La prima impressione non è decisiva

23 ottobre 2016

Luca 18: 9 – 14

Non so se conoscete l’espressione: non hai mai una seconda possibilità per avere una prima impressione. E sappiamo quanto possa essere importante una prima impressione, spesso da questo dipende come una certa persona ti viene incontro, ti giudica, un giudizio che ti può perseguitare tutta la vita. In più, alcuni non hanno nemmeno la possibilità di fare questa prima impressione. Mi spiego, ci sono delle persone di cui è già predefinita la loro immagine. Perché è ampiamente diffuso l’abitudine di etichettare delle persone prima di conoscerle, o perché porta i capelli in un certo modo, o perché cammina in un certo modo, ecc. Spesso, troppo spesso si giudica a partire dagli stereotipi. Vedi qualcuno ed è subito classificato, gli è stato appiccicato un’etichetta. Gesù sfrutta abilmente questa abitudine nella parabola che abbiamo sentito.

Luca ci fa capire subito di che si tratta, infatti abbiamo sentito: Gesù disse ancora questa parabola per certuni che erano persuasi di essere giusti e disprezzavano gli altri. E già c’è qualcosa che non va, perché essere giusti significa apprezzare, stimare gli altri. Essere giusto e disprezzare non sono due cose che vanno insieme. E quindi come lettore, come ascoltatore uno, una è subito incline a pensare, questa cosa non mi riguarda. E questo rende interessante questo racconto, questa parabola. Perché significa che ci siamo dati già una etichetta. Ci siamo già dati un’etichetta e per questo ci è difficile immedesimarci in uno di questi personaggi, ci sentiamo parte di quei certuni che erano persuasi di essere giusti e disprezzavano gli altri? In un primo momento assolutamente no, ma non ci vediamo nemmeno come un pubblicano, una specie di mafioso. Ma coincide questa nostra immagine di noi stessi con come ci vede Dio, di come siamo visti da Dio? Noi ci vediamo nel modo nostro, Dio nel modo suo.

Comunque questa parabola non racconta solo del fariseo e del pubblicano, ma anche di me, di noi, di come ci vediamo, di come ci giudichiamo, chi pensiamo di essere, ma anche di come pensiamo che Dio ci vede. Luca mette davanti a noi un duo in modo caricaturale, due stereotipi: un uomo pio, molto pio e a posto, ordinato e un tizio subdolo che è bravo a sottrare dei soldi, uno che approfitta della situazione e degli altri. Possiamo sapere che sono due caricature, perché un fariseo non era per forza un ipocrita, e un pubblicano poteva anche fare il suo lavoro senza approfittare degli altri.

Luca come un abile scrittore usa queste due immagini di uno che apparentemente sta dalla parte giusto e di uno che apparentemente sta dalla parte ingiusto. Il fariseo giusto sta in piedi, dritto, un uomo del diritto sta dritto, il pubblicano, l’ingiusto non sta dritto, non osa rivolgere gli occhi al cielo. Il giusto sta dritto, chi sente il giogo della colpa sta curvo. E proprio questo, alla fine, non risulta in questi termini (il buono diventa il cattivo e il cattivo il buono, diciamolo in questo modo un po’ tirato). Però siamo abituati a questi cambiamenti di scena nelle parabole di Gesù, proprio per questo colpiscono. Nei versetti immediatamente prima di questo brano si può leggere di un giudice ingiusto che fa alla fine giustizia a una donna che insiste nel chiedere giustizia, e nel capitolo prima è proprio un Samaritano che ritorna per ringraziare per la sua guarigione. L’immagine, l’impressione che si ha di questi personaggi all’inizio si rivela essere sbagliata. Bisogna quindi aggiustare la prima impressione.

Il tempio dovrebbe essere un luogo di una preghiera sincera, ma anche questo risulta essere diverso nel racconto. L’istituto non è una garanzia per purità e integrità per quanto riguarda la religione, la fede. Anche oggi, se uno entra in una chiesa, non per forza è una persona sincera ed integra, anche se si presume che sia così. Il fariseo non risulta essere un modello per un credente, mentre il pubblicano non risulta essere un modello esemplare di un peccatore incallito.

Il fariseo pregava per sé stesso, un esempio di un individualista quindi e comincia a ringraziare Dio. Ma il suo ringraziamento ha come misura sé stesso, non ha bisogno della misericordia del Signore, è felice che non è come gli altri, come tutti gli altri che non sono farisei. Il pubblicano, che si trova in fondo del tempio, per lui è come un ladro, un ingiusto, un adultero, oggi magari direbbe come uno corrotto, come un mafioso. Fra tutti questi il fariseo non fa delle differenze, sono tutti uguali per lui, è lui contro tutti gli altri, è un noi contro un loro. Un ragionamento pericoloso, lo sappiamo. Un ‘buoni’ contro i ‘cattivi’, bianco e nero. Spesso sono immagini fatte di stereotipi. Il fariseo si vanta, il digiuno è per lui un’abitudine. Digiuna molto di più di quanto è prescritto dalla Torà. Come si dice, più papista del papa, o in casa nostra più calvinista di Calvino. E a proposito di calvinisti mi permetto di raccontarvi una barzelletta, che riguarda anche uno che pensava di essere più buono, più giusto degli altri, ma riguarda anche l’immagine che abbiamo di noi e di Dio.

Nei Paesi Bassi ci sono molte chiese riformate che hanno una visione abbastanza letterale delle scritture, e quindi c’è tutta una fascia che attraversa i Paesi Bassi dove la domenica non si può fare assolutamente niente. Uno di loro si presenta davanti al Signore, ecco nelle barzellette cattoliche si arriva davanti a Pietro, noi andiamo direttamente dal Signore. E come il fariseo comincia a raccontare tutto ciò che ha fatto di buono e poi dice: la domenica non sono mai andato in bicicletta. Ah, che bello dice il Signore, chi te l’ha detto? Ecco un po’ di autocritica non fa mai male.

Come il nostro calvinista, anche il fariseo fa più di quanto previsto, forse per mostrare quanto è bravo, per distinguersi dagli altri.

Digiuna due volte a settimana, più di quanto prescrive la Torà , un rito forte che è diventato un’abitudine, il gesto come abitudine esprime più un ‘mettersi le mani davanti’, non un atto consapevole.

Nel racconto il pubblicano è consapevole del suo stato, sa di non essere perfetto. Una nozione che gli arriva attraverso la preghiera, almeno questo il testo ci fa supporre. In effetti la preghiera ci mette davanti noi stessi. Nella preghiera ci avviciniamo a colui, colei davanti a chi non ci possiamo nascondere, perché ci conosce e ci vede così come siamo, con i nostri lati luminosi e oscuri, e così ci vediamo come siamo e ci fa riflettere sulla nostra vita. Nella preghiera stiamo per così dire davanti uno specchio in cui ci vediamo come realmente siamo, senza doverci nascondere e farci più belli di quanto siamo, e così ci è rimessa un’immagine di noi stessi e ci rendiamo conto che non siamo perfetti.

Uno stato che ci mostra talvolta che siamo ingiusti e davanti a cui ci vogliamo nascondere, come si nasconde il pubblicano, come si nasconde anche quel altro pubblicano Zaccheo, il pubblicano questa volta non si nasconde in mezzo alle foglie di un albero, ma facendosi piccolo stringendosi fra le sue spalle, e comincia la sua preghiera con il pentimento, non prende se stesso come misura, ma una condizione fuori di lui, il paragone non è con se stesso, ma con una realtà di cui sa che richiede qualcosa da lui a cui non ha corrisposto, e fa un appello alla grazia di Dio, sa di avere bisogno della misericordia del Signore, è qui la differenza con il fariseo. E riceverà questa misericordia, grazia, in vs 14 il giusto è riferito al pubblicano, mentre all’inizio era riferito al fariseo. Chi pensava di essere giusto non lo è, chi pensava di non esserlo lo diventa, come altrove anche qui Gesù capovolge la situazione e facendo questo ci interroga, mette in discussione le immagini che abbiamo noi di noi stessi e di Dio. Certo ci fa piacere che Dio non si ferma alla prima impressione e può cambiare giudizio. Ma non so a quanti di noi piace un Dio che cambia idea, di solito l’immagine che abbiamo di Dio è un’immagine di uno che non cambia idea, che pensa sempre la stessa cosa, che per molti è un’espressione di integrità.

Ma come già detto l’evangelo, soprattutto nelle parabole, rovescia di continuo le situazioni, e le immagini ad esse connesse. Dopo questa parabola la prospettiva si allarga e ci mostra i bambini che non sono affette da certe immagini e pregiudizi, del pensiero noi-loro, di cui gli adulti soffrono di continuo. Chi a una prima impressione ha meno possibilità, come i bambini, come il Samaritano, come la vedova e il pubblicano delle parabole di Gesù, ci precedono nel Regno di Dio. Che il Regno di Dio è anche per loro, non ci fa problema, che ci precedono forse sì, siamo anche noi affetti, più di quanto vogliamo ammettere del pensiero di noi-loro.

Per fortuna, la prima impressione che Dio ha di noi non è decisiva. Non ci appiccica subito un’etichetta che ci condanna, ma dà al minore la possibilità di diventare il maggiore, dà la possibilità ai minimi di prendere interamente parte al suo Regno, e questo è una grande consolazione per noi, che abbiamo in noi più di quanto vogliamo ammettere del fariseo e del pubblicano, ma soprattutto più dell’individualismo del fariseo. I racconti biblici gettano sempre un’altra luce sulla nostra storia di vita. E così siamo liberati della nostra stile di vita individuale, siamo liberati per vivere in relazione con le altre persone. Da persone individuali diventiamo persone nuove, persone del patto, persone che si confrontano con Dio e che si lasciano interrogare da Dio. Davvero liberante che presso Dio la prima impressione non è decisiva. Una vita nuova, per tutte e tutti noi. Amen.

pred. Greetje van der Veer

 

L’armatura di Dio, l’Amore

16 ottobre 2016

2Timoteo 3,14-17 – 4,1-5;

Tu, invece, persevera nelle cose che hai imparate e di cui hai acquistato la certezza, sapendo da chi le hai imparate, e che fin da bambino hai avuto conoscenza delle sacre Scritture, le quali possono darti la sapienza che conduce alla salvezza mediante la fede in Cristo Gesù.  Ogni Scrittura è ispirata da Dio e utile a insegnare, a riprendere, a correggere, a educare alla giustizia, 17 perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona.
1 Ti scongiuro, davanti a Dio e a Cristo Gesù che deve giudicare i vivi e i morti, per la sua apparizione e il suo regno: 2 predica la parola, insisti in ogni occasione favorevole e sfavorevole, convinci, rimprovera, esorta con ogni tipo di insegnamento e pazienza. 3 Infatti verrà il tempo che non sopporteranno più la sana dottrina, ma, per prurito di udire, si cercheranno maestri in gran numero secondo le proprie voglie, 4 e distoglieranno le orecchie dalla verità e si volgeranno alle favole. 5 Ma tu sii vigilante in ogni cosa, sopporta le sofferenze, svolgi il compito di evangelista, adempi fedelmente il tuo servizio.

Efesini 6,10-17

L’armatura del cristiano
1P 5:8-9; (Ro 13:12; 1Te 5:8) Cl 4:2-4
10 Del resto, fortificatevi nel Signore e nella forza della sua potenza.

11 Rivestitevi della completa armatura di Dio, affinché possiate stare saldi contro le insidie(INGANNI) del diavolo(tentazioni, prove);

12 il nostro combattimento infatti non è contro sangue e carne, ma contro i principati, contro le potenze, contro i dominatori di questo mondo di tenebre, contro le forze spirituali della malvagità, che sono nei luoghi celesti.

13 Perciò prendete la completa armatura di Dio, affinché possiate resistere nel giorno malvagio, e restare in piedi dopo aver compiuto tutto il vostro dovere (responsabilità, l’essere del cristiano)  .

14 State dunque saldi: prendete la verità per cintura dei vostri fianchi; rivestitevi della corazza della giustizia; 15 mettete come calzature ai vostri piedi lo zelo dato dal vangelo della pace; 16 prendete oltre a tutto ciò lo scudo della fede, con il quale potrete spegnere tutti i dardi infocati del maligno. 17 Prendete anche l’elmo della salvezza e la spada dello Spirito, che è la parola di Dio;

 

Care sorelle e cari fratelli nel Signore,

oggi è una domenica molto importante per noi.

Oggi dopo pranzo abbiamo un momento in cui dobbiamo riflettere su come migliorare il servizio che rendiamo alla chiesa di Dio.

Il 25 di settembre i membri del consiglio di chiesa  si sono incontrati per discutere un lungo ordine del giorno appunto in vista dell’assemblea di chiesa.

Gli argomenti discussi erano molti e noi ve li presenteremo oggi.

Come assemblea di credenti siamo chiamati a discuterne e decidere il percorso che vogliamo intraprendere con un nuovo slancio.

I capi gruppi ci proporranno  piccoli cambiamenti e noi insieme ci impegneremo a portare avanti tutte le nostre attività di chiesa con l’atteggiamento del  soldato che il testo di predicazione di oggi ci propone.

Ci viene quindi in mente subito la figura di un soldato romano del  primo secolo che si rivestiva in  modo da essere protetto dal nemico che lo vuole colpire.

Cara comunità, i brani che abbiamo letto e ascoltato tratti dalle lettere dell’apostolo Paolo sono fondamentali per  essere cristiani.

L’apostolo  ricorda a noi così come alla comunità degli Efesini , di rivestirci sempre della completa armatura di Dio per non trovarsi impreparati nella vita in questo mondo.

L’armatura di Dio è un insieme di cose necessarie per proteggere un credente da ogni assalto del maligno.

In questi passi  l’apostolo ci ricorda che un cristiano è come un soldato, un guerriero  che dopo un lungo tempo preparatorio deve essere pronto a combattere.

Prima di affrontare la lotta nel  mondo esterno era necessario che avesse la preparazione corretta,  per vincere le sue battaglie in tutti i momenti della sua vita.

Quindi la sua immagine e  forza interiore devono coincidere con quella esteriore.

Allora per il cristiano per essere pronto alla lotta contro i principati, e i dominatori è fondamentale la  preparazione.

La lotta prima di essere combattuta fuori accade dentro  se stesso.

Egli deve affrontare due mondi. Perché?

Perché prima bisogna lottare nel mondo che è dentro di  se, in cui si mescolano inevitabilmente pensieri buoni e cattivi perché gli spiriti buoni e cattivi entrano nel cuore dell’uomo e diventano  parte del suo essere.

Dal cuore, lì cominciano  ad operare il potere del Dio buono e di quello malvagio.

Due mondi e due Dei che si mettono in concorrenza per vincere il cuore dell’uomo; e il frutto di  tale lotta  sarà un essere buono o uno cattivo.

Noi diciamo che l’uomo non nasce imparato,   Perciò dalla nascita impara ad essere uomo e mano mano che cresce, sono nelle mani dell’uomo la scelta di come deve vivere in questo terra.

Questo concetto è molto difficile  da capire ma si può imparare affrontando ogni giorno la realtà di questi  due mondi,  quello interno e quello esterno.

Infatti, l’apostolo Paolo ha scritto le sue lettere  alle comunità dei credenti perché essi imparassero come comportarsi in questi mondi che formano un insieme e non sono separati  e ogni momento in cui  l’ uomo deve decidere come agire deve confrontarsi con essi .

In questi due mondi il potere malvagio tende a dominare, soprattutto nei luoghi celesti cioè nei posti in cui si siedono, si incontrano i credenti per discutere i loro progetti, piani, obiettivi per fare il bene sia dentro che fuori della loro realtà quindi nella società.

Tutto ciò parte  dalla predicazione del pastore o della pastora.

Il dio potente malvagio entra nei pensieri dei credenti con  la sua potenza e non possiamo negare che ciò accada.

E’  sufficiente che si manifesti ad uno di loro per fare la sua volontà di distruggere o demolire ciò che piano piano , questo credente è riuscito a costruire per una buona causa.

Bisogna combattere i principati, i potenti, i dominatori,  soprattutto nei luoghi in cui si incontrano i credenti.

Ecco perché dobbiamo prepararci  oggi in particolare nella nostra assemblea di chiesa in cui siamo chiamati tutti a non far mancare la parola di Dio come  nostra armatura, che ci dà gli strumenti per difenderci dal male.

Chiediamo lo Spirito di saggezza e di discernimento a Dio che ci accompagni nel nostro lavoro di testimonianza di ciò che lui ha fatto per salvare questo mondo.

Purtroppo, il dio malvagio cammina e percorre la sua strada come il dio buono.

Dove si infila il dio malvagio?

Parte dal nostro pensiero dove cerca di inserirsi per ostacolare ogni programma  buono che vogliamo attuare per il bene della comunità.

Lui è capace di piantare la sua radice a partire dai nostri progetti, dai nostri obbiettivi più alti per fare un percorso che viaggia parallelamente con quello del Dio della verità e della giustizia.

Non è facile dunque  combattere perché lo spirito malvagio è pronto a fare quello che è perennemente il suo scopo ossia di sottomettere il cristiano.

Per questo motivo che  il credente deve  cercare la forza nella fede in Gesù Cristo che ha dato la sua vita perché il credente viva, perché resti saldo, perché  resista e perché non cada.

L’apostolo Paolo ha sperimentato nel suo vissuto di  credente e ministro della parola tutto quello che ha scritto alle comunità affinché siano ammonite ed esortate a non perdere la  speranza.

E egli dice: <<Noi abbiamo questo tesoro in vasi di terra, affinché questa grande potenza sia attribuita a Dio e non a noi. Noi siamo tribolati in ogni maniera, ma non ridotti all’estremo; perplessi ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; atterrati, ma non uccisi; portiamo sempre nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo; infatti noi che viviamo siamo sempre esposti alla morte per amore di Gesù, affinché anche la vita di Gesù si manifesti nella nostra carne mortale>> 2 Corinzi 4,7-12.

L’apostolo Paolo quindi ci ammonisce e ci esorta oggi a non dimenticare mai l’armatura di Dio che dobbiamo indossare sempre per essere pronti a combattere lo Spirito maligno.

L’apostolo dice:<<prendete la verità per cintura dei vostri fianchi>>

Ci cingiamo della verità di Dio. La verità che Dio è unico; Lui  ha creato tutto e tutti. Egli dona tutto a tutte le sue creature, dona a tutti senza favoritismi. Chiunque può essere interpellato per testimoniare la volontà di Dio.

Dunque,  la verità è l’aderenza assoluta all’evangelo; e  come cintura, permette piena libertà di movimenti nell’azione contro la menzogna.

L’apostolo dice: <<rivestitevi della corazza della giustizia>>

Ci rivestiamo della corazza della giustizia di Dio come  scudo, facciamo apparire davanti a noi il giusto giudizio di Dio che abbiamo imparato. Pratichiamo sempre di più l’uguaglianza, e siamo pronti a difendere la causa di molte persone che spesso subiscono discriminazioni. Difendiamo i diritti di molti e non solo  i nostri interessi.

Dunque, la giustizia indica, nei rapporti umani, un comportamento conforme alla volontà di Dio, che come corazza, rende inattaccabile il credente.

L’apostolo dice: << mettete come calzature ai vostri piedi lo zelo dato dal vangelo della pace>> Portiamo ovunque la buona notizia che è parola di riconciliazione e  non di divisione. Cerchiamo di comprendere meglio le nostre varie realtà essendo  figli dell’unico Dio e così superiamo le barriere che si manifestano giorno per giorno.

In Italia sono molte le razze, tradizioni, lingue e culture che si incrociano. Bisogna formare le persone affinché  ognuno/a di noi arrivi ad avere consapevolezza che Dio  ha voluto creare gli esseri umani di cultura diversa affinché nascano  nuove cose.

Dunque, l’annuncio della pace nell’Evangelo e della riconciliazione in Cristo, deve essere portato ai lontani e ai vicini.

Il credente è chiamato a farsi carico della difesa della pace e della riconciliazione là dov’è c’è lotta e ci sono  tensioni e divisioni.

Gesù disse: <<sono beati  quelli che  si adoperano per la pace>>. Mt.5,9

L’apostolo dice: << prendete oltre a tutto ciò lo scudo della fede, con il quale potrete spegnere tutti i dardi infocati del maligno>>

Portiamo come difesa la nostra fiducia in Dio  contro il dubbio e la paura che in questo mondo vengono annunciati ogni giorno perché è difficile vedere un futuro positivo. Dio, però,  continua a costruire con noi un futuro, così come è stato per i nostri antenati e sarà per le generazioni future. Ogni giorno diventa un pezzettino di futuro quando c’è un cambiamento che è frutto della fiducia che abbiamo in lui e nella sua bontà infinità.

Dunque, la fede è confessione di Cristo come Signore, ma è anche atto di fiducia e come tale è paragonato allo scudo, strumento di protezione che dà sicurezza, ma è allo  stesso tempo una forza per spegnere e, annullare l’offensiva del maligno.

La fede in Dio ti protegge quando tu sei tentato di dubitare.

L’apostolo dice: <<Prendete anche l’elmo della salvezza e la spada dello Spirito, che è la parola di Dio>>

La salvezza è l’opera che Dio compie per noi per mezzo di Cristo. E’ il dono della sua grazia, l’integrazione nel suo corpo. Essa è offerta come elmo, segno di distinzione, nonché di protezione.

La parola di Dio è definita parola della verità, evangelo della salvezza.

Essa è l’unica arma offensiva.

Il credente riceve dallo Spirito la possibilità e la capacità di usare la parola di Dio.

Noi siamo stati  saldi fino adesso perché Dio ci ha fornito tutto l’equipaggiamento necessario  per combattere.

Non dimentichiamo queste cose che ci servono per la nostra vita oggi .

Vegliamo! Rivestiamoci e guardiamoci bene perché  se dimentichiamo di indossare tutto quello che ci occorre per essere un soldato di Dio, il diavolo  coglie subito la nostra impreparazione.

Siamo la sua preda e lui gioisce davanti a Dio  quando riesce a vincere in ogni situazione, o circostanza in cui siamo di fronte ad una scelta.

La nostra libertà donata da Dio è compromessa dal momento che si mette in gioco la sua opera ingannatrice.

Aiutiamoci a ridestare la nostra fede in Dio per  conquistare il vero senso del nostro vivere ovunque siamo.

Siamo fortificati in Cristo Gesù e nella forza della sua potenza.

La forza di Dio che si irradia in noi rivela che lui vince il male con il bene che ha sparso nei nostri cuori.

Dietrich Bonhoeffer dice: <<Io credo che in ogni situazione critica Dio vuole darci tanta capacità di resistenza quanto ci è necessaria.

Ma non ce la dà in anticipo, affinché non facciamo affidamento su noi stessi, ma su lui soltanto. In questa fede dovrebbe essere vinta ogni paura del futuro>>. Così sia.

 

past. Joylin Galapno

Nessuno è straniero

9 ottobre 2016

Luca 17,11-19

Nella notte tra il 2 e il 3 ottobre nel 2013 vicino le coste lampedusane affondò una cosiddetta ‘carretta del mare’ su cui erano stipati tantissimi uomini, donne e bambini. Ne morirono 366!

Questa strage colpì al cuore l’Italia e l’Europa tutta così fu istituita la giornata nazionale delle vittime dell’immigrazione mentre il presidente della Commissione Europea, Juncker, si recò a Lampedusa per dire “Mai più morti nel Mediterraneo”. Ma da allora a oggi sono morte altre undicimila persone, 3.500 solo nel 2016.

Nel ricordare queste tragiche morti nel Mediterraneo il 3 e 4 ottobre sono stati trasmessi film e documentari sul tema. Il grande scrittore Camilleri in un docu-film ha detto qualcosa che mi ha fatto riflettere: “oggi la parola straniero ha perso ogni valenza positiva, non indica più un portatore di novità ma di insicurezza e di terrore”.

Anche in questo brano si parla di uno straniero, uno straniero che vive ai margini della società israelita del tempo perché lebbroso, come lebbrosi sono gli altri nove che sono ebrei e che trovano in Gesù la guarigione. Ma quest’uomo poiché non solo è lebbroso, ma pure straniero, è emarginato tra gli emarginati.

Anche il luogo dove avviene questa guarigione è zona di passaggio, di transito per stranieri, tra la Samaria e la Gallilea.

È terra e momento di passaggio anche per Gesù perché il brano nel vangelo di Luca è collocato nella fase finale del suo ministero terreno: egli sta salendo verso Gerusalemme, così recita il testo in greco.

Egli sta lentamente avviandosi con i suoi discepoli verso il culmine del suo cammino fisico e simbolico: salire verso Gerusalemme significa per lui accingersi all’ultimo atto terribile della sua vita, salire verso la croce.

Eccoci fratelli e sorelle, è in questo contesto e dopo aver annunciato ai suoi già per due volte la sua Passione che Gesù incontra i dieci lebbrosi.

Essere lebbroso all’epoca di Gesù significava l’esclusione totale da ogni rapporto civile, sociale, umano a parte ovviamente chi si trovava nella stessa condizione tanto che si formavano delle vere e proprie comunità di derelitti in cui le differenze sociali ed etniche erano annullate, livellate dalla terribile malattia che li costringeva a vivere di elemosina!

Credo che un qualcosa di simile accada ancora oggi quando per vari motivi ci si trova a vivere per strada, senza una casa, senza una famiglia e una società che ti sostenga, senza dignità, sei un barbone, un senzatetto, sei solo questo italiano o straniero che tu sia!

Tornando al testo quanto detto spiega come sia possibile che nove lebbrosi ebrei vivano con un samaritano che per loro era molto più di un semplice straniero.

I samaritani erano per gli ebrei una razza deprecabile perché considerati eretici, mentre dal canto loro i samaritani si consideravano i veri possessori della Torah.

Tra i due popoli vi erano stati anche atti di guerriglia, incursioni nei territori e saccheggi di luoghi sacri…

Come somiglia questa situazione a quanto avveniva tra cattolici e protestanti durante la guerra dei Trent’anni nel seicento oppure in Irlanda durante il 19simo secolo!

Come somiglia a quanto accade tra ebrei e palestinesi ancora oggi!

Eppure dinanzi la malattia come dinanzi Gesù questi odi, queste differenze e separazioni perdono di significato, rimane solo il bisogno comune di guarigione, di salvezza da una vita segnata dall’esclusione e dalla perdita di dignità.

Ed ecco che questi 10 uomini, nel rispetto dei dettami della Torah (Lev. 13,4ss), chiedono da lontano a Gesù: “Maestro, abbi pietà di noi!”

Sorelle e fratelli è lo stesso grido di dolore, la stessa preghiera che si eleva dalle nostre bocche quando chiediamo a Dio di essere perdonati per il nostro peccato.

E non è un caso!

Infatti, nel mondo antico la malattia era vista come espressione fisica del peccato, quindi guarigione dalla malattia era pure espressione di salvezza, dell’essere nuovamente benedetti da Dio.

Ebbene Gesù in questa sua azione di guarigione agisce diversamente dal solito: normalmente all’attestazione di fede segue la guarigione, qui invece l’avviarsi con fiducia verso un sacerdote per farsi attestare la guarigione avvenuta è essa stessa espressione di fede!

Se le cose stanno così perché allora Gesù è rammaricato dal fatto che i nove ebrei non tornano indietro a ringraziarlo? Perché al solo samaritano che torna indietro glorificando Dio e gettandosi ai piedi di Gesù è detto “Alzati e va; la tua fede ti ha salvato”?

Si potrebbe forse dire che è più facile per Gesù guarire gli esseri umani dalla malattia che guarirli dall’ingratitudine!

Ma ciò che davvero lo rammarica è che questi nove siano ebrei, coloro ai quali lui aveva pensato di dover volgere il suo messaggio di salvezza.

Certamente nel racconto, com’è strutturato dal vangelo di Luca, vi è la volontà di rendere conto dell’inserimento dei non ebrei, dei pagani nel piano di salvezza di Dio.

Sicuramente vi è una polemica con il popolo ebraico che non ha accolto Gesù come il Messia atteso, ma credo che nel racconto di guarigione vi sia anche qualcos’altro che parla direttamente a noi, alla nostra attualità di vita e di fede.

I dieci lebbrosi hanno mostrato di attenersi alla Torah nel tenersi a debita distanza dai sani e quindi anche da Gesù. Ma Egli a sua volta risponde loro attenendosi alla Legge e mandandoli dal sacerdote per farsi attestare la purificazione avvenuta, solo strumento possibile per essere reintegrati nella società, per poter tornare alle loro famiglie.

Allora è facile capire la fretta che costoro hanno nell’andare dal sacerdote per essere puri non solo dinanzi a Dio, ma soprattutto dinanzi agli esseri umani.

Ed ecco il punto dirimente: tra i dieci uomini che si trovano nella stessa condizione, ve n’è uno che sceglie una priorità differente da quella degli altri nove.

Lui andrà dal sacerdote, ma successivamente: prima di recarsi dai sacerdoti, prima del reintegro religioso e sociale vi è qualcuno da ringraziare pubblicamente per la salvezza avvenuta.

Quest’uomo ha scelto e compreso che è necessario prima di ogni istituzione umana, seppur religiosa, glorificare Dio per la guarigione, glorificare Dio per avergli ridato vita, una vita dignitosa!

E Gesù è strumento di questa salvezza, ancora di più Egli è l’incarnazione del Regno di Dio e va accolto e glorificato qui ed ora.

Ma cosa vuol dire questo per noi sorelle e fratelli?

Nel Sinodo metodista e valdese di quest’anno uno dei temi che ci ha maggiormente coinvolti è se le nostre comunità sono ancora in grado di dire qualcosa ai suoi stessi membri e alla società. Come si è espresso il pastore Paolo Ribet nel sermone del culto di apertura, è la preoccupazione che la nostra chiesa sia vittima dell’astenia, in torpore, e che i suoi membri siano tiepidi.

Io conosco le tue opere: tu non sei né freddo né fervente. Oh fossi tu pur freddo o fervente! Così perché sei tiepido e non sei né freddo né fervente io ti vomiterò dalla mia bocca!

Così si rivolgeva l’Amen, il principio della creazione di Dio all’angelo della chiesa di Laodicea in Apocalisse…chissà se si rivolgerebbe allo stesso modo alla nostra chiesa?

Questa è per noi questione fondamentale: stiamo facendo noi la scelta fatta dal lebbroso samaritano? Noi glorifichiamo Dio per quanto fa nella nostra vita?

Abbiamo fatto noi quel mezzo giro fisico e simbolico che segna la conversione a Dio e che ha portato l’uomo a volgersi a Dio per mettere lui, il Dio della vita e della salvezza, al primo posto nelle sue priorità?

Abbiamo fatto e facciamo noi dell’annuncio pubblico della salvezza in lui trovata l’elemento imprescindibile della nostra fede che orienta e sostanzia ogni nostra azione concreta nel quotidiano?

Care sorelle e cari fratelli siamo all’inizio di un nuovo anno ecclesiastico, stiamo riprendendo le nostre attività, allora cerchiamo di farci ispirare dalla scelta del lebbroso samaritano nel nostro cammino nella certezza che il nostro Dio misericordioso ci riprende e corregge per riportarci alla vera vita.

“Tutti quelli che amo, io li riprendo e li correggo; sii dunque zelante e ravvediti. Ecco, io sto alla porta e busso: se qualcuno ascolta la mia voce e apre la porta, io entrerò da lui e cenerò con lui ed egli con me.” (Ap. 3,19-20)

Amen

Past. Mirella Manocchio

Tra libertà e responsabilità

25 settembre 2016

Romani 14,13-19

Care sorella e fratelli,

eccoci confrontati con un brano di una lettera che l’apostolo Paolo aveva rivolto alla comunità cristiana di Roma. Che bella coincidenza!

Certo ho avuto qualche perplessità a scrivere un sermone su questo testo ad una chiesa nella quale sono appena giunta mentre Paolo si rivolgeva ad una chiesa che conosceva bene, di cui sapeva la storia e la composizione e di cui comprendeva le dinamiche interne.

Per me non è ovviamente così, ma credo che ugualmente le parole dell’apostolo siano molto attuali e possano aiutare noi tutti nella riflessione.

Ancora una volta l’apostolo è chiamato a dirimere controversie e dispute nate nel seno di comunità cristiane cercando di offrire una risposta in termini pastorali, ed ancora una volta, come era già successo a Corinto, la comunità si presenta divisa in due gruppi: i deboli ed i forti nella fede.

Differenti sono le opinioni di esegeti e storici su come identificare i due raggruppamenti, ma generalmente si propende per identificare i “forti nella fede” con cristiani che si sentono liberati dai vincoli a leggi alimentari, all’osservanza di digiuni o di particolari giorni sacri; mentre i deboli con coloro che ritenevano che l’ubbidienza a prescrizioni alimentari e rituali fosse una parte integrante della loro risposta di fede a Gesù Cristo, pur se non finalizzata al raggiungimento della salvezza.

Al di là di come identificare i due gruppi, la discussione che qui prende corpo sembrerebbe contrapporre due fronti: uno legato ancora all’asservimento alle leggi di purità ed un altro liberato da queste costrizioni rituali che guarda alla vita del Regno.

Insomma qui sembrerebbe esservi uno scontro tra libertà e asservimento nella fede. Ed è significativo che ‘un giorno una parola’ indichi tale brano per questa domenica se pensiamo che in questa data nel 1870 proprio qui, nella Roma appena liberata dal potere temporale dei papi, è stato celebrato il primo culto evangelico pubblico nella città.

Ma se leggiamo più attentamente questo testo ci rendiamo conto che l’accento è posto maggiormente nel rapporto tra libertà e responsabilità.

Paolo si schiera chiaramente con i forti, con chi ha in amore la libertà in Cristo Gesù, ma ricorda a costoro la necessità di non provocare scandalo nei deboli per evitare che questa sia occasione di caduta al fratello o alla sorella e quindi di distruzione della comunione. Proprio coloro che si ritengono forti nella fede, adulti al confronto di altri che sono ancora come bambini, sono quelli chiamati ad assumersi perciò stesso una maggiore responsabilità.

Al contempo, però, non dice a costoro che la soluzione risiede nell’accettare tout court l’osservanza di tali precetti alimentari e di particolari festività per compiacere i deboli.

La chiesa che Paolo prospetta ai romani è una comunità in cui è operante la diversità riconciliata tra i credenti in virtù della comune appartenenza a Cristo: «Nessuno di noi infatti vive per se stesso, e nessuno muore per se stesso; perché, se viviamo, viviamo per il Signore, se moriamo, moriamo per il Signore. Sia dunque che viviamo o che moriamo, siamo nel Signore» afferma al versetto 7.

L’apostolo in realtà ammonisce gli uni e gli altri, rei di aver intaccato lo spirito di fratellanza che deve animare i membri della comunità cristiana il cui centro di unità è il rapporto totalizzante con Cristo, l’appartenenza a lui.

Se volessimo porre in parallelo le situazioni descritte nel brano di Romani e le nostre esperienze comunitarie forse avremmo qualche difficoltà nell’individuare i due gruppi poiché ognuno ed ognuna di noi ritiene a buon conto di essere forte nella fede, ed anche perché nel nostro ambito difficilmente si trovano gruppi legati a prescrizioni alimentari e a festività.

Ciò non toglie che tra noi permangano diverse sensibilità teologiche e liturgiche legate pure ad ambiti culturali e nazionali differenti, opinioni e modi diversificati di portare avanti la propria vocazione, magari una divisione tra chi vuole esprimere la propria testimonianza in ambito cultuale e di preghiera e chi invece vede anche l’impegno politico come espressione del proprio vissuto di fede.

Il punto centrale di Paolo, comunque, rimane: non un’uniformità che appiattisce, ma la solidarietà tra diversi deve caratterizzare la comunità cristiana, la mutua accoglienza in cui i deboli e i forti devono sapersi accettare come fratelli e sorelle nella loro alterità.

«Vivere vuol dire essere in solitudine. Nessun uomo conosce gli altri. Ogni uomo è solo»

È un’affermazione lapidaria e priva di speranza questa di Hermann Hesse, ma ad ogni buon conto ci sentiamo di dire che non sia del tutto vera?

Pensiamo un momento alla realtà che ci circonda, alle sfide epocali emerse con la globalizzazione: la tecnologia ci permette di essere in contatto con tutti in ogni parte del globo eppure aumenta il numero di coloro che muoiono in solitudine senza che nessuno se ne accorga; oggi è possibile raggiungere con voli velocissimi nazioni e continenti a noi lontanissimi eppure vi sono uomini e donne che per attraversare un lembo di mare o scavalcare un muro perdono la vita.

Nella moda, nella musica e nel cibo si mescolano colori, suoni e profumi di tutto il mondo eppure vediamo quanto sia difficile accogliere e rispettare la diversità vivente dell’altro quando ci tocca!!!

E nelle nostre chiese? Pensiamoci!

Sicuramente è più facile ed offre maggior sicurezza accogliere e dialogare chi è a noi simile secondo l’adagio “il simile ama il suo simile” e quando ciò non può avvenire, ecco allora emergere un atteggiamento di giudizio, una reazione colma di paura. È questa paura la radice del razzismo, dell’emarginazione, della censura di opinioni differenti e discordanti.

«Accoglietevi gli uni gli altri, come anche Cristo vi ha accolti per la gloria di Dio» è invece la risposta conclusiva del ragionamento di Paolo nel capitolo 15 ed anche se qui la terminologia dell’amare non compare in modo esplicito, l’accogliere a cui l’apostolo si riferisce in contrapposizione al giudicare, mi pare che si muova lungo la stessa direttrice.

E qui l’apostolo utilizza non a caso un imperativo perché questa non è una possibile opzione tra le altre, ma è una scelta di campo basilare e su questa sì che si gioca l’aderenza o meno alla fede rivelata da Gesù Cristo.

Accogliete nel pieno rispetto chi è diverso, non solo chi è simile a voi – viene affermato con forza –  perché Dio stesso ha operato proprio così nei vostri confronti.

Lui, l’Altro per eccellenza, ha voluto condividere la nostra alterità nei suoi confronti in Gesù Cristo fino a soffrire e morire come uno di noi, per poi risorgere e così accoglierci come fratelli e sorelle rinati e innalzati alla gloria di Dio.

Questo pone ognuno di noi dinanzi ai propri limiti e al tempo stesso offre un nuovo orientamento per spezzarli, così da permettere ad ognuno di noi di saltare al di là della propria ombra e di capire con chi gli è prossimo che – come dice Bohnoeffer – <<sia lui sia io non possiamo vivere in nessun modo delle nostre parole e azioni, ma solo dell’unica parola ed azione che ci unisce nella verità, cioè la remissione dei peccati in Gesù Cristo >>.

Ma un altro punto vorrei sottolineare del discorso di Paolo che, secondo me, ci potrebbe permettere di avere uno sguardo alto e altro sulla questione.

Quando l’apostolo Paolo afferma in modo lapidario che “il Regno di Dio non consiste né in vivanda né in bevanda, ma è giustizia, pace e gioia nello Spirito santo” offre a noi cristiani di ogni tempo e luogo l’opportunità di sollevare il capo dalle nostre a volte sterili dispute, dalle nostre controversie liturgiche e cultuali per porre lo sguardo verso l’orizzonte del Regno e il cammino che questo traccia per noi tutti.

Ed è solo su questo terreno che ognuno di noi può incontrare l’altro, su un terreno dove gioca solo l’amore di Dio che spinge noi tutti ad assumerci la responsabilità dell’altro in tutta la sua interezza, senza fermarci al solo ambito comunitario, ma operando secondo tale prospettiva anche in quello societario.

Amen 

Past. Mirella Manocchio