epoca in epoca la loro inconsistenza, anche quando la massa umana li sacralizza. Oggi questi idoli sono il profitto e la finanza, lo sfruttamento di una parte del mondo su un’altra, la tecnologia fine a se stessa, quella scienza che si autorizza e si compiace con arroganza dei propri risultati. Abilità e conoscenze, e il potere che ne deriva, illudono gli uomini di essere centrali e autosufficienti. È l’eterna e diabolica superbia che si incarna, a seconda dei tempi e dei luoghi, in diversi personaggi e diverse ideologie autocelebrative. Desiderio di superare il limite posto all’essere umano, che ha le proprie radici nella preistoria, come ci insegna il mito di Adamo ed Eva. Tentata prima Eva, forse perché il matriarcato ha illuso le donne di un proprio potere nel generare la vita, poi Adamo quando, sempre nella notte dei tempi, il «maschile» ha ribaltato la situazione di potere sottomettendo il «femminile».

Tutto l’Antico testamento racconta come Dio, nella sua assoluta libertà, ha scelto, tra popolazioni adoranti dee madri, animali, feticci e faraoni, il popolo ebraico perché era quello con cui Egli si poteva più facilmente relazionare. Il patto della circoncisione forse segna proprio questo rendere gloria all’unico vero potere generativo che appartiene a Dio e non all’uomo, siglato attraverso un segno visibile nella carne.

Dio assegna al popolo ebraico in quei tempi il compito di tramandare il proprio messaggio d’amore. Che si esprime nella consegna a questo sparuto e spaventato gruppo di esuli della prima incontrovertibile testimonianza, appunto, della paterna attenzione verso l’umanità, che si dibatte dentro le proprie debolezze e fragilità e confusioni: i dieci Comandamenti, che fanno una lapidaria chiarezza su ciò che è bene e ciò che è male, e che iniziano proprio con «Io sono il Signore Dio tuo, non avrai altro Dio all’infuori di me». Un Dio che, andando a ritroso nel racconto, aveva già insegnato attraverso l’episodio di Abramo, disposto a uccidere il proprio figlio, che i sacrifici umani, che al tempo erano una pratica comune, non erano necessari alla sua gloria, non erano graditi, non erano permessi.

Se la parola «gloria» ci sembra impegnativa, se può condurre a immaginare un Dio Padre lontano nell’«alto dei cieli», possiamo correggere la sensazione tornando, nella Trinità, alla figura e all’esempio illuminante di Gesù, che, intervenendo nella storia, ha allargato il messaggio divino a tutti. E ricordandoci che lo Spirito di Dio è con noi quotidianamente, agisce in noi direi maternamente come suggerisce la sua etimologia ebraica al femminile: ruah.
Non a caso Johann Sebastian Bach, cantore della Riforma, siglava le sue composizioni musicali all’insegna del Soli Deo Gloria. Intuiamo infatti che certi risultati umani, eccezionali come quelli delle bachiane Passione secondo Giovanni e Passione  secondo Matteo, ma anche assolutamente più quotidiani quali sono quelli che sperimentiamo noi credenti quando siamo chiamati a fare piccole e grandi scelte, non possono attuarsi se non con l’aiuto di Dio. Che agisce dentro di noi e che ci illumina la via.
Tutto quello che riusciamo a realizzare non è per noi. È per la sua gloria

 

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Sola fide

«Dio ha così amato il mondo che ha dato il suo unico figlio perché tutti coloro che credono in lui non muoiano, ma abbiano vita eterna. Dio non ha mandato suo figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma per salvarlo attraverso di lui» (Giovanni 3, 16-17)
Parlare di fede, forse, può essere ambiguo e poco comprensibile, poiché spesso questo termine si utilizza per indicare manifestazioni di fanatismo religioso oppure per esprimere varie forme di superstizione; inoltre la nostra è una società fortemente secolarizzata e, dunque, la «fede in Dio» interessa poco, semmai appartiene alla dimensione privata dell’individuo. Senza dubbio non si può ridurre il Dio dei Cristiani a una spiegazione razionale e i dogmi della chiesa, a partire dalla Trinità, appaiono talora complicati e oscuri per chi è alieno dal linguaggio filosofico e teologico. Al contrario, l’uomo Gesù continua ad affascinare perché offre qualche certezza storica, almeno in alcuni dati fondamentali e, soprattutto, per il messaggio trasmessoci, che rimane attuale.

