Il ribelle e il bigotto

Lc. 15, 1-3. 11-31
Immaginatevi che un gruppo di persone della comunità, mentre si reca allo studio biblico, veda in un bar la pastora che si fa un bicchierino un po’ forte insieme alle prostitute del quartiere. Sarebbe un bel colpetto. Poi però qualcuno penserebbe: Sì, forse ha esagerato un po’, ma è per il loro bene. Parlando con loro, può convertirle. Supponiamo però che la pastora risponda: Veramente io sto con loro perché mi sono simpatiche. E già che ci siamo: siete proprio sicuri che siano loro, le prostitute, che si devono convertire? Magari siete voi che siete mal messi con il buon Dio e dovreste darvi una regolata.
Non credo che il gruppetto della chiesa la prenderebbe molto bene. Proprio questo, però, è quello che secondo Luca vuol dire Gesù. Non un discorsetto edificante sull’amore di Dio, bensì un pugno nello stomaco delle persone per bene convinte che le altre siano per male.
La nostra parabola ha ricevuto, nella storia della chiesa, vari titoli: “Il figliuol prodigo”, probabilmente il più diffuso; “Il padre misericordioso”; “I due fratelli”. Potremmo aggiungerne un altro: “Vite contrapposte. Due modi di intendere ll’esistenza,, due “progetti”, diremmo oggi, che sembrano prendere direzioni diametralmente opposte. Vediamole.
Il “figliuol prodigo”, il trasgressivo. Quali sono le sue motivazioni? Un famoso poeta sostiene che il ragazzo aveva bisogno di non essere amato. Il racconto non offre indicazioni chiare, ma la congettura sembra un po’ astratta, filosofica. Più semplice e diretta la tesi di suo fratello: ha voluto sperperare tutto quanto con le prostitute. Forse si tratta di una semplificazione, ma ha il merito di limitarsi ai crudi fatti.
Farsi liquidare anticipatamente l’eredità (un terzo del patrimonio paterno, nel caso del figlio minore) era in teoria giuridicamente possibile, ma rappresentava una richiesta estrema, considerata offensiva nei confronti del genitore; anzi, la saggezza ebraica invitava quest’ultimo a rifiutare; già il libro dei Proverbi, del resto, sa che «l’eredità acquistata in fretta non sarà benedetta alla fine» (20,21). Il racconto vuole che ci immaginiamo in modo vivido il compiersi di questa profezia di sventura: dapprima la voglia compulsiva di spendere, poi la carestia, la necessità di accettare un lavoro ritenuto particolarmente ripugnante e religiosamente impuro, fino all’estremo di dover desiderare, invano, il cibo dei maiali. Il testo resta ambiguo sulle motivazioni del ripensamento. Il ragazzo si pente in senso morale? Una lunga tradizione interpreta in questa senso, compreso il nostro inno con musica di Mendelssohn. La faccenda, tuttavia, non è affatto chiara e, anzi, il v. 17 sembra suggerire un calcolo: in ogni caso, da mio padre mi andrà meglio. Il giovane, però, si conquista un certo rispetto da parte di chi legge preparando un discorso sobrio, che non accampa scuse né cerca di edulcorare la situazione.
Veniamo alla vita contrapposta, il figlio maggiore. Di lui sappiamo, essenzialmente, quello che ci dice egli stesso, che cioè è stato un figlio per bene e senza grilli per la testa. Colpisce il vocabolario utilizzato dal giovane: per anni ha servito il padre, senza trasgredire alcuno dei suoi ordini (la parola è la stessa che indica i comandamenti). Egli si muove in un universo rigidamente gerarchico il che, secondo il racconto, gli impedisce di comprendere il proprio rapporto col padre («ogni cosa mia è tua»: ma il ragazzo non se n’era accorto) e, soprattutto, lo spiazza di fronte al fatto che il padre vive secondo un’altra logica. La storia è costruita in modo da presentarci il giovanotto in modo poco simpatico. Tuttavia ci possiamo chiedere: come mai aveva interpretato la vita familiare in termini militari? Se l’era sognato lui, oppure il padre l’aveva, diciamo, aiutato a fraintendere la situazione? Non lo sappiamo. Fatto sta che egli ha costruito il suo rapporto sull’obbedienza alle regole, l’esatto contrario di suo fratello. Vite contrapposte, come dicevamo.
Con ciò, però, siamo ancora alla superficie di questo rapporto a tre. Dietro l’apparente contrasto tra le vite dei fratelli, vi è un parallelismo assai più importante: entrambi i figli sono ciechi di fronte all’amore del padre; entrambi comprendono il rapporto con lui come oppressione, solo che uno si ribella, mentre l’altro subisce. Le vite dei due giovani sono opposte, ma il rapporto con il padre è meno diverso di quel che sembra a prima vista. Il senso di oppressione è comune. Da una parte il ribelle, che manda a quel paese il padre e le buone regole; dall’altro l’obbediente, che però si fa il fegato marcio e sotto sotto invidia le prostitute di quell’altro, le vorrebbe anche lui, gli sembrano un’espressione di libertà, ma non ha il coraggio. Sono entrambi come un tappo che sta per saltare. E salta, in effetti: per il figlio minore, quando decide di andarsene; per l’altro, quando il ritorno del fratello è accolto dal padre come il più grande dei doni. Sintomi diversi della stessa malattia: l’incapacità radicale di comprendere l’amore di questo padre e in fatto che la sua casa è un luogo di vita e di libertà, non un campo di lavori forzati.
E Gesù chiede ai bravi israeliti che lo ascoltano, e chiede a noi ora: e voi, con tutta la vostra religione, da che parte state? Siete tra quelli che pensano che Dio li metta alla prova, voglia vedere se sono proprio così bravi come dicono, così obbedienti, così fedeli? E che magari, sotto sotto, non ne possono più di questo Dio, dei suoi precetti e dei suoi obblighi, e invidiano “gli altri”, che sembrano più liberi di vivere una vita interessante, con tante belle cose che a loro, a noi, sono negate (da Dio!)?
La domanda di Gesù è stata ben capita dai suoi interlocutori, che non l’hanno presa bene. Semplificando un po’, si potrebbe osare dire che Gesù è stato ucciso proprio per questa domanda: per il suo sospetto, esplosivo, destabilizzante, che le persone della religione, tutte casa e chiesa, non sono più vicine a Dio di quelle che frequentano i bordelli. gli uni e gli altri sono diversi in tutto meno una cosa: la volontà profonda di sbattere la porta in faccia a Dio.
Gesù, però, dice anche un’altra cosa, se possibile ancora più importante, se possibile ancora più esplosiva. Che Dio, Dio stesso, quella porta la tiene aperta. Per le persone per bene e per quelle per male. La vita vera, dice Gesù, non è nei bordelli, certo; ma non è neanche nell’esistenza bigotta che critica gli altri per sopportare la propria mediocrità. La vita vera è resa possibile dalla porta tenuta aperta da Dio, per entrambi i figli. Il racconto non dice se il maggiore, l’uomo per bene, voglia entrare alla festa. Il padre, però, lo desidera molto ed è per questo che ci è concesso di avere speranza.
Amen.
prof. Fulvio Ferrario

Giovani metodisti. La cura dell’ambiente è prioritaria

Nell’ambito del progetto internazionale delle chiese metodiste, in vista della Conferenza sul clima COP26, le nuove generazioni chiedono un impegno maggiore di governi e comunità

Roma (NEV), 17 giugno 2021 – “La sfida della cura dell’ambiente è un dovere collettivo e universale che appartiene a tutta l’umanità”. Questa è una delle dichiarazioni raccolte dai giovani metodisti, nell’ambito della campagna “Climate Justice for All” (CJ4A).

In italiano, il progetto si chiama “Giustizia climatica per tutte e tutti” e invita le comunità metodiste in tutto il mondo a impegnarsi per il clima. Obiettivo del progetto, accompagnare e sensibilizzare governi e comunità in vista della Conferenza sul clima delle Nazioni Unite COP26 prevista a novembre.

Giovani metodisti di tutta Italia hanno raccolto, negli scorsi mesi, messaggi e dichiarazioni. Ne emerge una forte motivazione, che non si limita alle parole, ma vuole dare un contributo concreto.

Le minacce al clima

Le nuove generazioni hanno ben chiare le minacce per il clima. Dall’uso eccessivo di sostanze tossiche, alla deforestazione. Dall’inquinamento delle acque, alle molte altre attività umane che “rischiano di causare danni irreparabili”.

Nel denunciare la negligenza diffusa, le ragazze e i ragazzi scrivono: “Nonostante le numerose battaglie, le numerose prove scientifiche a portata di mano, ancora oggi i Governi e le chiese non stanno affrontando il problema della crisi climatica come un’emergenza”.

E aggiungono: “In quanto Paese con alte emissioni di gas serra, dobbiamo supportare coloro nel mondo che sono più vulnerabili a questa crisi”.

Dalle parole ai fatti

 Nel documento della campagna CJ4A che raccoglie le dichiarazioni, si legge inoltre: “Chiediamo e ci impegniamo affinché, in questo cammino verso la COP26 e oltre, tutte le chiese metodiste siano dapprima consapevoli di questo tema e si assumano l’impegno di renderlo parte integrante dell’attività delle chiese, e di non trattarlo solo in occasione di eventi, ma sempre, perché abbiamo bisogno di tutte le nostre forze per garantire un presente migliore e un futuro per le prossime generazioni”. E ancora: “Lottiamo e ci impegniamo per la giustizia climatica non solo per noi stessi/e, ma per le creazioni meravigliose di Dio e dell’umanità nella sua storia. Per esempio, l’equilibrio degli ecosistemi, che ci incanta, è una condizione per la sostenibilità, la sopravvivenza e la preservazione delle cose create. Noi ci battiamo perché ne va del futuro della vita sul pianeta e del nostro domani, e perché abbiamo molto da perdere. Ricordiamo che siamo parte degli ecosistemi, responsabili della loro integrità e della distruzione della biodiversità”.

Le giovani e i giovani metodisti hanno iniziato inoltre ad applicare e divulgare alcune buone pratiche che ciascuno, nel suo piccolo, può fare sue. Fra queste: il rispetto per il Creato. La riduzione dei rifiuti e della plastica. La partecipazione attiva a movimenti e associazioni impegnati sulle questioni ambientali. Firmare petizioni e informarsi. Intraprendere un percorso per diventare “eco-comunità”.


CJ4A

La campagna CJ4A ha visto il suo avvio ufficiale internazionale lo scorso aprile e ha già portato all’attenzione una serie di video-denunce sulla situazione climatica nel mondo. In Italia, il progetto è portato avanti dall’Opera per le chiese evangeliche metodiste in Italia (OPCEMI), in collaborazione con la Commissione globalizzazione e ambiente (GLAM) della Federazione delle chiese evangeliche (FCEI). Essa coinvolge diverse nazioni, con 5 Paesi capofila: Uruguay, Zambia, Fiji, Gran Bretagna e Italia.

Il dolore della vita sulla via per Emmaus

Il dolore è una costante della nostra vita. Tutti e tutte noi, inevitabilmente, ci troviamo a provare sofferenza. E, a volte, il dolore è talmente forte da renderci non solo le nostre menti disilluse ma anche i nostri occhi ciechi. Questa sorta di apatia provocata dalla consapevolezza della sofferenza nella nostra esperienza ci pone come un velo nero davanti agli occhi che non permette di vedere nessuna consolazione. Questo è quello che è accaduto ai discepoli sulla strada per Emmaus. Seguaci del Signore Gesù Cristo, sì, ma pur sempre esseri umani. I discepoli sono talmente accecati dal dolore della perdita che non riescono a rendersi conto di chi hanno davanti, di quale consolazione quella presenza potesse realmente portare loro. Gesù è morto, è stato ucciso con una morte atroce, la crocifissione, e quella vista li ha talmente annebbiati da non rendersi conto che in realtà il Cristo è risorto, è risalito dal soggiorno dei morti ed è davanti a loro.

Anche noi, spesso, viviamo con un senso di attesa che è in sé “attesa sterile”: un sentimento di sospensione, che ci porta a pensare che non ci sia nulla da aspettare; nulla di bello, nuovo, o positivo da attendere. L’annuncio dell’Evangelo diventa così per sua natura in-atteso, non solo nel senso che ci travolge nel suo essere stupefacente, come stupefacente può essere una sorpresa ben architettata, ma è in-atteso nel senso che non lo stavamo aspettando, non lo stavamo, o forse non lo stiamo, più aspettando in un momento in cui prendono il sopravvento lo sconforto, il lutto e lo smarrimento, le ansie per il presente o per un futuro che sembra non poter essere diverso da come è.

Schiacciati da un lutto sono anche i due discepoli, senza più prospettive e speranze, che appartengono ormai solo al passato v21: “Noi speravamo che fosse lui che avrebbe liberato Israele; invece, con tutto ciò, ecco il terzo giorno da quando sono accadute queste cose”. E in questa condizione di non attesa, di focalizzazione su quello che non può più essere, né può più accadere, i discepoli non riconoscono che quello che attendevano e “faceva loro ardere il cuore” è già lì accanto a loro.

In effetti, uno dei tratti distintivi di questo testo risiede nel mancato riconoscimento di Gesù da parte dei due discepoli per quasi tutto il corso della narrazione. Ma anche questa è spesso e tristemente la condizione di molti cristiani e cristiane che, trasversalmente a tutte le confessioni, pur frequentando con assiduità le Sacre Scritture, le occasioni di culto comunitario e i sacramenti, di fatto vivono come se Gesù non fosse altro che il protagonista di una storia, per quanto importante, finita molto tempo fa, o eventualmente collocano il Signore Gesù in una prospettiva di religiosa astrazione, iperuranica e non vicina. L’aspetto preoccupante di questa miopia religiosa si traduce nella difficoltà a riconoscere Cristo nelle nostre relazioni personali, nella nostra comunità come al di fuori di essa, e rischia di compromettere seriamente la credibilità di qualunque testimonianza cristiana verso l’esterno.

Gesù è fisicamente accanto a loro, è lì presente, ma essi non riescono a vedere. Eppure, nonostante la nostra miopia, Dio nella sua infinità bontà ci viene incontro e prova instancabilmente a fare breccia nel nostro cuore per accendere in noi la luce della fede.

“Resta qui con noi, il sole scende già” a prima vista e fuori dal contesto, questa frase può sembrare una richiesta di aiuto rivolta a Dio. I discepoli, al contrario, nel rivolgere questo invito a Gesù credono di far lui un favore, credono che sia lui ad avere bisogno di protezione, vogliono offrire un riparo per la notte, non vogliono lasciare solo uno straniero. In realtà non sanno che sono loro stessi ad aver bisogno di lui. Quante volte ci capita di aiutare una persona e scoprire di aver ricevuto più di quanto si sia dato. Questo è un miracolo ogni volta sconvolgente: Quando mi volgo ad aiutare qualcuno o qualcuna inconsapevolmente, ma a volte anche consapevolmente, inorgoglisco all’idea che qualcuno abbia bisogno di me, mi riempio di vanto pensando: “quanto sono brava, ho aiutato chi aveva bisogno, ho seguito gli insegnamenti di Cristo”. Dura un attimo, il tempo esatto di capire che non avevo capito nulla, il tempo necessario per  rendermi conto di essere molto più fragile che forte, molto più bisognosa di aiuto di quanto pensassi; a quel punto, quando nulla è andato come previsto, ecco che tutto si risistema e acquista senso.

Forse è questo quello che è accaduto ai discepoli di Emmaus, il loro invito si è dimostrato una richiesta di aiuto invece che di protezione: facendo entrare Gesù in casa con loro hanno permesso ai loro occhi di aprirsi e credere alla buona notizia che pensavano ormai passata.

E noi dove possiamo incontrare effettivamente il Signore Gesù oggi? Forse nessuno di noi ha avuto modo di fare per strada una lunga conversazione con lui, ma non per questo ciò significa che non abbiamo modo di riconoscerlo e ascoltarlo tangibilmente nella nostra vita. Tre sono infatti i luoghi in cui possiamo a tutti gli effetti incontrare il Signore. In primo luogo, nella sua Parola, ovvero nelle Scritture che ascoltiamo e che sostanziano e fondano l’annuncio della Chiesa. Banalmente, qui nel culto ogni domenica. In Secondo luogo, strettamente connesso al primo, nel sacramento della Cena. In fondo questo è accaduto agli stessi discepoli di Emmaus: È nella semplicità e nella rapidità di un solo gesto, quello di spezzare il pane, che i due discepoli comprendono e riconoscono che il forestiero con cui avevano passato lunghe ore a conversare, in realtà altri non era che il Signore stesso. Allo stesso modo, nella Santa Cena, proprio mentre speziamo il pane e beviamo il vino insieme ricordando il sacrificio di Gesù per la nostra salvezza, noi lo incontriamo nell’intimo del nostro cuore, e pur nella nostra cecità, ci viene donato di ricordarci di essere un solo corpo con il Signore, le nostre sorelle e fratelli. Ed è proprio per questa ragione, in virtù della comunione e del comandamento dell’amore che Gesù ci dato durante il suo ministero pubblico, che il terzo luogo in cui possiamo effettivamente incontrare il nostro Signore è chi è altro da noi, il nostro prossimo. Quella persona che è sempre inattesa perché non siamo noi a sceglierla. La persona che con i suoi limiti e i suoi doni ci impone la  necessità dell’incontro come scandalo e opportunità. La persona, chereca nel suo volto tutti i comandamenti: non uccidere, non rubare, non commettere adulterio, non desiderare, ama il prossimo tuo come te stesso.

Sì, sorelle e fratelli, è anche nel nostro volto, in quello di coloro che ci si siedono accanto proprio qui, anche questa mattina, che possiamo incontrare il Signore Gesù Cristo. In un altro passo dei Vangeli, in Matteo, Gesù parla del giudizio nell’ultimo giorno:34 Allora il re dirà a quelli che stanno alla sua destra: Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo. 35 Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, 36 nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi. 37 Allora i giusti gli risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere? 38 Quando ti abbiamo visto forestiero e ti abbiamo ospitato, o nudo e ti abbiamo vestito? 39 E quando ti abbiamo visto ammalato o in carcere e siamo venuti a visitarti? 40 Rispondendo, il re dirà loro: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me.

Care sorelle e cari fratelli, Cristo è davvero risorto e conosce la nostra vita e le nostre vie. Egli ci accompagna e si rivela laddove forse noi non siamo più abituate e abituati a cercarlo, ad ascoltarlo. Ma Lui c’è. La Pasqua non è quindi una storia passata, non è semplicemente una narrazione religiosa che possiamo riporre nel cassetto fino all’anno prossimo, ma è il fondamento di una speranza nuova, di una vita nuova a partire dalle nostre relazioni, a partire da quella che abbiamo con l’ascolto delle Scritture, sino a quella con il nostro prossimo. L’Evangelo di Pasqua è l’inatteso che si concretizza per proiettare la grazia di una speranza futura nella quotidianità del nostro presente, perché la nostra vita porti molto frutto. Amen.

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Giona, fuggire dalla presenza di DIo

Care sorelle e cari fratelli nel Signore,

il libro del profeta Giona è una dichiarazione tangibile, un esempio reale della verità del cammino di fede di qualcuno chiamato a compiere una specifica chiamata.

Leggendolo, anche solo una volta poiché è breve, e con solo 4 capitoli possiamo collocarlo nel contesto della portata di ciò che ha già fatto per testimoniare l’opera salvifica di Dio a noi oggi. Giona si traduce in colomba che significa un messaggero.

Egli è figlio di Amittai che significa verità. Quindi Giona era un messaggero della verità.

Il centro del suo fuggire dalla presenza di Dio  risiede un atteggiamento di paura di avere una fede scarsa, senza però potersi nascondere da Lui in alcun modo.

Rowena e d io, abbiamo  discusso sulla vocazione rivolta a  Giona da Dio.

Abbiamo discusso del suo rifiuto di adempiere il suo mandato perché aveva preso un’altra via lontano da quel luogo indicato a lui, laddove avrebbe svolto la sua specifica chiamata.

Agli occhi di Dio la città di Ninive era il luogo dove Giona poteva intervenire attraverso la proclamazione della sua Parola affinché si convertissero dai loro affari malvagi, poiché non conoscono il bene, fanno tutto il male.

L’intento di Dio  non fu compreso bene Giona.

Si può capire, E’ ancora all’inizio, lui non ha ancora ben afferrato tutto.

La storia dice che possiamo quindi capire il comportamento di Giona illustrato all’inizio dell’omonimo libro. Dio gli chiese di andare a Ninive, il capitale d’Assira, per avvertirli del giudizio che stava per mandare su di loro a causa della loro malvagità, ma Giona non aveva nessuna intenzione di farlo. Nell’ottavo secolo a.c. gli Assiri erano infatti già noti per la loro malvagità e per la crudeltà nel trattare i nemici. È quindi comprensibile che Giona fosse riluttante ad andare proprio a Ninive a portare un messaggio da parte di Dio.

Perché Dio voleva avvertirli e dare loro una possibilità di salvezza?

Giona avrebbe preferito, come si comprende leggendo il resto del libro, che Ninive venisse annientata.

Giona ricevette un ordine preciso ma fece tutto il contrario di ciò che Dio gli aveva chiesto. Egli sapeva che gli Assiri sarebbero stati un problema per Israele e, spinto dal proprio patriottismo, scelse di non essere proprio lui lo strumento attraverso cui Dio li avrebbe salvati!

Care e cari,

Domenica scorsa era la domenica della Trinità. La nostra sorella Francesca Agrò ci ha ricordato il Dio trino, le tre persone di Dio Padre, Figlio e Spirito, cioè il Dio che si è rivelato come Colui che è AMORE.  Nel giorno della Pentecoste lo Spirito di Dio scese dal cielo. Si unì con i discepoli e le discepole, che apparvero come delle lingue di fuoco. