Gesù non è mai perduto

Il Natale è un giorno di magia e mistero. È il giorno che celebra l’ingresso di Cristo nel mondo. Dio si è fatto uomo e ha camminato in mezzo a noi. Giovanni dice: “E la Parola è diventata carne e ha abitato per un tempo fra di noi, piena di grazia e di verità; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre.”
(Giovanni 1:14).

Gesù venne sotto il meraviglioso travestimento di un bambino umano molto ordinario.  Era nato in una mangiatoia, doveva prendersene cura.  Doveva essere avvolto in panni per tenerlo al caldo. Non c’era alone o bagliore extraterrestre su di lui. Sua madre probabilmente è stata sopraffatta a volte cercando di soddisfare i suoi bisogni e facendolo ancora agitare. Man mano che cresceva, probabilmente la spaventava e la frustrava in alcune delle cose che faceva. Giocava, si faceva male e si sporcava. C’era anche rivalità tra fratelli: la Bibbia ci dice che per molto tempo i suoi fratelli non credettero in lui, e per un certo periodo affermarono che era pazzo (Giovanni 7:5, Marco 3:21). Era un bambino molto normale in quasi tutti i modi.

Quando vennero a presentare Gesù, c’erano due persone straordinarie nel tempio. Uno era un uomo di nome Simeone, e l’altra era una donna di nome Anna. Entrambi erano persone rette che trascorrevano molto tempo in preghiera all’interno dell’area del tempio.

Era stato rivelato a Simeone che non sarebbe morto prima di aver visto il Messia del Signore. Quando vide il bambino Gesù tra le braccia di sua madre, prese il bambino e alzò la voce verso il cielo dicendo: «Ora, o mio Signore, tu lasci andare in pace il tuo servo, secondo la tua parola; perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, che hai preparata dinanzi a tutti i popoli per essere luce da illuminare le genti e gloria del tuo popolo Israele». Poi la Scrittura dice: “Il padre e la madre di Gesù restavano meravigliati delle cose che si dicevano di lui.” (Luca 2:29-33).

C’era anche una profetessa di nome Anna. La Scrittura dice: “Non lasciò mai il tempio, ma adorò notte e giorno, digiunando e pregando. Avvicinandosi a loro proprio in quel momento, rese grazie a Dio e parlò del bambino a tutti coloro che non vedevano l’ora della redenzione di Gerusalemme”.

Poi la Parola dice: “39 Come ebbero adempiuto tutte le prescrizioni della legge del Signore, tornarono in Galilea, a Nazareth, loro città. 40 E il bambino cresceva e si fortificava; era pieno di sapienza e la grazia di Dio era su di lui.” (Luca 2:37-40). Era un bambino molto normale, eppure Dio stava confermando che aveva uno scopo molto speciale, come aveva detto loro in precedenza nei sogni che avevano avuto prima della nascita di Gesù.

Ora, diamo un’occhiata più da vicino a ciò che sta accadendo in questo primo passo del vangelo di Luca.

Quando Luca apre il suo vangelo, ha fatto alcune affermazioni sorprendenti su Gesù che ci aiutano a capire esattamente chi e cosa fosse Gesù. Dalla sua infanzia fino all’infanzia e fino all’età adulta, Luca ci mostra che questo è il Cristo, il Messia, il nostro Salvatore. E qui, ci viene dato questo ritratto di un ragazzo di dodici anni che confonde i suoi genitori, i leader religiosi e molti altri, fino ad oggi. Il punto di questo passaggio non è tanto di insegnarci come essere genitori migliori o come seguire la volontà di Dio, ma Luca lo ha incluso qui per ricordarci che questo è il Cristo: per darci una prospettiva, una chiave di comprensione e un motivo di fede.

Maria e Giuseppe erano stati a Gerusalemme per celebrare la festa della Pasqua, il loro figlio dodicenne era con loro. Quando la festa finì, si avviarono per tornare a casa. Avevano viaggiato per un giorno intero e si erano accampati quella sera prima di rendersi conto di aver smarrito Gesù. Viaggiavano in un grande gruppo, le donne e i bambini generalmente iniziavano il viaggio prima degli uomini, vedendo come viaggiavano un po’ più lentamente. Di sera, quando si accampavano, gli uomini avevano raggiunto le donne e i bambini. Sicuramente, Maria pensava che Gesù fosse con Giuseppe, e Giuseppe pensava che Gesù fosse con Maria. Così non fu fino a quella sera che scoprirono che Gesù era stato smarrito, e persino perso a questo punto.

Siamo stati tutti in tali circostanze; forse abbiamo anche avuto quell’esperienza di perdere un figlio, o da bambini di perdere i nostri genitori. Fino a quando il perduto non viene ritrovato, è una sensazione terribile, non importa quale. E penso che tutti possiamo relazionarci al panico di Maria e Giuseppe quando cercarono tra i loro famigliari e i loro amici solo per scoprire che Gesù non era con loro. Tornarono a Gerusalemme per cercarlo e dopo tre giorni lo trovarono nei tribunali del tempio (la casa di suo Padre), seduto tra i maestri della legge, ascoltando e facendo loro domande.

La venuta di Cristo e la sua missione sono state rivelate nell’Antico e nel Nuovo Testamento.  Questo porta speranza, pace, gioia e amore di Dio in tempi di oscurità e smarrimento. Questa è l’essenza del Natale, l’inizio della Salvezza per tutti.

Mentre celebriamo insieme il periodo dell’Avvento, ognuno di noi è così emozionato e felice. E dopo la celebrazione del Natale, dopo tutta l’eccitazione, cosa succede ora? Dov’è Gesù dopo il tempo dell’Avvento? e siamo sicuri che Gesù sia ancora con noi nei nostri viaggi? Questa è una bella domanda per tutti noi fratelli e sorelle, per farci riflettere.

Gesù non è mai perduto; Dio non è mai assente. Gesù è il nostro Salvatore, che è venuto a fare in modo che fossimo in relazione con Dio. Questo è ciò che Dio vuole per noi più di ogni altra cosa: avere una relazione con lui. Dio non si allontana in alcun modo da noi e non permette la sofferenza per punirci. Dio non è limitato dalle nostre azioni, e Gesù non ci lascia mai ad affrontare la tragedia da soli.

Dov’è la nostra fede? La nostra fede sta in  Gesù Cristo,  gioisce con noi per le meravigliose benedizioni della nostra vita. Abbiamo fede che Gesù porta conforto e speranza in mezzo alla sofferenza? Crediamo che Cristo è il Messia, il Salvatore, che ci fa strada quando tutto il resto è perduto! Quando la tragedia ci colpisce, sappiamo dove andare per ricevere conforto e pace? Sappiamo che possiamo rivolgerci a Lui  per ricevere un amore incondizionato!

Si, Cristo è con noi. Egli sta compiendo l’opera di suo Padre, sta preparando per noi la casa del suo Padre. Egli ci ha preceduti  e ci sta aspettando. Tutto si rapporta alla nostra fede in Cristo. E tutto ha a che fare con la nostra prospettiva. Gesù agisce nella  prospettiva del regno questo sta a noi comprenderlo: Non perdiamo mai di vista il Dio che ci ama e che ha dato tutto per noi. Amen.

La fede nasce dall’ascolto

Romani 10, 5-17
Secondo Paolo, come si sa, le tre realtà decisive dell’esistenza cristiana sono fede, speranza, amore. Ebbene, sono anche le tre parole più difficili da usare. Il loro significato non è oscuro, anzi: esse sono, però, consumate dall’uso. Le impieghiamo così frequentemente, senza troppo pensarci, che, alla fine, da un lato vanno sempre bene, dall’altro però significano sempre meno, diventano generiche, non mordono la realtà. Noi cristiani e cristiane le ascoltiamo volentieri, ma sotto sotto avvertiamo che il pastore sta dicendo qualcosa di un po’ astratto. Ci piacciono, queste parole, ma non ci convincono del tutto. Fuori dalla chiesa, poi, nel mondo secolare, esse lasciano il tempo che trovano. Anche coloro, tra i cosiddetti “laici”, che formalmente celebrano, ad esempio, gli interventi del papa, in realtà li considerano retorica religiosa, roba da preti. Per la verità, quando parla il papa anche noi la pensiamo un po’, così: salvo poi scoprire che non è che il pastore sia molto più incisivo.
Oggi siamo confrontati con la parola “fede”. Beh, se non siamo in chiaro su di essa, viene da dire, possiamo lasciar perdere il resto, perché tutto comincia da qui. Vero. Molto spesso, però, quando chiedo a un esame: che significa fede?, mi sento rispondere: beh… fede significa che bisogna credere. Dove gli errori sono due, entrambi grossolani: il primo è il circolo vizioso, cioè che si dice che fede vuol dire che si deve aver fede; il secondo è che si introduce il dovere, sembra cioè che la fede sia il risultato di uno sforzo che noi possiamo operare. La verità è che, sullo sfondo, c’è un’idea sballata di fede, comune a credenti, che (dicono di accettarla) e atei (che dicono di rifiutarla): fede è ritenere vero quello che non so. So che oggi è domenica, e dunque non ho bisogno di crederlo; non posso invece sapere con certezza, ad esempio, che Dio è uno e trino, e dunque devo crederlo.
Paolo propone qui un’idea completamente diversa di fede. Fede significa fiducia, credere vuol dire fidarsi. Si crede in, si ha fiducia in qualcuno. La fede della quale parla il Nuovo Testamento è fiducia in Gesù Cristo. Non ritenere vero questo o quel dogma, bensì attendersi vita, futuro, relazioni (ciò che la Scrittura chiama: salvezza) dal Dio di Gesù. Paolo esprime questo pensiero attraverso una raffica di citazioni dell’Antico Testamento, utilizzate, bisogna dire, con notevole libertà. Se il tuo rapporto con Gesù è vivo, intenso, l’essenziale è già fatto. Da un lato, infatti, tu puoi trovare in questo rapporto energie per affrontare i piccoli e meno piccoli problemi quotidiani; dall’altro, nell’ora del fallimento, quando il problema non riesco a risolverlo, scopro che c’è qualcosa di più importante del problema irrisolto, cioè il rapporto con Cristo, che resta saldo. Il problema può chiamarsi dolore, fallimento; può chiamarsi peccato, cioè la mia incapacità di vivere relazioni sane con le altre e gli altri; il problema può chiamarsi paura della morte, o semplicemente morte. Non sempre la fede cancella il problema: traccia una via per viverlo responsabilmente.
Essa è come il rapporto con la persona che si ama, per chi ha la fortuna di averne una: le difficoltà della vita continuano anche per chi è innamorato, non è che l’amore o la persona amata siano una bacchetta magica che risolve tutti i problemi. Però nell’amore si scopre che, per gravi che siano le difficoltà, c’è qualcosa di più importante, una relazione che illumina l’esistenza e fornisce anche energie per affrontare le crisi. La relazione decisiva, la madre, la radice, la fonte di tutte le relazioni, è quella con Cristo.
Paolo lo dice in dialogo critico con la fede di Israele, che non riconosce a Cristo questa centralità. In questo momento, tuttavia questo aspetto è per noi secondario: è a noi, non ad Israele, ma nemmeno alle altre religioni, o ai non credenti; è a noi che è posta la domanda: dove il tuo cuore cerca sostegno, vita, futuro? Dove cerca salvezza?
La seconda parte del brano offre un’indicazione decisiva. Che la tua fiducia possa indirizzarsi a Gesù, non te lo puoi sognare: c’è bisogno di qualcuno che te lo dica. Gesù, cioè, si incontra nella testimonianza della chiesa. Testimonianza è l’intreccio di parola e vita. Vi consiglio di non perdere tempo a chiedervi se venga prima l’una o l’altra: esse esistono insieme. L’ascolto del quale Paolo parla non è semplicemente quello di un discorso, ad esempio di una lezione. E’ l’incontro con persone che dicono questo: con tutta la nostra precarietà e con tutti i nostri limiti, la nostra vita parte da Gesù, spera di arrivare a Gesù e trova in Gesù la forza per camminare, giorno per giorno. Questo può essere anche un cammino per te. La fede, dice Paolo, nasce da questo ascolto. Cià non significa, purtroppo, che nasca automaticamente, che cioè tutte e tutti coloro che sono raggiunti dall’annuncio diventino credenti. La conversione, la nascita della fede, è opera dello Spirito santo, non di chi predica. L’annuncio ecclesiale, la nostra predicazione che testimonia, unita alla testimonianza che predica, è in ogni caso il modo nel quale Dio ha scelto di parlare alle donne e agli uomini del nostro tempo e, per questo, anche il contenuto della nostra vita. Nulla di più, ma nemmeno qualcosa di meno.
Amen
prof. Fulvio Ferrario

L’amore vince la morte

Care sorelle e cari fratelli,

prima di arrivare al brano di oggi mi preme aprire una piccola parentesi. La nostra settimana è finita con un numero elevatissimo di femminicidi che purtroppo ormai non fa più troppo scalpore o indignazione, ma fa solo numero in una sommatoria di donne scomparse nella giornata contro la violenza sulle donne. Ormai anche il nostro posto occupato non trova più spazio o se lo trova è talmente nascosto, non curato. Perché anche noi siamo assuefatti, quasi ormai indifferenti, ancora una diciamo e abbiamo questa e altre tombe troppo pensanti, continue, che ci sembra non poter far nulla. Una tomba la cui pietra rimane chiusa perché troppo pesante.

Anche oggi un brano difficile che parla di pietra pesante e del Padre. Difficile non solo da capire ma soprattutto da vivere e da credere.

 

”Signore se fossi stato qui mio fratello non sarebbe morto, mia sorella non sarebbe morta”, potrebbe risuonare nei cuori, nella mente di amici, parenti e di ogni uomo o donna “di buona volontà”, che crede nella giustizia, nell’amore. Nei parenti di ognuna delle donne uccise, dei morti a Kabul, delle centinaia di morti nella totale indifferenza dello Yemen, o nei paesi assetati del Sahel. O nelle bidonville di Nairobi o di San Paolo. O semplicemente di Willi Monteiro Duarte morto lo scorso anno a colleferro

Oggi queste urla possiamo sentirle in tantissimi momenti della nostra vita quotidiana..

Ma insieme a questi pensieri penso spesso che come credente Credo, devo credere alla resurrezione, nella resurrezione. Altrimenti come dice l’apostolo nella I lettera ai fratelli di Corinto Se non vi è risurrezione dei morti, neppure Cristo è stato risuscitato; e se Cristo non è stato risuscitato, vana dunque è la nostra predicazione e vana pure è la vostra fede (I Cor. 15,13-14)

Vana è la nostra fede

Ma quanto poco si parla di resurrezione nelle nostre chiese? Tra noi, nei nostri incontri e studi biblici? Quanto crediamo nella resurrezione quando ci imbattiamo in questi casi di cronaca, oppure ai bambini morti nel nostro mare, o per entrare negli Usa, in cerca di una, anche modesta, sicurezza economica?

Se siamo alla sua sequela, se crediamo in quell’uomo di Galilea, dobbiamo, e sottolineo dobbiamo, credere nella nostra resurrezione altrimenti vana sarebbe la nostra fede. Resurrezione non solo dell’ultimo giorno, ma resurrezioni quotidiane.

E come quella di Marta e Maria, perché sono, in fondo, loro che resuscitano a vita piena quel giorno.

Lazzaro si pone al centro di quelli che sono chiamati i segni giovannei (il Verbo che avanza, le nozze di Cana, il cieco dalla nascita, la samaritana al pozzo di Giacobbe, Nicodemo, il paralitico della piscina, la cacciata dei mercanti dal tempio, Lazzaro che torna alla vita, il corteo verso Gerusalemme…)

Veniamo allora a Lazzaro e al suo ritorno alla vita, tra il fascinoso e il delirante. Su quelle righe tutto cammina su una soglia più alta di noi e corrergli dietro ci conquista e nello stesso tempo ci sfianca.

Lazzaro si spegne mentre il Maestro è lontano.

Gesù si presenta ed è descritto come amico guida amante sposo: quanto di più sacro possiedi e per nessuna ragione ti rassegneresti a perdere. Una parte o il tutto di te. I termini usati da Giovanni non lasciano dubbi

Un’esagerazione? Chiamiamola come ci pare ma questo è Lazzaro. Di tutto questo Lazzaro è segno. Tutto questo c’è dietro il poema di Lazzaro: esitazioni discussioni rimproveri lacrime malintesi grida suppliche.

Ed estasi finale. Perché quello vuole, a quello tende, quello esige il Gesù giovanneo è il Padre, l’unica ragione e l’unico amore della sua vita. Il Padre, la vita che recupera Lazzaro.

 

Gesù tentenna aspetta. Non vuole arrivare mentre Lazzaro è in vita. Non vuole vedere vivo l’amico amato. Che assurdità! Noi corriamo al capezzale di un amico che sta morendo. Gesù invece ritarda.

Perché?

Forse perchè confida nel Padre e per lui sta per recarsi a un appuntamento con la vita che ha un nome solo: Padre. Il Padre, la sua vita, il suo oggi e il suo domani, lo smisurato amore che gli manca sempre. Così ripete con ossessione. L’impatto con la casa di Lazzaro è subito scontro e incomprensione. Le sorelle sono fredde e amareggiate. Non capiscono non ci stanno a quella urtante lentezza di Gesù. E il vangelo di Giovanni va a nozze quando si tratta di combattere.

Perché non sei venuto subito? Se fossi stato qui non sarebbe successo. Sguardi di traverso, bocche cucite o parole a mezza bocca. Lo senti nell’aria e ti accorgi subito che fino a cinque minuti prima hanno parlato male di te e magari ora abbassano lo sguardo.

 

Perché ha tardato. Un tempo lunghissimo sfiancante irritante. Un ritardo incomprensibile. Sono i nostri dubbi e lamenti di fronte alla morte. Ad ogni morte. Ma sono i nostri tempi. I tempi eterni di fronte alle morti. Gesu va piano, perchè i cambiamenti dalla morte alla vita hanno bisogno di tempo, di crescita, di piccoli cambiamenti continui e non di facili entusiasmi.

 

quel ritardo è il segno di una vigilia decisiva e imperdibile. Una veglia indispensabile prima della resurrezione. Di ogni resurrezione. Una fede messa alla prova da notti lunghissime. Un dubbio atroce: possibile che il mio amore si sia dimenticato di me, che altri pensieri e altri affetti gli occupino la testa, che io non conti più niente per lui? Possibile che mi lasci gridare a vuoto?

Le lacrime di Marta e Maria, le lacrime della delusione e forse della disperazione per un abbandono senza motivo. Lacrime che si mischieranno insieme a quelle del Maestro. Perché se ami piangi ad ogni morte. E gioisci ad ogni ritorno alla vita. Ma solo se ami.

Per una volta, dunque, le lacrime non commuovono il Maestro; lo irritano invece e lo infastidiscono. Le scene mezzo isteriche di Marta gli danno lo stesso dolore che un giorno gli procureranno i dubbi e gli indurimenti di Tommaso. Maria, la tenera appassionata non fa un passo verso di Lui. Quell’intensa amicizia ora tutto sembra però sospesa e perfino interrotta.

Gesù ora vuole andare alla tomba.

È  impietrito come la tomba del suo Lazzaro. Il Quarto Vangelo concede una tregua sul suo Gesù sempre così alto e lo coglie in uno scoppio di pianto. Non semplici lacrime ma addirittura singhiozzi (il testo greco è puntiglioso). Il poema di Lazzaro osa mettere un piede nell’intimità del Maestro e leggermente introdursi nelle sue emozioni. Le lacrime di Dio. Un Dio umano che spinge l’uomo a farsi divino.

Ma è un attimo perché a quel sepolcro egli è ormai proiettato come a una lotta senza respiro.

Padre. Eccolo l’amore col quale scardinerà quella pietra. Eccolo il fiato sottile che basterà a far crollare il mostro di separazione fra il nostro mondo morto e la luce immortale. Un muro, una barriera invalicabile, una frontiera torva come una volta a Berlino e tuttora, ahimè, proprio lì a Gerusalemme e nell’intera Cisgiordania occupata o al confine tra Texas e messico dove, la notizia è di ieri, 7000 haitiani vivono sotto un ponte.

Padre. Il Gesù giovanneo respira col Padre, è immerso nel Padre, gli è come impastato.

 

Fondersi col Padre. Eccolo il Gesù giovanneo di fronte a una pietra assurda che finora gli nega l’infinito. La pietra che incarcera Lazzaro, la nostra rozza coscienza. E solo il fondersi con il Padre farà rotolare quella pietra che indica la morte e le morti quotidiane. È solo l’amore che farà rotolare quella pietra, quelle pietre pesanti delle nostri morti..

 

Le nostre pesanti pietre che ci chiudono nei nostri sepolcri.

Il racconto della risurrezione di Lazzaro è la pagina dove Gesù appare più umano: freme, piange, si commuove, grida, ma anche libera e fa tornare alla vita.

Quando amiamo, l’uomo e la donna compiono gesti divini; quando ama, Dio lo fa con gesti molto umani. Non è la vita che vince la morte. La morte, nella realtà, vince e ingoia la vita. Invece ciò che vince la morte è l’amore.

La ribellione di Gesù contro la morte passa per tre azioni: 1. Togliete la pietra. Rotolate via i macigni dei nostri cuori, contempliamo la pesantezza della pietra, le macerie sotto le quali ci siamo seppelliti con le nostre stesse mani; via i sensi di colpa, l’incapacità di perdonare a se stessi e agli altri;

  1. Lazzaro, vieni fuori! Fuori nel sole e gusta l’infinito amore del Padre.
  2. Liberatelo e lasciatelo andare! Sciogliamo i morti dalla loro morte: liberiamoci tutti dall’idea che la morte sia la fine di una persona. Liberatelo, come si liberano le vele al vento, come si sciolgono i nodi di chi è ripiegato su se stesso, i nodi della paura, i grovigli del cuore. Liberatelo da maschere e paure. Liberiamolo per donarlo alla vita infinita del Padre. Lasciare andare i nostri morti e le nostre morti. Che fatica, ma è un punto fondamentale della nostra fede e prova dell’amore per loro.

Eppure a me che cosa importa di Lazzaro, cosa me ne faccio della sua resurrezione? A me non importa Lazzaro, a me importa Gesù e il suo amore per l’amico, amore fino alle lacrime. È questa la salvezza: il pianto di Dio. Sono io l’amico che Egli non accetta di veder finire nel nulla della morte. Se amico è un nome di Dio il mio nome è: amato per sempre. Quante volte sono morto! Quante volte mi sono addormentato. Era finita la voglia di amare, forse anche la voglia di vivere. E mi dicevo in qualche grotta oscura dell’anima: Dio non mi interessa più. Non mi importa se mi ama. Poi un seme ha cominciato a germogliare, non so da dove, né so perché.

Una pesante pietra si è mossa, è entrato un raggio di sole, un grido d’amico ha percosso il silenzio, delle lacrime hanno bagnato le bende. Ciò è accaduto per palesi, pubbliche, sconvolgenti ragioni d’amore: la resurrezione è possibile per le lacrime di Dio. Perché il Signore prova dolore per il dolore del mondo, perché il suo amore per l’amico non accetta di finire. Se tu fossi stato qui nostro fratello non sarebbe morto. Diventano ora: se Tu sei con me, non morirò. Se Tu sei con me, la notte non verrà.

Allora Gesù dice di più, af­ferma: «Io sono la risurre­zione e la vita». Prima la ri­surrezione, poi la vita. Non nell’ultimo giorno, bensì o­ra. Risurrezione è un’espe­rienza che interessa il no­stro presente e non solo il futuro. A risorgere sono chiamati i vivi prima che i morti.

C’è una vi­ta morta, propria di chi, nella paura di perderla, si chiude nell’egoismo per trattenerla. Il vero risorto non è Lazzaro, tornato alla vita mortale, ma le sorelle di Be­tania e quanti credono in Gesù, passati alla vita di Cristo.

Noi sappiamo cosa è la vi­ta, ne facciamo esperienza. E poi c’è la vita risorta, che è la vita stessa di Cristo: «per me vi­vere è Cristo» (Fil 1,21). E come lui lasciarsi catturare dalla pietas, saper piangere il pianto dell’uomo, amare pace e giustizia, riempire la vita di quelle cose che du­rano oltre la morte, riem­pirla di Dio. Allora anche se non parli mai di risurrezione, mo­strerai con tutto te stesso una vita risorta.

 

Vieni fuori Lazzaro, ritorna alla vita, la vita ti appartiene. Diventa per noi esci dalle tue tombe quotidiane, dalle tue prigioni

Migliaia di schiavi che aspettano che noi togliamo quella pietra: i senza diritti, senza cibo, lavoro, educazione. Ai tanti a cui è Negata la dignità umana

Non restiamo sepolti nella nostri morti quotidiane, nella tristezza senza scampo, nell’atrocità della depressione e dell’abbandono. Ora sappiamo che a spingerci fuori e a liberarci è stato ancora una volta Lui, il soffio dell’inizio. Che tutti possiamo, una volta o l’altra, sentirci addosso come un vento luminoso. Come un amore infinito….quello del Padre

 

 

 

Un granello di senape

Luca 17,5-6

5 Gli apostoli dissero al Signore6 «Aumenta la nostra fede!».  Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granellino di senapa, potreste dire a questo gelso: Sii sradicato e trapiantato nel mare, ed esso vi ascolterebbe.

 

Care sorelle e cari fratelli,

perché gli apostoli hanno chiesto al Signore di accrescere (rafforzare, aumentare) la loro fede?

Perché solo così l’impossibile diventa possibile per loro. Ciò che è impossibile per l’uomo, Dio lo rende possibile.

L’evangelista Luca richiama la attenzione di coloro che predicano su questi due termini apostoli e Signore. Egli ha chiaramente in mente Gesù il Signore risorto della chiesa e gli apostoli come “guida/capi” della chiesa.  Nel versetto 5 gli apostoli sentono il pesante fardello di questa responsabilità. Pertanto, la parola che focalizza l’attenzione degli apostoli, e anche di noi oggi, è l’affermazione condizionale usata qui dal Signore: “Se avete fede”. Fred B. Craddock, un esegeta, commenta questo: “Voi che avete fede siete invitati a vivere sulla base della piena possibilità di questa fede. Anche la poca fede che ha cancella parole come <<impossibile>> un albero che si sradica e <<assurdo>> per piantare un albero nel mare, e questo lo mette in contatto diretto con la potenza di Dio”.

 

Per qualcuno è già faticoso pensare al significato dello sradicamento e del trapianto di un albero. Me ne rendo conto. I verbi sradicare e trapiantare sono importanti che dobbiamo prendere in considerazione quando ci riferiamo a un albero che ha già vissuto per anni, e non come una pianta appena cresciuta perché è più probabile che si adatti al suo ambiente. Spostando la nostra attenzione sull’albero e sul suo habitat completamente nuovo, siamo ora chiamati a spostare il nostro sguardo anche verso il basso: “sulle radici” e non solo a quello che spesso vediamo: l’albero. (Vi invito a guardare la slide).  Osserviamo con attenzione un albero rovesciato e guardiamo le sue radici con i suoi rami. Vediamo delle radici sottili,  e fragili che spesso e inevitabilmente vengono tagliate.

Care e cari, esaminate, analizzate attentamente che cosa è per voi questo albero. Potrebbe anche essere una metafora che vi identifica? Possiamo essere come questo albero?  Sia gli autoctoni che gli immigranti credenti in Italia sono come degli alberi radicati in una terra comune che con la loro fede comune possono testimoniare ciò che prima era impossibile. Le prove che mediante la fede sono state superate.

Da un altro punto di vista, prendiamo in esame questa metafora di noi come degli essere alberi sradicati dalla terra dalle quali siamo nati e poi ripiantati in questo paese. Guardate bene le radici di questo albero (Guardate la slide). Pensiamo a queste radici che sono state spostate, tagliate  o danneggiate, certamente li abbiamo ancora, ma non sono più come prima. Molte sono cresciute, molte hanno subito delle modifiche per potersi adattare alla nuova condizione, di fronte ad un nuovo ambiente. Le radici sono come le lingue, le culture, le tradizioni, e i cibi che sentono di essere modificate durante i trapianti in un’altra terra. E’ un processo che non manca certo di diverse problematiche di adattamento. Per questo, la nuova terra che lo ha accolta ha un ruolo fondamentale perché possa  crescere e trovare la sua collocazione. Dio sa quanto sforzo richiede per superare questa nostra difficoltà di essere i suoi figli eredi della sua terra donata per tutti noi.

Qual è il ruolo della fede in questo albero sradicato e trapiantato?  E’ ciò che rende possibile ciò che è impossibile. Il credente che possiede questa piccola fede che ha potuto spostare quell’albero dalla terra al mare deve renderne conto che questa metafora usata dal Signore agli apostoli con l’albero dalla terra al mare come suo ambiente  è completamente cambiato al meglio se è compreso.

L’impossibile tra l’impossibile?  Cerchiamo di capire che tutto è impossibile se non c’è fede.

Il Signore ha usato una metafora per spiegare agli apostoli che cosa è  la fede, un punto d’inizio per un nuovo modo di vivere la vita in un mondo diverso. E’ una metafora da cui riusciamo a trarre diverse metafore che definiscono e aiutano a spiegare dove siamo arrivati. Per chi si è spostato, per chi ha avuto l’esperienza di questo tipo di vissuto come un albero trapiantato nel mare ne esperimenta un vissuto di  tante difficoltà per trovare il proprio equilibrio. Gesù, il Signore lo sapeva, sapeva di essere un straniero che vive in un ambiente in cui si deve fare sempre conti con la realtà che non si sentirà mai ferma, ma stabile in colui da cui poggiato, sostenuto la sua vita.

 

Luca parla di un sicomoro, una specie di gelso. Matteo, invece, parla di una montagna, ma non cambia in alcun modo la sostanza del messaggio: la fede si affida a Dio, per il quale nulla è impossibile, ed è Dio che dà forza alla vita dei discepoli mentre svolgono il loro mandato. Così con la fede che hanno possono sradicare un albero e trapiantarlo nel mare. Gli apostoli di oggi sono responsabili delle fede che posseggono, e devono trasmetterla con fatica (attraversando molte difficoltà).  Questo significa, come disse Pietro al suo maestro Gesù: “Tutta la notte abbiamo faticato, e non abbiamo preso nulla” (cfr. Luca 5,5). Vivere con la fede è un lavoro duro, e trasmetterla è un lavoro altrettanto duro, è un impegno della comunità che l’ha ricevuta, e assumendosi la sua responsabilità deve sempre ricordare che questa fede le è affidata da colui che l’ha data: il Signore del cielo e della terra.

Ora  ci lascia un pensiero di  insegnamento da elaborare e sviluppare ancora per comprendere meglio la nostra vita di immigranti. Se siamo radicato a Dio, credo di sì,  permettiamo noi stessi a cogliere ciò che il futuro ci sta già facendo sperimentare.  Possiamo crescere qui nonostante l’impatto del  vissuto doloroso di essere sradicato dalla nostra terra natia per godere la vita di fede che il Signore risorto ci ha donato qui dove siamo. La fiducia che riponiamo in Lui ci aiuta a capire che con la nostra fede possiamo contrastare la nostra incredulità sulla parola impossibile.  Poniamo la nostra fede sulla sua parola promettendoci  ad un futuro migliore. Quando ascolto una testimonianza di una persona(sorella o fratello di chiesa) che è stata diagnosticata di avere una malattia inguaribile,   di avere solo qualche mese o qualche anno di  vita ma che ha già superata quel limite, rimango ammutolita per la gioia di ricevere la sua testimonianza di fede, riconoscendo che con la fede ha avuto questo miracolo. Mi chiedo però dentro di me “perché i miei entrambi che avevano avuto la malattia inguaribile non avevano sperimentato questo miracolo”? Quale la mia risposta?  La fede in Dio è salda, ferma, è un dono come la vita che nessuno possa fermare di far sussistere un essere. La fede è la forza della vita, la forza emana quando la morte la minaccia. La fede è anche un dono come la vita che nessuno di noi la può mettere in questione da come noi che siamo solo le creature umane. Possiamo ragionare, arriviamo a capire ma non tutto siamo capaci di comprendere.

Voi siete seduti qui per ascoltare questo messaggio.

E pensate la malattia inguaribile cioè quello che può dire un medico valutando ciò che è impossibile a guarire. Pensate che il Covid 19 sarà sconfitto dal frutto del lavoro dei ricercatori perché con la loro intelligenza donata dal Signore possono intervenire nella storia umana?

Pensate di poter salvare molti afghani perché avete la fede?

Noi non sradichiamo il male, ma lo possiamo scacciare, c’è ovunque, e solo con  il bene possiamo contrastarlo. Perciò chiediamo al Signore di aumentarci la fede perché possiamo a sua volta i suoi strumenti  perché  guarisca la parte malata dell’umanità.  Siamo tutti parte della natura che vivono in  questo mondo che con la differenza del avere la  fede in Lui (Dio) siamo capaci e siamo anche dei portatori di quella forza che emana laddove Dio è all’opera. Il Signore Gesù era morto ed era risuscitato, ciò è la prima espressione del Dio vivente e il culmine della sua potenza.

 

Che cosa è la fede? E’ simile ad un granello di senape.

Che cosa vuol dire avere fede? Se hai fede, hai quindi questo potere di fare una cosa straordinaria. Immaginate l’aspetto fisiologico di un granello di senape che assume un nome come la fede è un’identità che ha fatto perennemente discutibile alle persone, atei e credenti. E’ rimasta salda, degna da nominare per ciò che ha realizzato possibilmente nelle vite di molte di noi.

Ebrei 11:1 Or la fede è certezza di cose che si sperano, dimostrazione di realtà che non si vedono. 2 Infatti, per essa fu resa buona testimonianza agli antichi. Amen

past. Joylin Galapon

Rendete grazie

1 Tessalonicesi 14-24.
Vi esortiamo, fratelli, ad ammonire i disordinati, a confortare gli scoraggiati, a sostenere i deboli, a essere pazienti con tutti. Guardate che nessuno renda ad alcuno male per male; anzi cercate sempre il bene gli uni degli altri e quello di tutti. Siate sempre gioiosi; non cessate mai di pregare; in ogni cosa rendete grazie, perché questa è la volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi. Non spegnete lo Spirito. Non disprezzate le profezie; ma esaminate ogni cosa e ritenete il bene; astenetevi da ogni specie di male. Or il Dio della pace vi santifichi egli stesso completamente; e l’intero essere vostro, lo spirito, l’anima e il corpo, sia conservato irreprensibile per la venuta del Signore nostro Gesù Cristo. Fedele è colui che vi chiama, ed egli farà anche questo.

Preghiamo:
Siano gradite le parole della mia bocca
e la meditazione del mio cuore in tua presenza, o SIGNORE, mia Rocca e mio redentore!

Care sorelle e cari fratelli,
Avete notato che la Bibbia contiene dei comandi, ma nessuna spiegazione su come metterli in pratica? Sappiamo che la Bibbia racchiude tutto ciò che dobbiamo sapere per obbedire a Dio. Tuttavia, talvolta vorremmo avere delle istruzioni più dettagliate. Per esempio, il versetto 18 del brano di oggi dice semplicemente: “In ogni cosa rendete grazie, perché questa è la volontà di Dio per voi in Cristo Gesù.”

Queste sono parole impegnative! Siamo abbastanza veloci nel ringraziare il Signore per le benedizioni ricevute, che si tratti di una nuova nascita, di una nuova casa o di un nuovo lavoro, ma per la malattia, il dolore, la difficoltà o la perdita, come possiamo essere grati per queste cose? La risposta è che non lo sappiamo – a meno che non riconosciamo che Dio porta o permette il dolore e le difficoltà nella nostra vita per i suoi buoni propositi per noi e per la sua gloria.

Ci sono molte cose che non potremo mai capire in questo mondo, ma c’è una cosa di cui possiamo essere molto sicuri: il nostro Dio è buono. Inoltre, i suoi propositi sono buoni e ha promesso di essere con noi in ogni circostanza. Se crediamo questo, possiamo rendere grazie in ogni cosa.
in tutte le cose.

Corrie ten Boom nacque nel 1892 in una famiglia olandese profondamente cristiana in cui gli atti di generosità e di impegno sociale erano molto riconosciuti.
Suo nonno aveva fondato un’azienda di orologeria, che fu ereditata dal padre di Corrie, Casper.
Nel periodo della seconda guerra mondiale, all’età di 48 anni, Corrie fu testimone di ciò che stava accadendo con il regime nazi-socialista e specialmente con la persecuzione degli ebrei, e le venne un’ispirazione su come sostenere i rifugiati.

La sua idea prevedeva che la loro casa venisse trasformata in un rifugio per un breve periodo di tempo. Nel secondo piano della casa di Corrie costruì un nascondiglio che potesse nascondere 6 persone.
In pratica, accolsero degli ebrei e altri combattenti della resistenza olandese, nei quali a volte rimanevano per qualche ora o anche un mese in attesa per una via di fuga.

Un giorno un uomo entrò nel loro negozio di orologi e disse a Corrie che lui e sua moglie erano ebrei e che avevano bisogno dei soldi per poter corrompere un poliziotto, Corrie rispose che avrebbe cercato il modo per aiutarlo.
Fu proprio l’uomo che la denunciò. La polizia della Gestapo irruppe in casa di Corrie, arrestò suo padre, i suoi fratelli Willem, Nollie e Betsie, e suo nipote Peter.

In prigione il padre di Corrie, Casper che aveva 84 anni, fu condannato ed morì dopo 10 giorni; sua sorella Betsie morì poco dopo il loro arrivo al campo di concentramento poiché non riuscì a sopportare le privazioni e i maltrattamenti in carcere e cosi via anche per l’intera famiglia.

Ma il destino di Corrie fu salvato da un miracolo, il suo nome fu inserito nella lista delle persone che avrebbero potuto riacquistare la libertà. Ritornò nei Paesi Bassi e riuscì a guarire da tutti i problemi di salute che aveva sofferto a seguito della permanenza nel campo di concentramento. Corrie perdonò. E ha perdonato la mancanza della sua famiglia e le sue sofferenze.

Nel 1947, però, a Monaco, dovette affrontare una delle prove maggiori; un uomo volle salutarla e volle stringerle la mano… Corrie lo riconobbe come una delle guardie più crudeli del campo di concentramento, una delle tante che faceva sfilare le persone nude come Corrie e sua sorella Betsy per selezionare i prigionieri che potevano essere ancora utili.

Come poteva stringere la mano di quell’uomo?
Le disse che si era convertito al cristianesimo dopo la guerra e credeva che Dio volesse perdonarlo per tutte le cose orribili che aveva fatto nel campo di concentramento, ma aveva bisogno che lei le dicesse personalmente che lo perdonava.
Corrie in quel breve momento non voleva perdonalo, ma lo fece.
Corrie aveva così tanto amore grazie al suo rapporto con Dio.
Negli anni seguenti Corrie fondò una casa di convalescenza progettata per la guarigione e la cura dei sopravvissuti alla guerra. E giro in tutto il mondo per dare la sua testimonianza.
Sentiva che la sua vita era un dono di Dio e aveva bisogno di condividere ciò che aveva imparato nel campo di concentramento.
“Non c’è dolore così profondo che l’amore di Dio non possa guarire”.

AMEN

Antonio Montano

Caino e Abele

Genesi 4:1-16 Caino e Abele

I primi tre capitoli del libro della Genesi sono una rilettura teologica della condizione della umanità. Alla conclusione c’è il dramma della lacerazione tra l’umanità e Dio. Il male ha trionfato agli albori del capolavoro di Dio che ha creato il mondo e ha posto l’umanità al vertice, capace di armonia, padrona di tutta la realtà. C’è però un limite invalicabile che è un segno: piccolo in sé ma portatore di ubbidienza e di fiducia. “Non mangiare dell’albero”. Ma la suggestione di avere a portata di mano tutta la potenza di Dio, a poco prezzo, fa crollare la fiducia e la confidenza. L’uomo e la donna hanno compromesso totalmente la loro libertà ed hanno spalancato il loro mondo alla tentazione e al male.

Il racconto successivo, (capp.4-11) detto anche “preistoria biblica”, da non confondere con la preistoria scientifica del mondo, ricupera alcuni episodi legati a tradizioni antiche,per illustrare il cammino del mondo nei riguardi di Dio e la sua attenzione nel non voler distruggere l’umanità ormai perduta.

Il primo racconto della famiglia umana, dopo il peccato dei progenitori, è collocato in un mondo duro e difficile. Il lavoro è indispensabile nelle due qualità di operosità del tempo dell’autore biblico: la pastorizia e l’agricoltura. Da sempre c’è stato conflitto tra le due culture ed i due clan poiché l’agricoltura sottrae terreno da coltivare e i pastori sono allontanati dalle terre coltivate poiché distruggono ciò che cresce.

L’autore biblico, comunque, segue la sua meditazione del dramma della lontananza da Dio. Alla frattura dei rapporti profondi di comunione nella prima coppia segue la frattura dei rapporti tra fratelli. Anzi, il primo richiamo alla morte, nel mondo, non avviene per malattia o per debolezza della carne, ma per l’esplosione della violenza che fa dimenticare ogni valore, ogni solidarietà ed ogni legame profondo.

La fecondità del lavoro di Abele appare benedetto mentre quello di Caino, spesso soggetto all’aridità o allo stravolgimento delle stagioni, appare maledetto e rifiutato. Eppure in ebraico Caino viene da qanah, che significa acquistare, e viene imposto per rendere grazie a Dio. Lui è il primogenito e, secondo la culturale patriarcale, colui che personifica le speranze future o semplicemente l’erede. Il nome di Abele significa “vapore, nulla”, senza possibilità di sopravvivenza. Questi ruoli nel Nuovo testamento si capovolgeranno, Abele sarà simbolo della fede (“Per fede Abele offrì a Dio un sacrificio più eccellente di quello di Caino; per mezzo di essa gli fu resa testimonianza che egli era giusto, quando Dio attestò di gradire le sue offerte; e per mezzo di essa, benché morto, egli parla ancora. Ebrei 11:4).

Caino invece sarà simbolo del male: Non come Caino, che era dal maligno, e uccise il proprio fratello. Perché l’uccise? Perché le sue opere erano malvagie e quelle di suo fratello erano giuste (I Gv 3.12).

La prima reazione al successo dell’altro è fatta di gelosia, e quindi di rabbia, di odio, di conflitto arrivando alla prospettiva di eliminare l’altro dalla propria strada. In realtà le cose sono più complicate di così. Questo racconto di Genesi ci permette di riflettere sulla situazione enigmatica in cui tutte e tutti noi siamo posti. Siamo immersi/e in relazioni con fratelli e sorelle o con un prossimo con cui si compete e con un Dio che apparentemente si comporta in modo arbitrario preferendo l’altro/a, almeno secondo il nostro metro di giudizio. Il rapporto con gli altri e con Dio spesso ci turba e spesso può suscitare in noi sentimenti di rabbia, di invidia, insoddisfazione e frustrazione. Sono sentimenti che tutti noi proviamo e fanno parte dell’esperienza umana. Innestandosi su questi sentimenti che il peccato si mette in agguato per agire e farci compiere l’irreparabile. “Il peccato è accovacciato alla tua porta, ma tu puoi dominarlo”.

Ci viene garantita la lotta ma anche la possibilità di vittoria. E ci viene riconosciuto il valore della fondamentale libertà personale che, per quanto difficile, libera dalla rassegnazione. Dai normali sentimenti umani può possono scaternarsi pulsioni che possono distruggere le nostre relazioni con Dio e il fratello/la sorella. L’invidia è inevitabile. Sembra che l’altra Dio dia sempre di più ma è solo una nostra percezione errata. E’ la nostra mancanza di fiducia nell’amore di Dio che ci fa vedere ciò. Eppure Caino si è risentito per il trattamento di riguardo che avevo Dio per suo fratello. Non ha dominato il peccato e dall’invidia ha poi agito e ha ucciso suo fratello.

Quante volte succede nelle nostre vite. L’invidia e il risentimento ci fanno rompere e disgregare i rapporti con chi vogliamo bene, con il fratello/sorella di chiesa, sul lavoro o a livelli più alti nei rapporti tra gli Stati. Questo perché non vediamo noi stessi e desideriamo quello che hanno gli altri. Questo ci distrae dal nostro rapporto personale con Dio. Ci distrae dal rapporto reale con il prossimo. Ci mettiamo gli occhiali dell’invidia che non ci danno la possibilità di vedere e impauriti/e dal buio che ci circonda ascoltiamo la voce del peccato, che in quel momento sembra darci giustizia, e agiamo contro Dio e contro il prossimo.

Solo l’esperienza ha aiutato noi a capire, se lo vogliamo capire, che l’elemento fondamentale di un cammino comune è la solidarietà perché ciascuno riceva ciò che serve per una vita dignitosa. Si è giunti faticosamente nel mondo del lavoro, arrivando alle associazioni, ai sindacati, alle contrattazioni, alla fatica dello sciopero per giungere a capire che ci si deve mettere d’accordo. Anche nelle nostre vite personali dobbiamo comprendere che la solidarietà e l’agape, l’amore fraterno, ci possono permettere di vivere in armonia con l’altro.

Gli antichi autori della Genesi ci raccontano proprio queste dispute tra gruppi che vivono modi diversi per sopravvivere e come l’assenza della solidarietà ha messo in conflitto due fratelli fino ad arrivare all’omicidio. In più Genesi ci ricorda come i piani del Signore siano assurdi agli occhi umani, spesso non capiamo dove voglia arrivare. Quanto sono strani i suoi piani. In tutta la Genesi Dio usa il peccato degli uomini per portare avanti il suo piano. Lo vedremo più avanti nei capitoli che parlano dei Patriarchi, dove la lotta tra fratelli ritorna. Fino a Giuseppe che verrà

praticamente venduto schiavo agli Egizi e nonostante questo peccato il patto di Dio con il suo popolo potrà continuare e le promesse fatto ad Abramo mantenute.

Dopo due guerre mondiali lo ha imparato l’Europa che, pure, ha ancora molto cammino da fare sulla via della solidarietà e dell’armonia tra i popoli. Lo impariamo tutti a livello sociale nell’accoglienza, nella scuola, nella sanità, nel fare le leggi giuste e non per lobby e privilegi. Il testo garantisce che Dio è attento a ciascuno e perciò anche a Caino ed offre suggerimenti per affrontare la situazione di delusione e di rabbia.

Ad Adamo Dio pone la domanda: “Dove sei?” (Gn 3:9). Qui continua la ricerca di senso dell’umanità. “Dov’è Abele, tuo fratello?”. In queste due domande si raccolgono tutti gli interrogativi morali: saranno sviluppati dai profeti e da Gesù. Ci ritroviamo di fronte alle scelte nei confronti di Dio e dei nostri fratelli e sorelle e quindi alla società in cui viviamo.

Vengono formulati tre castighi. Caino che ha ucciso è maledetto (non l’umanità); quella terra che coltivava e che ha bevuto il sangue di Abele gli si rivolterà contro, diventando sterile; infine Caino sarà “ramingo e fuggiasco” cioè lontano da Dio e dagli uomini.

E tuttavia il castigo è mitigato. Se Caino è maledetto, nessun uomo ha il diritto di prendere il posto di Dio nell’esecuzione della sentenza perché “la vendetta appartiene a Dio “(Rom 12,19).

Il segno su Caino è simbolo di castigo e grazia allo stesso tempo. Dio non abbandona chi non sa riconciliarsi. Egli non cessa mai di chiamare, anche Caino che non è riuscito a dominare l’istinto di morte contro Abele. Il mistero di Dio è che la sua protezione si estende anche nella terra dell’esilio. Dio non ha distolto il suo sguardo su Caino nonostante il

suo errore. Per questo motivo Caino potrà unirsi a Paolo e dire:
“Infatti sono persuaso che né morte, né vita, né angeli, né principati, né cose presenti, né cose future, né potenze, né altezza, né profondità, né alcun’altra creatura potranno separarci dall’amore di Dio che è in Cristo Gesù, nostro Signore (Romani 8:38-39)”.

Amen.

Valentina Coletta

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Afferrati dall’amore di Dio

Il sermone del culto di apertura del Sinodo

Riportiamo qui di seguito la predicazione tenuta dal pastore Winfrid Pfannkuche in occasione del culto di apertura del Sinodo delle chiese metodiste e valdesi che si è svolto domenica 22 agosto nel tempio di Torre Pellice

 

I CORINZI 12,31b; 13

Care sorelle e cari fratelli,

l’apostolo aveva appena parlato del corpo di Cristo. Eccolo qui. Nella gioia. Per Monica, una nuova diacona. E per Gabriele, un nuovo pastore. E per essere finalmente, in qualche modo, anche nuovo, insieme.

Certo, quel che conta non è il corpo, ma che è di Cristo. Conta l’essere di Cristo. Guai a fissarsi sul corpo, sulla chiesa. È la chiesa di Cristo. Noi cristiani parliamo troppo di chiesa, parliamo troppo di cristiani e di cristiane, e troppo poco di Cristo e con Cristo. Siamo troppo autoreferenziali. Siamo fissati su noi stessi. Sulla nostra immagine. Quel che conta non è il corpo, ma che sia di Cristo.

Attenzione però: tra i vari gruppi in conflitto fra di loro nella chiesa di Corinto c’era anche un gruppo che si diceva «di Cristo». Le formule giuste e pulite non ci salvano, dobbiamo scendere nella sostanza, mai avere paura di approfondire per evitare eventuali conflitti, approfondire perché nella profondità c’è l’amore di Dio.

Ora questo corpo di Cristo cammina. Il Sin-odo, il cammino condiviso, insieme. Ma anche qui non basta fissarsi (e in tal modo fermarsi) sull’essere insieme e sul camminare insieme. Quel che conta non è il nostro camminare, bensì la via sulla quale camminare insieme.

Ora l’apostolo ce la mostra, e la chiama la via per eccellenza. Non la chiama la via «giusta» o «la retta via» da buon pedagogo bacchettone. Ma la via per eccellenza, in greco iperbolen, l’iperbole, sì: la passione, l’entusiasmo, la bellezza, l’arte, la vitalità mediterranea. Non è solo una via giusta, retta, dritta, sobria, modesta, politicamente corretta. Neppure solo una via secondaria, provinciale, nascosta ai più, più per esperti, una nicchia, una via segreta fuori dal grande traffico. Mai può essere una scorciatoia o una circonvallazione. Ma la via per eccellenza. Sì, esiste un protestantesimo che non perde di vista la passione, la bellezza e l’arte, che non ignora di essere indirizzato alla via per eccellenza.

E poi segue l’inno all’amore. Ancora una volta dobbiamo cambiare l’immagine: dal corpo al cammino, e dal cammino al canto. Il Sin-odo diventa sin-tonia, sin-fonia. La musica, la nostra arte e la nostra bellezza preferite. Ritrovare l’armonia della coralità, delle diverse voci e strumenti che nei disaccordi ritrovano l’accordo, che ritrovano nell’inno all’amore l’altolà della loro esistenza. Certo, veramente non è un inno che si cantava, ma un testo d’istruzione. Un testo d’istruzione che ci insegna anche in che modo istruire. Non è un libretto d’istruzioni, la nostra chiesa non è un libretto d’istruzioni di 100 pagine in venti lingue diverse. La chiesa, con tutte le sue stonature, è un inno. Ma anche qui vale: non è il nostro cantare, non è l’inno, ma quel che conta è l’amore.

Tre sono le strofe di quest’inno. Qui siamo alle prove per cantarle insieme. Ci vogliono prove, anche un duro e faticoso lavoro, non vien da sé, anche se conosciamo bene l’inno, anche se l’abbiamo sempre cantato, predicato e amato.

Ecco, la prima strofa:

Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi amore, sarei un rame risonante o uno squillante cembalo. Se avessi il dono di profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza e avessi tutta la fede in modo da spostare i monti, ma non avessi amore, non sarei nulla. Se distribuissi tutti i miei beni per nutrire i poveri, se dessi il mio corpo a essere arso, e non avessi amore, non mi gioverebbe a niente.

Diventa immediatamente il canto del Sinodo delle nostre chiese: avessi una forte spiritualità, avessi una vita di preghiera intensa! Avessi una predicazione profetica, una teologia chiara e una salda fede! Avessi una diaconia che incide, persone che si impegnano fino in fondo, testimoni autentici fino al martirio! Senza se e senza ma. Andassero tutti questi doni d’accordo fra loro, camminassero davvero insieme, senza dover stabilire chi è il più grande fra loro! Guai a chi punta su un solo dono, peggio: sul proprio dono, in trincea contro altri doni. Dal tenore: ci vuole più spiritualità! e spara sulla teologia; ci vuole più predicazione! e spara sulla diaconia; ci vuole più diaconia! e spara su tutti; ci vuole più impegno! e spara sulla fede, ci vuole più fede! e spara sull’impegno.

Mi metto nei panni di Monica e Gabriele (che sono panni simili ai miei): devo avere una forte spiritualità e preghiera, una buona conoscenza e una robusta teologia, una fede incrollabile, impegno fino in fondo e, alla fine, devo dare la mia vita in sacrificio per la causa. Devo avere tutti quei doni e devono andare d’accordo fra loro, sintonizzarsi nel mio ministero. Povero me, povera me! E povera chiesa!

È bene sapere che da alcune discipline delle prime chiese risulta che persone eccellenti che hanno sfiorato il martirio avevano il divieto di predicare. È bene sapere che predicavano persone come Saulo, forte con la penna, debole «in presenza». È bene sapere che una sola cosa conta, per non perderti nelle infinite aspettative, soprattutto in quelle del tuo proprio ingombrante e impietoso io. L’amore. E tutte quelle cose vi saranno date in più. Ma appunto date, e non messe in scena. Eccellenti non siamo noi, non eccelliamo né siamo Eccellenze, la via, e solo la via, è quella per eccellenza.

Questa prima strofa è un tipico testo di una scala di valori. Grandi valori vengono elencati, dalla spiritualità al martirio. Ma una sola è la priorità. Qui si stabilisce la priorità. Il primo comandamento. Lo sh’ma jisrael. Ecco: l’inno all’amore è il nostro sh’ma jisrael. Ristabilire la priorità, quotidianamente, ogni giorno. L’agàpe, l’amore di Dio e l’amore per il prossimo. In questa priorità ci ritroviamo tutti. E non ci perdiamo per vie non meglio definite.

Paolo riesce a dire queste cose non solo dell’amore, ma anche con amore. Non solo ci istruisce, ma ci insegna anche come istruire. Dire a quei corinzi che sono dei montati, gonfiati che rischiano di soccombere nel proprio io pieno di doni, valori e buona volontà, dire a loro di non essere buoni a nulla, con parole che sono diventate uno dei pezzi più belli della letteratura universale. Questa è la bellezza, la musica, l’arte apostolica della nostra predicazione. E qui siamo per imparare insieme quest’arte del dire la verità con amore, e di comunicare l’amore con verità.

La seconda strofa è il centro, il cuore dell’inno, dell’istruzione. Ora il soggetto è l’amore. Ora l’amore diventa un soggetto, una persona che prende in mano la situazione, che prende in mano la nostra esistenza, il nostro ministero, le nostre chiese. 16 volte amore. Solo all’inizio e alla fine, l’apostolo pronuncia la parola amore, agàpe. In mezzo: l’amore c’è, comanda, come se non ci fosse. Si apre uno spazio per noi in questo amore, in questo inno all’amore. E qui facciamo quel che piace a tanti: una piccola «animazione» che ci mette letteralmente in gioco: immetti in questa parola amore ciò che ami veramente. Se sono sincero, ciò che amo veramente è anzitutto me stesso. Sentiamo come suona:

Io sono paziente, io sono benevolo; io non invidioio non mi vantonon mi gonfionon mi comporto in modo sconvenientenon cerco il proprio interesse, non m’inasprisconon addebito il malenon godo dell’ingiustizia, ma gioisco con la verità; soffro ogni cosa, credo ogni cosa, spero ogni cosa, sopporto ogni cosa. Se sono sopravvissuto nel mio orgoglio fino a questo punto, ora arriva il colpo finale: io non verrò mai meno.

E, più altruista, posso immettere anche la persona che amo, i miei cari, possiamo immettere le nostre comunità, le nostre chiese: non sopravvivranno al colpo finale, alla croce dell’inno all’amore: anche le nostre chiese verranno meno.

È chiaro, l’apostolo, notoriamente non un grande esperto di fidanzate, fidanzati o famiglie (di comunità invece sì), qui canta Cristo, solo Cristo, senza mai pronunciare il nome, racconta la vita di Gesù: Cristo è paziente, è benevoloCristo non si vanta, non si gonfia, soffre ogni cosa, crede ogni cosa, spera ogni cosa, sopporta ogni cosaÈ il Cristo crocifisso e risorto che non verrà mai meno. Ecco l’amore fattosi carne, immessosi in noi, come noi ci siamo immessi nella sua parola, che ci libera da noi stessi, dalla dittatura del nostro io gonfiato iperbolico, ingombrante e impietoso, prendendo in mano le nostre coscienze, le nostre esistenze, le nostre chiese. Ed ecco perché è l’amore la più grande, perché è Cristo, Dio stesso, in persona. Ed ecco perché è vero: si è immesso in quell’amore fino in fondo.

Di questo Dio non abbiamo altra immagine che Gesù Cristo. E di questo Cristo dobbiamo fare attenzione a non farci l’immagine sbagliata: non è una singola persona che ricordiamo con un ritratto. Questo Cristo ce l’abbiamo solo come «foto di gruppo», in azione con altri. La sua immagine è la tavola della cena, l’agàpe, il Cristo in azione, interazione, con il mondo tanto amato, da darsi, spendersi. La sua immagine siamo noi insieme, noi chiese in interazione con il mondo tanto amato da Dio, da darsi, spendersi, come solo il suo amore sa fare.

Ora abbiamo fatto questa riscoperta di Dio e di noi stessi, del Cristo, come in uno specchio ci siamo specchiati in questo inno all’amore, in modo oscuro.

Ora ci immettiamo con questa nostra vocazione, con questa nostra istruzione in Cristo che non verrà mai meno nella terza strofa, in questo mondo in cui tutto ha il suo limite, il suo tempo, tutto è precario, passeggero, mortale. Abolizioni, cessazioni – in parte, tutto solo in parte. Tutto viene meno.

La profezia nella predicazione dell’inno all’amore di Tullio Vinay che 70 anni fa aveva inaugurato il Centro Ecumenico di Agàpe ha lasciato un profondo segno nella biografia di tanti e tante, quasi tutti e tutte voi. Un’esperienza di amore dopo l’assoluto venire meno di tutto della seconda guerra mondiale. È venuta meno? La nostra spiritualità, la nostra forza positiva e propositiva, sì, sono venute meno in questi anni. Certo, siamo in buona compagnia di tutte le creature, gemiamo insieme a loro: anche la biodiversità, gli animali, le stesse lingue in senso proprio in buona misura sono minacciate dall’estinzione. Sì, certo, anche le nostre chiese, in questi anni, sono venute meno.

Rileggere, anzi ritrovarsi nell’inno all’amore e ripartire da qui oggi, comporta una cosa: smettere di ragionare come bambini che vogliono tutto e non rinunciano a niente. Ripartire, ricostruire da persone che sono passate per la croce dell’inno all’amore. Ripartire, ricostruire da persone che hanno visto venire meno così tanto. Ripartire, ricostruire oggi che gli ultimi testimoni oculari della shoà e della seconda guerra mondiale se ne stanno andando, e le nostre teste formate nel ‘900 si perdono, nel pieno di una pandemia che allo stesso tempo ha accelerato e acutizzato la nostra presa di coscienza di un mondo tecnologico, scoperto dai più quasi a sorpresa. La nostra sfida rimane: ricostruire sul fondamento della parola del Cristo. Riapprezzarla, rinnamorarsene, fino in fondo. Quale costruzione sarebbe oggi il nostro Amen! all’inno all’amore, allo sh’ma jisrael dell’agàpe di Dio?

Non lo so, lo scopriremo solo vivendo, camminando, discutendo insieme. Posso, possiamo, forse come l’apostolo solo mostrare una via, questa via, e costruire sulla via di questa parola per eccellenza.

Ma una cosa la so e la confesso insieme a voi: la sfida di guardare in questo specchio, di avere il coraggio di immettersi, di immergersi in queste parole, di passare per la croce dell’inno all’amore, sgonfiare il proprio io, rinunciare a sé stessi, rimane sempre più grande di ogni altra sfida che troviamo sul nostro cammino. La sfida per eccellenza. La nostra priorità: l’amore che richiede sempre una decisione, una scelta chiara.

Di questa via per eccellenza sappiamo che alla fine qualcosa dura, rimane. Camminando insieme su questa via, qualcosa di noi rimane: la fede, la speranza, l’amore.

Non sono semplicemente la mia, la tua, la nostra fede, la nostra speranza o il nostro amore. Anche qui ci precede il Cristo: sono la sua fede, la sua speranza e il suo amore. Ma lo Spirito li ha posti, li ha immessi in noi. Con stupore apprendiamo, sentiamo che Dio ha messo tutta la sua fiducia, tutta la sua speranza, tutto il suo amore in voi, cari Monica e Gabriele, come in tutti noi. Lontani da ogni mielosa retorica dell’amore, afferrati dall’amore di Dio, dal quale nulla e nessuno ci potrà mai separare, sappiamo ora in chi abbiamo creduto. In Cristo Gesù.

Il frutto della misericordia

Testo della predicazione: Efesini 2, 4-10

 

“Ma Dio, che è ricco in misericordia, per il grande amore con cui ci ha amati, anche quando eravamo morti nei peccati, ci ha vivificati in Cristo (è per grazia che siete stati salvati), e ci ha risuscitati con lui e con lui ci ha fatti sedere nel cielo in Cristo Gesù, per mostrare nei tempi futuri l’immensa ricchezza della sua grazia, mediante la bontà che egli ha avuta per noi in Cristo Gesù.

 

Infatti è per grazia che siete stati salvati, mediante la fede; e ciò non viene da voi; è il dono di Dio. Non è da opere affinché nessuno se ne vanti; infatti siamo il suo prodotto, creati in Cristo Gesù per le opere buone, che Dio ha precedentemente preparate affinché camminassimo in esse.”

 

Sermone

Care sorelle e cari fratelli nel Signore.

Oggi è un’altra domenica.

Quando andiamo in chiesa, qual è la prima cosa che ci viene in mente?

Perché ci riuniamo e partecipiamo al culto in chiesa?

Prima di incontrare la nostra sorella e il nostro fratello in Cristo Gesù, i nostri compagni di fede, vorrei ricordare come Calvino definì i credenti come “la compagnia di fedeli”, cioè la chiesa.

Desideriamo veramente prendere questo tempo oggi per riflettere su ciò che Dio ha fatto per noi, come dice l’apostolo Paolo agli Efesini, quelli che erano morti nei debiti? quelli che erano morti davanti a Dio a causa del peccato?

Proprio come lo eravamo noi, partendo da quella condizione umana molto naturale che simboleggiava il vecchio uomo ADAMO, quell’immagine perduta risanata da Dio per mezzo e in Cristo Gesù.

L’apostolo Paolo riporta che la chiesa di Efeso era morta, tuttavia venne vivificata e risvegliata mediante Dio. Analogamente, lo siamo anche noi.

Prima eravamo morti, per poi essere vivificati in Cristo.

Vi ricordate come eravate in passato?

Il testo biblico dice: Dio è ricco di misericordia. Dio è ricco. È ricco di misericordia. Nella relazione tra Dio e l’uomo vediamo Dio che è ricco e dà, mentre noi, essendo morti, non possiamo dare nulla. Un uomo ricco di fronte ai morti. Questo è il punto di partenza per capire il Vangelo.

Il dono di Dio vivifica, ci rende vivi.  Non della vita che immaginiamo, ma della vita in Cristo, quella vita che ci rende signori con Cristo in cielo. Dalla morte alla signoria in cielo.

Questo è il dono della ricchezza della grazia di Dio. Dio è ricco di misericordia.

Ricco di misericordia.  Il nucleo di questa piccola parola “misericordia” è precisamente la parola cuore/heart.  Misericordia. In ebraico hesed, misericordia, ha la stessa radice della parola viscere. La misericordia nella Bibbia è etimologicamente viscerale. Dio ama visceralmente, potentemente.

Questo amore viscerale di Dio è capace di raggiungere noi, che siamo morti nei nostri peccati. Conquista la morte e oltre, ci porta alla vita, alla vita come figli, alla vita come eredi, alla vita come principi. Il Signore Dio ci ha vivificato con Cristo, ci ha risuscitato con lui, e ci ha fatto sedere nei luoghi celesti in Cristo. Eravamo morti, ma adesso siamo seduti nei luoghi celesti in Cristo.

Eravamo morti e non potevamo agire, imparare, pensare, e volere nulla che fosse utile o buono, ma ora siamo in Cristo, accanto a Dio.

Non può esserci un cambiamento più grande di questo, una nuova vita, una nuova creazione in Cristo.L’apostolo Paolo scrisse alla chiesa di Galasia: <<Sono stato crocifisso con Cristo: non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me! (Galati 2,20) Dio misericordioso e ricco di bontà, ha manifestato la sua benevolenza alla chiesa; essa vive per la grazia che ha ricevuto.  La chiesa di Efeso fu fondata dalla grazia di Dio. Una delle scoperte della Riforma protestante che ho amato e che ancora amo è la parola che Dio ha operato potentemente nella misericordia. Il suo essere era profondamente scosso davanti all’uomo.   La lettera agli Efesini non parla di te o di me; parla solo di noi. Di te e di me, non di me senza di te. Non parla di me o di te, ma della nostra vita come chiesa. Il vangelo in Cristo Gesù è stato rivelato alla chiesa. È così, per tutti noi che Dio ci ha mostrato la via, la verità e la vita che è in Gesù Cristo. Siamo in questo tempo di cammino con Cristo perché siamo in comunione con lui, una chiesa creata per le opere di Dio sono ora pienamente rivelate. Come?

Prima abbiamo ascoltato il vangelo di Luca 18, 9-14 in combinazione con questa lettera di Paolo agli Efesini, che sembra servirci come controllo. Gesù come un medico che controlla la nostra salute, controlla la profondità della nostra connessione con lui. La nostra scuola domenicale, la scuola di Gesù, si svolge qui nel tempio di Via XX Settembre, dove si legge la Parola e ogni volta che viene aperta la Bibbia (le Sacre Scritture).

All’inizio vi ho posto la domanda: perché siete qui oggi?

Secondo me, questa parabola di Gesù ci coglie impreparati, siamo paragonati a quei due uomini che sono venuti perché noi possiamo verificare e correggere la nostra incapacità di capire la nostra chiamata e vocazione con Cristo. Lui sa chi siamo, sa tutto su di noi. Siamo entrambi ugualmente giustificati, ma la giustizia di Dio va oltre la nostra comprensione umana. Certo, non può essere diversamente, perché non sarebbe una grazia. Si tratta solo di credere e di avere fede.

Secondo l’insegnamento dell’apostolo agli Efesini, Dio è misericordioso con entrambi, con il fariseo e il pubblicano, dunque la stessa parola che li ha giudicati è valida per tutte le chiese.

Tuttavia, come osserviamo, la giustizia di Dio non si realizza dove regna l’ipocrisia e la presunzione, nella vita di coloro che si considerano giusti, per cui questi atteggiamenti devono essere superati.

Purtroppo, l’uomo che si sente giusto avendo fatto buone opere è autoreferenziale, enumerando tutto ciò che ha fatto. Questo è il risultato dell’errata interpretazione dell’essere giusto in relazione agli altri, paragonando a se stesso considerandosi migliore dell’altro.

 

Cari amici, teniamoci stretti al vangelo, ricordiamoci che la chiesa è composta da uomini e donne che sono morti dai loro peccati, riconosciamo che siamo stati vivificati e creati dalla misericordia di Cristo, dalla giustizia stabilita da Dio. Perseveriamo a vivere in questa grazia. I doni dello Spirito, i talenti che abbiamo ricevuto sono tutti frutti della vita che ora abbiamo in Cristo Gesù.

Se la chiesa è paragonata a un corpo umano, allora da un lato noi che siamo una chiesa ci vantiamo insieme perché ne facciamo parte, ne siamo membri, accumunati dalla nostra reciproca edificazione.

D’altra parte, se ci paragoniamo gli uni agli altri, è perché non ci sentiamo parte di quel corpo che è stato preso e reso giusto, dobbiamo continuare a leggere tutta la Bibbia fino a raggiungere la parola finale che è racchiusa nella parola della giustizia di Dio per tutti noi.

È essenziale che siamo istruiti, che cerchiamo sempre quell’insegnamento che il timore di Dio è l’inizio della saggezza perché da lui abbiamo avuto tutta la nostra vita, guadagnata nel nome di Gesù Cristo. Senza Gesù Cristo non c’è chiesa, non c’è modo di esprimere un cuore toccato, non c’è volontà di agire, un cambiamento di vita è impossibile.  Ogni persona rimane sola nel suo pensiero smarrito. Siete salvati per grazia mediante la fede. Non viene da voi questo, è il dono di Dio, non è per opere e nessuno se ne vanti. Ora, siamo al vero cuore della giustificazione per fede.

 

Significa che la salvezza del peccatore è operata da Dio al 100% e che non esiste alcuna azione umana, nemmeno l’assenso umano, da cui possa dipendere l’efficacia della grazia di Dio. La giustizia di Dio realizzata in Cristo e proclamata nel Vangelo non viene “accettata”, non viene “accolta”,  ma viene “stabilita” cioè  fissata (è irrevocabile, immutabile) perché Dio che ha deciso, non me o te. E ciò che ha applicato su di noi. Vi ricordate l’arcobaleno che segnò il patto di Dio con gli Israeliti? L’arcobaleno è un testimone fra Dio e il suo popolo eletto.

Quando Dio ha stabilito il suo decreto su di noi, ha preso una decisione una volta per tutte e tutti, ha fatto un’opera che la estesa fino alla millesima generazione.

Atti 2:39 Perché per voi è la promessa, per i vostri figli, e per tutti quelli che sono lontani, per quanti il Signore, nostro Dio, ne chiamerà».

Colossesi 2:12 Siete stati con Lui sepolti nel battesimo, nel quale siete anche stati risuscitati con lui mediante la fede nella potenza di Dio che lo ha risuscitato dai morti.

Proprio perché il vangelo non è l’opera di nessuno di tutti i nostri antenati, loro hanno semplicemente creduto, ovvero hanno imparato a credere. È il dono di Dio, anche il vostro credere nel vangelo non è opera vostra, ma di Dio, con il suo Spirito che opera segretamente la resurrezione del vostro spirito. Dio è l’unico autore non solo della salvezza in Cristo, ma anche del fatto che questa salvezza è data e operata a te. Dio aspetta i suoi frutti, non è una cosa da fare o da eseguire ora, ma i suoi frutti nascono da essa.

Le ‘opere’ sono qualsiasi attività umana che afferma di cooperare con Dio nell’opera della salvezza o nella sua applicazione. Una predicazione del tipo: ‘Il mondo va male, Dio ti offre la salvezza, accettala qui e ora, allora tutto andrà bene’, questa è fondamentalmente la predicazione dell’opera umana. Tu qui e ora lo accetti. Avete fatto il vostro piccolo passo verso Dio. Hai fatto il tuo lavoro. E la vanagloria viene fuori quando ti dicono: “Da quando ho accettato il Signore, da quando mi sono convertito, sono una persona migliore”. Questo non è il modo di procedere, se vogliamo prendere sul serio la salvezza del Vangelo come opera di Dio solo.

Non siamo quella chiesa che elenca tutte le nostre opere davanti a Dio. Non siamo quella chiesa che si confronta con un’altra pensando di essere migliore dell’altra. Non siamo quella chiesa che disprezza l’altro, quella che riassume la preghiera del fariseo davanti a Dio, il suo monologo davanti a lui.

Che possiamo essere quella chiesa che persevera nel suo impegno di dare l’uno all’altro ciò che si ha tenendo sempre ben presente il suo fondamento. Quella chiesa che ha rappresentato il pubblicano e che ora permette ai doni di misericordia di Dio di operare.

Oggi, ognuno di noi ringrazi Dio con tutto il suo cuore, con tutta la sua anima, e con tutte le sue forze, perché ha dato la vita in Cristo Gesù alla Chiesa.

È per grazia che è stata salvata, è un dono di Dio che non si deve vantare.

L’invito a cantare insieme a voi l’inno 322 riassume la nostra dichiarazione di fede.

Siamo figli di un solo riscatto…Amen.

 

past. Joylin Galapon

 

Il popolo di Gesù

Esodo 19,1-6
Sarete tra tutti i popoli della terra il mio tesoro particolare; mi sarete un regno di sacerdoti, una nazione santa. Questo, e nulla meno, annuncia Iddio a Israele. E poco prima, quasi a rafforzare la propria promessa, Dio ricorda la propria potenza, utilizzata a favore del popolo: Avete visto che cosa ho fatto agli Egiziani e come vi ho portato sopra ali d’aquila: un passo citato anche da uno dei nostri inni più conosciuti. La Scrittura ci parla di una relazione strettissima, unica, tra Dio e Israele. Per noi cristiane e cristiani, la persona di Gesù costituisce il momento più alto di questa relazione. Chi ha incontrato Gesù lo ha compreso come una specie di profeta ebreo; e certamente Ponzio Pilato, che lo ha fatto uccidere, ha inteso eliminare un predicatore ebreo da strapazzo, forse non particolarmente pericoloso, ma in ogni caso inutilmente disturbatore. Eliminare uno di questi fanatici ebrei, deve aver pensato il procuratore, forse è utile, ma anche se non lo fosse, non può far danno.
Dovremmo chiederci se noi, cristiani e cristiane, comprendiamo a sufficienza questo specialissimo rapporto di Dio con il popolo ebraico. Nel Credo, ad esempio, ripetiamo che Dio i è fatto essere umano. Questo è vero ed è importante, ma secondo la Bibbia non è sufficiente. Dio si è fatto ebreo. La storia del predicatore di Nazareth va compresa alla luce della vicenda del suo popolo: Gesù, come si esprime il vecchio Simeone nell’evangelo di Luca, è veramente la Gloria di Israele, ma manifestazione definitiva del rapporto tra Dio e il suo popolo.
Israele è il tesoro particolare di Dio; e Gesù è il Figlio diletto. Il libro dell’Esodo parla della potenza di Dio che ha distrutto gli Egiziani, e delle ali d’aquila che hanno innalzato il popolo verso la salvezza. Tuttavia, l’elemento più profondo della comunione tra il popolo eletto e il suo figlio Gesù è il destino tragico che accompagna entrambi. Quella di Israele è una vicenda di esilio, dispersione, persecuzione, fino al progetto diabolico di annientamento del XX secolo; la storia di Gesù conduce alla croce. Non è facile, a quanto pare, essere gli eletti di Dio. Chi è scelto dal Signore non siede sui troni dei potenti, neanche dei potenti della religione; non gode di privilegi, non fa parte dei trionfatori della storia.
Il Nuovo Testamento riprende le parole di Dio a Israele, sacerdozio regale, nazione santa, e le applica alla chiesa (I Pietro 2,9), a noi. Le discepole e i discepoli di Gesù Cristo partecipano al destino del loro Signore e, in lui, anche a quello di Israele. Non vuol dire che diventiamo ebrei: ma in Gesù condividiamo il rapporto speciale di Dio con Israele. Come Israele, riceviamo un compito, che il libro dell’Esodo definisce così: ubbidire alla voce di Dio e osservare il suo patto. Israele cammina nel deserto e poi attraversa la tragedia della storia, nell’ascolto, a volte fedele, a volte fallimentare, del comandamento di Dio. Lo stesso che, secondo la tradizione, è sulle labbra di Rabbi Akivà, mentre Romani lo bruciano vivo a fuoco lento; lo stesso che, secondo un famoso romanzo, intitolato l’Ultimo dei giusti, è sulle labbra dei testimoni che muoiono nella camere a gas: Ascolta Israele, il Signore, il nostro Dio, è uno. Per noi Gesù stesso è la voce, il patto, il comandamento di Dio. Gesù ci precede, nella nostra piccola esistenza , come il Signore precedeva Israele nel deserto. Dove e come possiamo incontrarlo? Dove e come la sua voce risuona chiara, senza possibilità di errore, al di là del nostro dubbio, della nostra confusione e della nostra pigrizia spirituale?
Anzitutto nella chiesa, là dove è predicata la parola e celebrata la cena. Ascolta Israele, appunto, ascolta chiesa! Senza l’ascolto, non c’è rapporto con Dio. Il nostro primo compito in questo tempo complicato consiste precisamente nel tornare in chiesa e nell’aiutare le persone a tornare in chiesa, dopo la pandemia e le sue conseguenze. La comunità riunita nell’ascolto testimonia la presenza di Dio in un mondo che non lo riconosce
Il secondo luogo dell’incontro con Dio è colui o colei che chiamiamo il prossimo, colui o colei che il Signore ci pone accanto e mediante il quale, o la quale, risuona la sua voce. Seguire Gesù, come Israele camminava nel deserto, significa prestare orecchio alla voce di chi chiede aiuto. Il Signore parla e comanda mediante la voce del prossimo.
Ripetiamolo: Israele e Gesù ci testimoniano che non si tratta di una marcia trionfale. Non è nemmeno la strada che noi ci siamo scelti, bensì quella che Iddio ha scelto per noi. E una volta che Dio ha scelto, non c’è vita, non c’è presente né futuro se non nel cammino dell’obbedienza.Il cammino di Israele è stato spesso zoppicante e persino Gesù è inciampato e caduto, anche e proprio nel momento più drammatico della sua vita. La cosa più importante, quando si cerca di essere cristiani, non è non cadere, bensì riprendere il cammino. Nell’ascolto del Cristo, che ci parla nella predicazione della chiesa e nel bisogno dell’altra e dell’altro.
Amen
prof. Fulvio Ferrario

Giobbe uomo riconoscente

Il libro di Giobbe si trova quasi al centro dell’Antico Testamento. Dopo i primi cinque libri, i più famosi, Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, e Deuteronomio, che illustrano le vicende più antiche del popolo di Israele, i dodici libri storici raccontano l’ingresso nella terra promessa, il periodo dei giudici, Sansone, i tre grandi Re, Saul, Davide e Salomone , la divisione del Regno in due, le storie dei Re e infine la caduta di Gerusalemme e il ritorno del popolo dopo la cattività babilonese.

Questo è il contenuto della Bibbia fino ai 5 libri poetici, di cui fa parte il libro di Giobbe (oltre ai Salmi, il cantico dei cantici, i proverbi e Qoelet). Dopo questa serie di cinque altri 5 profeti maggiori e infine i dodici profeti minori, le cui storie vanno inserite a pettine nei dodici libri storici.

Il libro di Giobbe è il diciottesimo libro su 39. Fate voi i conti…

Nei cinque libri poetici troviamo, oltre al messaggio del Signore del Patto, molte domande. Sono le domande che si sono posti i credenti nel corso dei secoli e che ancora oggi noi ci poniamo, spesso senza trovare una risposta.

Il libro di Giobbe, il testo oggi alla nostra attenzione, racconta della famosa vicenda di Giobbe.

Tutti conoscono la vicenda di Giobbe, almeno per sommi capi, è famosa. Si parla della pazienza di Giobbe. Ma come mai Giobbe è diventato famoso per la sua pazienza?

Nelle sue linee essenziali, ma solo in quelle, si tratta di un racconto abbastanza semplice.

Giobbe è un uomo pio, un uomo che ha fatto di Dio e del timore di Dio la sua bussola. Le riflessioni a cui chiama invece sono molto profonde.

Giobbe è l’uomo più ricco nel suo paese. E’ un uomo che però pensa che la sua fortuna non dipende dalla sua capacità, ma dall’opera di Dio. Perciò Giobbe ringrazia del continuo il Signore, e sta bene attento che nessuno della sua famiglia devii e non rispetti il Signore. Perciò Giobbe compie anche sacrifici per i suoi familiari – si usava così nell’antichità – nel dubbio che essi possano aver involontariamente offeso il Signore di tutte le sue benedizioni.

Insomma, Giobbe è un uomo pio, un uomo che conosce il Signore e che soprattutto lo riconosce come l’artefice di ogni bene, lui somma bontà.

E’ un po’ come sta scritto nel primo salmo: Beato l’uomo…

Giobbe è un uomo beato, che non si bea della sua beatitudine, non se la tiene per sé, ma è un uomo riconoscente.

Così riconoscente che il Signore, in un dialogo con il tentatore, il demonio, lo porta come esempio come uomo retto, integro, che teme Iddio e fugge il male.

Allora Satana gli dice di stendere la sua mano e colpirlo per vedere se, messo alla prova avrebbe continuato a benedire il Signore.

Così Giobbe viene colpito, ma, poiché insiste a benedire il Signore, viene colpito prima nei suoi beni, poi nei suoi affetti, poi nell’integrità della sua persona e finisce povero, solo, ammalato, sofferente, assetato e affamato.

Infatti in tutta la sua vicenda Giobbe ripete: dal Signore ho preso il bene, dal Signore accetterò il male.

Poi ci sono tutti i suoi amici che vanno da lui ad offrirgli una spiegazione delle sue sofferenze, un po’ petulanti, tanto che non si capisce se la pazienza non sia da riferire anche a questa ulteriore afflizione.

In questa disperazione Giobbe alla fine, ma solo alla fine, dirà: “l’uomo nato di donna vive pochi giorni, sazio d’affanni spunta come un fiore e poi è reciso, fugge come un ombra e non dura”. E riflette sulla inconsistenza della natura umana.

Alla fine però anche Giobbe presenta la sua istanza, pone la domanda fondamentale, maledicendo non il Signore – non sia mai – ma il giorno della sua nascita (mentre prima si festeggiavano tutti i compleanni, quando tutto andava bene), e domanda: perché il giusto deve soffrire?

Questa domanda Giobbe la rivolge a Dio, ma anche noi, come lui, ci domandiamo: ma è mai possibile che il giusto soffra mentre il malvagio prospera? E’ un tema che si presenta, anche in questi periodi. Vediamo una donna anziana, una donna giusta soffrire, invece che vivere serenamente la sua vecchiaia. Soffrire nuovamente dopo tante sofferenze passate, e un ingiusto prosperare.

E’ un tema caro anche al libro dei salmi.

Invano ho dunque purificato la mia vita? E’ una domanda contenuta nei salmi.

In tutta questa situazione il lettore, noi, viene chiamato a partecipare, a prendere una posizione.

E allora noi, di fronte alla sofferenza di una persona per bene, di un brav’uomo non possiamo non partecipare umanamente alla sua tragedia (ha perso i beni, i figli, ma non la moglie, la propria integrità fisica ed è prossimo alla morte).

Anche noi ci chiediamo allora: perché? Perché il buon Giobbe deve soffrire? Poveretto!

Lo percepiamo come una ingiustizia.

E il punto paradossalmente è proprio questo. Cioè che cosa noi pensiamo della vicenda di Giobbe. Perché questo potrebbe essere un’indizio della nostra concezione di Dio e del nostro rapporto con Dio. E forse proprio questa nostra sensibilità potrebbe essere una illustrazione del nostro peccato, cioè della nostra incapacità di amare veramente, come solo Dio può fare.

Per capirlo ho provato a mettermi dall’altra parte, dalla parte di nostro Signore, il Dio di amore. Anzi Dio è amore.

Per amore il Signore ha creato tutte le cose. Ha preso questa palla da tennis – lo dico in termini moderni, cioè noi racconteremmo così la Genesi, nella Bibbia si usano le espressioni scientifiche dell’epoca – dove era contenuto tutto l’universo e nell’annichilimento tra materia e antimateria si è generata una polvere, e quella polvere è l’universo e ogni granello è una galassia, che contiene a sua volta altra polvere, i pianeti, che contengono a loro volta altra polvere, noi esseri umani e animali. E tutto ha avuto inizio per un gesto d’amore e questo nel racconto di Giobbe il Signore lo rivendica. E in tutto ciò noi siamo la polvere della polvere della polvere, magari fossimo solo polvere! Ma l’amore di Dio copre tutto.

Il Signore, infatti, come abbiamo letto oggi in Giobbe, su di noi tiene gli occhi aperti. Giobbe lo sa. Comprende la grandezza del comportamento divino che ha attenzione per l’uomo che non è nulla di fronte a lui. Un fiore che oggi spunta e poi è reciso…

Il Signore infatti risponderà alle domande di Giobbe descrivendo le sue opere, al capitolo 38: dove eri quando fondavo la Terra? Chi chiuse le porte del mare? Chi rivestì il cielo di nubi? Potresti tu stringere i legami delle stelle o sciogliere le catene di Orione? Conosci le leggi del cielo? Hai osservato quando le cerve partoriscono? Chi dà la forza al cavallo? E’ forse al tuo comando che l’aquila si leva nel cielo? E via discorrendo…

Ma insomma, come ti permetti? Chi ti credi di essere? Questo è il tenore della risposta di Dio a Giobbe, usando una certa ironia nel racconto: “ Chi è costui che oscura i miei disegni con parole prive di senno? Cingiti i fianchi come un prode: ti farò delle domande e tu insegnami!”

Nell’enumerare tutto l’universo mondo, nello sciorinare tutta la saggezza divina il Signore ricorda a Giobbe che tutto e tutti devono la loro esistenza all’azione di Dio, motivata dal suo amore per tutta la creazione.

E’ una grande ennesima dichiarazione d’amore che il Signore fa a noi e a tutte le sue creature. Il rapporto tra Dio è l’uomo è fondato sul grande amore di Dio, sull’amore.

Molte volte il Signore ha manifestato il suo amore per l’uomo e la donna: “Come farei a distruggerti ancora Efraim? Tutte le mie compassioni s’accendono. […] Io sono Dio e non un uomo e non verrò nel mio furore”.

Allora ho pensato questo: è un po’ come se un uomo o una donna ricevessero una dichiarazione d’amore e rispondessero così, come risponde Giobbe, come risponderemmo noi, che riteniamo la condotta di Giobbe giusta: “Sì, tu mi ami e mi ricopri di beni e di ogni benedizione e io, da parte mia te lo riconosco, ho fiducia in te, ti ringrazio sempre per tutte le tue benedizioni e mi attengo ad una condotta che ti sia gradita per non dispiacerti, perché ti voglio bene”.

E’ un po’ poco come risposta a una dichiarazione d’amore, alla grande dichiarazione e alla grande manifestazione di amore di Dio.

E non è un caso invece che il Deuteronomio, il quinto libro della Bibbia, reciti così, al capitolo 6 verso 5: “Tu amerai dunque l’Eterno, il tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima tua e con tutte le tue forze”.

E non è un caso che nostro Signore, Gesù Cristo, il figlio di Dio, ripeta questa indicazione come la via dell’amore, come la strada maestra (Marco 12: 28): “Ama il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta l’anima tua, con tutta la mente tua, e con tutta la forza tua”.

Questi sono passi che tutti ricordano…

Giobbe lo faceva? Noi lo facciamo? E allora perché pensiamo che il comportamento di Giobbe sia giusto? E forse il colore da usare in questa vicenda è il rosa, e non il rosso, e forse la temperatura da rilevare in questo caso sono i 29 gradi, tiepido, e non i 40 gradi, bollente…

La domanda allora è: il Signore vuole essere onorato, vuole essere riconosciuto dall’uomo? O vuole essere adorato e corrisposto nell’amore?

Giobbe è un uomo riconoscente, che magari ama il Signore con tutta la sua mente adeguando la sua condotta in modo da rendersi gradito, ma il resto, a quanto pare manca.

Ma il Signore, nella sua bontà non imputerà a Giobbe la sua limitatezza, anche perché Giobbe, che aveva comunque mantenuto un rapporto forte con il Signore, sarà a lui che si rivolgerà, sempre, senza mai rinnegarlo, e riconoscerà a Dio, alla fine, la sua universalità e maestosità del suo disegno del mondo. Giobbe in fondo è un uomo e non Dio. Egli è insieme giusto e peccatore.

Alla fine il Signore, che sa che questo è il massimo che Giobbe può offrire, lo reintegra di ogni suo bene. Giobbe riavrà mogli, figli e ogni cosa che gli apparteneva gli sarà restituita moltiplicata.

E allora mi sono detto: che cosa insegna la parabola di Giobbe a me, a noi credenti di oggi?

Per me insegna una cosa importante: che avere consapevolezza che il nostro amore – quando c’è – è un amore limitato, umano, contraddittorio, rappresenta già un primo passo nell’esigenza fondamentale della nostra vita, che dobbiamo sempre sentire, a maggior ragione quando pensiamo di possedere un rapporto privilegiato con il Signore, o con la sua Parola: l’esigenza della nostra conversione.

Questa vicenda mi esorta ad un cambiamento di rotta, ad una conversione. Se siamo sensibili alla sofferenza dobbiamo esserlo a maggior ragione alla mancanza di amore, perché tutto passa ma l’amore di Dio in Cristo Gesù dura in eterno.

Convertiamoci allora dalla riconoscenza all’amore di Dio, dal tepore al calore, da un vago sentimento positivo al perfetto disegno d’amore, e assumiamolo come nostra bussola personale, o almeno chiediamolo al Signore. Tutto quello che chiederete nel mio nome il Padre mio che è nei cieli ve lo darà, dice il nostro Signore Gesù Cristo.

Siamo consapevoli che quel barlume di amore –  che c’è, sì, c’è perché sempre a somiglianza di Dio siamo stati creati, sempre siamo il vaso di terracotta che custodisce un tesoro  – quella scintilla che lo Spirito del Signore ci ha voluto concedere, e che noi sentiamo pulsare in noi quando ascoltiamo la Parola di Dio, e che magari si esprime nella forma della riconoscenza o in altri modi umani, è l’inizio di un percorso di santificazione nell’amore. E’ il Signore dell’amore che ci chiama, che ti chiama, cara sorella e caro fratello nel Signore, con la sua Santa Parola, dandoci la forza d’animo, lo Spirito, per rispondergli, per percorrere quel cammino santo ogni giorno, in mezzo alle tante difficoltà ma anche alle molte benedizioni di cui siamo stati fatto oggetto, per percorrere quella strada alla sola gloria di Dio, benedetto in eterno. Amen.

pred.Andrea De Girolamo