Tuttavia l’etica dell’ebreo Gesù, per quanto rivoluzionaria ed anticonformista, non rappresenta in toto il suo messaggio di salvezza, perché avere fede non significa esclusivamente sforzarsi di seguire i suoi insegnamenti morali (per quanto ciò sia già un ottimo proposito, valido per tutti, atei e credenti); piuttosto – ancora prima di agire – significa, illuminati dalla Grazia divina, affidarsi per intero alla «buona notizia» ed essere sicuri che quell’oscuro figlio di un falegname, probabilmente falegname anche lui nei primi trent’anni della sua vita, è morto in croce per la liberazione degli esseri umani dal male, per iniziare il nuovo regno, per riconciliare noi – umanità corrotta e incapace di essere davvero giusta e onesta, incapace di amare il prossimo senza riserve o autocompiacimenti – con l’Eterno. La fede diventa allora il fondamento delle nostre azioni, perché da sole non basterebbero a renderci uomini e donne completi, nel senso biblico dell’espressione, giacché «Iddio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò» (Gn. 1, 27): e come potremmo essere a immagine del nostro Signore, se non specchiandoci nella sua immagine proprio attraverso la fede in Cristo, intesa alla latina come la «fiducia» che nel suo sguardo d’amore ritroveremo l’integrità originale?

Lutero, con uno straordinario paradosso, dichiarava che l’essere umano in Cristo è simul iustus et peccator, «contemporaneamente giusto e peccatore», quasi a dire che la luce del bene ci viene anticipata grazie all’abbandono fiducioso in Dio. E, attraverso una seconda provocazione, diceva pecca fortiter, sed crede fortius, «pecca profondamente, ma credi più profondamente»: dunque la fede/fiducia è più forte del male giacché, se è accolta, ci orienta e dà un senso altro, una prospettiva diversa alle nostre vite.
«Soltanto la fede» perciò non esprime né la superstizione religiosa né le credenze miracolistiche, che rifiutiamo considerandole inutili e pericolose, ma è un atto di affidamento che non chiede dimostrazioni, è la scoperta dell’amore di Dio per ciascuno di noi. E tutto questo si fonda sull’ascolto della Parola biblica, sulla sua lenta meditazione, in un cammino di ricerca ininterrotto e promosso dal dubbio: il ragionamento umano non è in grado di comprendere fino in fondo e, quindi, di racchiudere in un sistema l’Eterno e l’evento della Croce e della Resurrezione, dato che lo Spirito di Dio è sovranamente libero. Come scrive Giovanni, «lo sprito soffia dove vuole e si sente la sua voce, ma non si sa da dove venga e dove vada» (Gv, 3, 8).

«Soltanto la fede» ci invita a sciogliere i cuori induriti per affidarci a Cristo, in cui solo possiamo trovare una vera dimensione di libertà perché sapere abbandonarsi all’amore, superando le sovrastrutture della ragione, ci permette poi di essere e di vivere nel mondo da persone davvero libere, che indirizzano le loro azioni senza vincoli, fuori dalle logiche del tornaconto: «Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date» (Mt. 10, 8).
«Soltanto la fede» fa risuonare l’insegnamento dell’apostolo Paolo, che scriveva: «Non mi vergogno della buona notizia, […] poiché la giustizia di Dio è stata rivelata in essa da fede in fede» (Rom. 1, 16-17). La buona notizia, che noi siamo abituati a chiamare «Evangelo», ci è stata rivelata «di fede in fede» perché il giusto vivrà attraverso la fede e questa catena di fede/fiducia, trasmessa nei secoli, ci interpella ancora oggi – forse più di ieri, in quanto essa non è data per scontata, ma ci impone il confronto con una cultura e con un mondo in cui da un lato Dio (fortunatamente) non è più un obbligo e dall’altro assistiamo a devianti forme di fanatismo in nome di Dio.

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Sola Gratia

Declinare oggi il Sola Gratia incontra una duplice criticità.La prima è che nelle controversie teologiche, in atto almeno fino al secolo scorso, il tema della grazia è stato spesso frainteso, abusato e persino mistificato in funzione della sua interpretazione e della sua appropriazione come categoria distintiva di appartenenza.La seconda è che l’avverbio «solo» ha un carattere di esclusività e di assolutezza che rende difficile abbinarlo a qualsiasi processo o evento in un contesto, come l’attuale, dove quasi ogni concetto è plurale, se non per definizione, almeno nell’ottica ecumenica che impone di condividere tradizioni diverse e approcci interpretativi talvolta divergenti.Tuttavia l’interpretazione rivoluzionaria del concetto di grazia proposta da Lutero impone un tentativo di sua attualizzazione anche in un’epoca nella quale, almeno nella percezione comune, il tema della salvezza sembra aver perso gran parte della sua rilevanza oggettiva.

Nel Primo Testamento il termine ebraico hén (grazia) individua la benevolenza che Dio mostra verso l’essere umano e le scritture ebraiche raccontano che molti personaggi centrali della narrazione trovano grazia davanti al Signore: da Noè in Gen. 6, 8 a Mosè in Es. 33, 12.17, a Davide in II Sam. 15, 25. Ma l’atto di grazia più importante compiuto da Dio è l’aver stabilito un patto con Israele, mantenendolo nonostante le sue innumerevoli trasgressioni. In tutto il Primo Testamento affiora l’idea che il Signore sia un Dio che vuole salvare il Suo popolo e non distruggerlo: la grazia rappresenta appunto la Sua volontà di salvezza e il peccatore pentito può invocare con fiducia la Sua misericordia (Sl. 51, 1).
Anche nel Nuovo Testamento il termine ha mantenuto i significati di favore e benevolenza di Dio verso l’essere umano e la grazia espressa con il patto del Sinai viene confermata dall’alleanza tra Dio e l’uomo che si compie con la vicenda terrena di Cristo, cioè del Dio fattosi uomo, un’alleanza che non sostituisce l’antico patto con il popolo di Israele, bensì lo rinnova e lo affianca. La grazia si manifesta nell’intervento gratuito di Dio nella vita dell’essere umano e genera la sua risposta nella fede (At. 18, 27). La fede, a sua volta, introduce l’essere umano nella grazia, cioè in un rapporto di benevolenza e comunione con Dio (Rom. 5, 2), un rapporto in cui il peccato è perdonato. La grazia coincide con un perdono totale che rigenera: per questo è possibile affermare che il contrario del peccato non sia la virtù, bensì la grazia.
La grazia e la fede non sono realtà coincidenti, ma piuttosto complementari, poiché la grazia risiede esclusivamente nell’ambito di Dio, esplicitando un agire di Dio stesso che rivolge all’essere umano la Sua parola di salvezza, mentre la fede è sopratutto una questione antropologica, cioè una risposta dell’essere umano o, almeno, un interrogarsi consapevole su questo dono di Dio.

Il Sola Gratia della Riforma vuole sottolineare che il peccatore non può giustificarsi da solo, né coadiuvare in alcun modo Dio nell’opera della giustificazione, negando decisamente qualsiasi possibilità di compartecipazione dell’essere umano al processo della salvezza, che resta iniziativa e compimento esclusivi di Dio, in Gesù Cristo: prima di ogni risposta umana c’è il ricevimento della grazia, che viene accolta nella fede; prima delle opere umane c’è l’amore di Dio, che le precede; nell’evento della salvezza la risposta umana è conseguenza dell’iniziativa di Dio e si traduce in un’etica evangelicamente ispirata. La specificità del messaggio evangelico sottolineato dalla Riforma è proprio questo: l’intervento della grazia divina è decisivo, l’essere umano, con le sue capacità, la sua razionalità e le sue conoscenze, da solo, non può nulla.
Ma in una società nella quale vengono quotidianamente enfatizzate la prestazione e l’affermazione personali, dove l’essere umano vale più per ciò che appare che per ciò che è, il problema della salvezza interessa ancora, oppure il suo annuncio ha perso gran parte del suo significato? Benché oggi permanga ancora l’angoscia della morte, essa viene affiancata, addirittura superata, dalle angosce della vita, dalle nostre insicurezze, fragilità, paure e miserie quotidiane.

L’annuncio della salvezza non può non riguardare anche questi aspetti, una salvezza prima di tutto da noi stessi in quanto produttori delle nostre ossessioni, dei nostri vizi e dei nostri idoli, una salvezza che dia un senso a ciò che siamo e a ciò che facciamo, una salvezza gratuita che non si riduce al perdono delle colpe, ma che dia speranza alla nostra vita.
La grazia che ci salva rappresenta un messaggio controcorrente rispetto agli standard performativi che ogni giorno ci sono proposti mediaticamente, conferendo dignità a tutti, compresi coloro che si trovano ai margini di una società selettiva, gli ultimi, con i quali più di duemila anni fa si identificava Gesù Cristo.
«In verità vi dico che in quanto lo avete fatto a uno di questi miei minimi fratelli, l’avete fatto a me». (Matteo 25, 40).

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L’Ultima Cena, anzi la Prima. La volontà tradita di Gesù

RICCA Paolo,
Claudiana, Torino, 2013,
pp. 289, Euro 18,50

 

Gli scopi di questo bellissimo volume di Paolo Ricca sono: capire che cos’è la Cena del Signore, perché essa divide anziché unire, come ritrovare la condivisione. Con grande chiarezza espositiva Ricca ripercorre le tappe storiche delle diverse interpretazioni della Cena, partendo dalle fonti bibliche, che già evidenziano la diversità di posizioni nei racconti di Marco e Paolo, e dalla Didachè, che introduce il termine Eucaristia, per passare ai Padri della Chiesa, come Ignazio di Antiochia, che sottolinea il ruolo decisivo del vescovo, Giustino Martire, che introduce l’idea della transustanziazione, e Agostino, che assegna un ruolo centrale alla Parola e alla dimensione ecclesiale e distingue tra segno materiale e realtà significata. Sin dall’antichità, quindi, esistevano divergenze: una lettura realista affermava la presenza reale di corpo e sangue di Cristo nel pane e nel vino; una lettura simbolica vi vedeva solo memoria e annuncio. La controversia prosegue in epoca medievale e, più passa il tempo, più le differenze interpretative si fanno sottili. Dopo la proclamazione del dogma della transustanziazione nel 1215 e la presa di coscienza dei Valdesi, che lentamente si staccano dalla tradizione romana per aderire all’interpretazione riformata, Ricca dedica ampio spazio al dibattito interno alla Riforma, caratterizzato da una grande varietà di posizioni. Il dissidio vedeva contrapposti soprattutto Lutero e Zwingli: il primo, avverso alla transustanziazione, ma sostenitore comunque della presenza reale di Cristo nella Cena; il secondo fautore dell’interpretazione della Cena come simbolo e memoriale, ringraziamento e giuramento. Il dissidio viene superato solo con la Concordia di Leuenberg del 1973, che però, a parere di Ricca, ha il difetto di accantonare completamente la posizione zwingliana e di non tenere affatto conto della nuova presenza di Cristo come Spirito, dopo l’Ascensione. A Calvino il merito di aver cercato di mediare tra le posizioni estreme, proponendo una visione che contesta sia l’idea cattolica di transustanziazione e di sacrificio, sia quella luterana, che vuole comunque localizzare la presenza di Cristo negli elementi della Cena, sia quella zwingliana, che riduce la Cena a pura azione simbolica. Secondo Ricca, il merito di Calvino è aver insistito sul concetto di “mistero” della Cena, che trascende la nostra comprensione. Alcuni capitoli sono dedicati alle Confessioni di fede evangeliche, al Concilio di Trento e alle sue condanne, al Concilio Vaticano II e alle novità da esso introdotte: nonostante la riconferma delle idee di transustanziazione e di sacrificio, non ci sono condanne, si insiste sulla centralità della Parola e sull’uso della lingua parlata, si consente la comunione sotto le due specie. Densa di contenuti teologici è la conclusione: la Cena, che nella volontà di Gesù doveva essere elemento di unione fra i Cristiani, è stata invece  motivo di  divisioni e reciproche esclusioni, soprattutto perché le Chiese se ne sono impadronite, arrogandosi il diritto di decidere gli invitati, di escludere altre Chiese, di spiegare le parole che Gesù non ha voluto spiegare. L’invito finale è di mettere in secondo piano le interpretazioni, che non sono elementi costitutivi della Cena, e trovare il punto d’incontro nel pane, nel vino e nelle parole di Gesù, come fa oggi l’ospitalità eucaristica, che consente agli appartenenti a chiese diverse di sentirsi uniti dalla fede comune, e quindi ospiti non di una Chiesa, ma di Gesù stesso, che invita tutti alla sua mensa.

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Karl Barth…per chi non ha tempo

FRANKE John R.,
Claudiana, Torino, 2011,
pp. 186, Euro 15,00

 

Credo che non ci sia fedele evangelico che non conosca Karl Barth, fosse solo per la sua strenua opposizione al Nazismo attraverso la Chiesa Confessante. Credo, però, che siano pochi, ad eccezione dei pastori e degli studiosi di teologia, quelli che conoscono a fondo il suo pensiero, anche per la difficoltà di riassumerlo e classificarlo sotto una determinata etichetta, vuoi per l’incredibile mole delle sue opere, vuoi per l’eccezionale profondità del suo pensiero, vuoi per l’evoluzione stessa che esso ha subito nel corso del tempo. Prova, felicemente, a rendercelo più familiare questo bel libretto di John Franke, che, non a caso, si intitola “Karl Barth… per chi non ha tempo” e che è suggestivamente accompagnato da “figure”, cioè da ritratti caricaturali di Barth, in gioventù e in vecchiaia, di altri teologi nominati nel testo, di Dio Padre e di Gesù Cristo, che rendono più simpatica la lettura. Il testo può essere diviso in tre parti: nella prima la biografia di Barth è descritta sotto il profilo dell’influenza che l’ambiente e le esperienze di studio e di lavoro  hanno avuto sulla sua formazione e quindi sulla maturazione del suo pensiero: dall’adesione alla teologia liberale, frutto dell’Illuminismo, al suo abbandono maturato nel contesto della prima guerra mondiale e dell’impegno nelle questioni sociali e politiche durante gli anni del pastorato “rosso” di Safenwil, dall’interesse per la Sacra Scrittura all’elaborazione di una nuova teologia, che parta da Dio e non dall’uomo. La seconda parte approfondisce le due opere più importanti di Barth, il Commentario alla Lettera ai Romani e la Dogmatica ecclesiale, nonché le sue lezioni come professore di teologia a Gottinga, a Münster e a Bonn, per far emergere i caratteri della nuova teologia, cosiddetta “dialettica”, che parte dalla constatazione della “totale alterità” di Dio per affermare l’impossibile possibilità della teologia, ossia l’inadeguatezza del linguaggio umano a parlare di Dio, cui si accompagna l’inevitabile esigenza di parlarne, per cui ogni affermazione teologica è necessariamente seguita dalla sua negazione. La terza parte affronta l’eredità lasciata da Barth, cioè l’interpretazione, a volte contraddittoria, che del suo pensiero hanno dato gli studiosi successivi: in particolare, vengono descritte la lettura neo-ortodossa e quella postmoderna, nessuna delle quali, però, a parere di Franke, riesce a cogliere il vero carattere dialettico della sua teologia. In conclusione, il libro di Franke è un’ottima guida per cominciare a muoversi nel pensiero di uno dei maggiori teologi, non solo evangelici, del Novecento.

Antonella Varcasia

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La teologia del Novecento

FULVIO FERRARIO,
Carocci editore, Roma, 2011,
pp. 303, Euro 24,00

In che modo la teologia ha affrontato la sfida della modernità lanciata dal secolo scorso? Ce lo spiega, in questo bellissimo libro, Fulvio Ferrario, docente della Facoltà Valdese di Teologia in Roma, che, attraverso l’analisi del pensiero dei maggiori teologi ed esegeti del Novecento, non solo protestanti, come Barth, Bonhoeffer, Bultmann, Moltmann, eccetera, ma anche cattolici ed ortodossi, rievoca le principali tematiche su cui si è incentrato il dibattito teologico del secolo passato, le ideologie e i conflitti, mettendo in luce, con grandissima lucidità ed obiettività e con estremo rigore scientifico e competenza, le varie posizioni confessionali. La secolarizzazione, il pluralismo religioso, il femminismo, le varie teologie della liberazione (latino-americane, nere, asiatiche, africane), le speranze aperte e frustrate dai Concili, il movimento ecumenico, la crisi di Dio e della Chiesa e il sorgere delle nuove forme carismatiche e “postcristiane” di Cristianesimo: in poco meno di 300 pagine sono riassunte le sfide con cui il pensiero teologico si è dovuto confrontare in un secolo di storia recente. E’ certamente un testo impegnativo, ma lo stile e il linguaggio, colti, ma alla portata di un lettore di cultura media, ne fanno un libro avvincente e di agevole lettura, indispensabile per il credente che voglia vivere la propria fede nella consapevolezza della dimensione laica e problematica del proprio mondo e del proprio tempo.

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La fragilità del male”

BONHOEFFER Dietrich,
Piemme, Milano, 2015,
pp. 176, Euro 17,50

L’incontro con il pensiero di Bonhoeffer è sempre edificante, anche quando è sotto forma di frammenti, appunti, meditazioni, come è il caso di questa raccolta di scritti inediti, che documentano l’interesse del teologo tedesco per il tema del male lungo un intero ventennio, dal 1925 al 1945. I frammenti non sono però distribuiti cronologicamente, in modo tale da poter cogliere l’evoluzione del pensiero di Bonhoeffer, bensì per tematiche: l’esperienza del male, che prende in esame, in particolare, la paura, il dolore, la morte, la guerra, la solitudine, il peccato; il rapporto tra Dio e il male, e quindi la collera divina, il diavolo, la violenza e la sofferenza testimoniate nella Scrittura, compresa la passione di Gesù; la vittoria sul male, cioè l’amore, il perdono, la pace, il conforto della Chiesa, la speranza, la preghiera. Al centro di tutto è la croce: chi la ama ama anche la sofferenza e considera il dolore come una forma di benedizione, attraverso la quale Dio ci chiama a sé. Dio per primo è un Dio che soffre e quindi rende santa la sofferenza; perfino la morte diventa bella, in quanto rappresenta il passaggio alla nostra vera patria, regno di gioia e pace. Dopo aver preso atto dell’esistenza del male nel mondo, Bonhoeffer vede in Cristo crocifisso l’unica soluzione: si può superare la sofferenza solo sopportandola, perché, per chi crede, essa ricade su Cristo. Il cristiano deve portare la croce: più cerca di scrollarsela di dosso, più essa diventa pesante, perché “è il giogo di se stesso, che si è scelto da solo”, mentre Gesù invita a deporre il proprio giogo e a portare il suo, che è leggero e che dà pace e gioia, perché ci rende certi della sua vicinanza. Sono parole molto dure, ma, in fondo, Bonhoeffer invita a seguire Gesù, intraprendendo la via dell’amore: perciò egli insiste sulla necessità dell’amore e del perdono, sul compimento della volontà del Signore, che può essere espressa in modo semplice, nella vita quotidiana, amando i nostri cari, aiutando i bisognosi, praticando la misericordia, amando i nostri nemici, perché il nemico vive nell’odio e quindi ha più bisogno del nostro amore. Chiude il libro un capitolo sulla responsabilità, in cui Bonhoeffer invita a comprendere la bontà di Dio come responsabilità nei confronti dei fratelli: nel momento in cui ringraziamo Dio per ciò che ci ha elargito, pur essendone indegni, dobbiamo ricordarci di tutti i fratelli che non sono stati privilegiati allo stesso modo. Il male allora ci appare fragile: esso può essere vinto quando, con un atto responsabile, ci si oppone ad esso, facendo maturare dentro di noi i valori dell’amore, della pace, della calma, della gioia, della gentilezza, della mitezza, della fede.

 

Antonella Varcasia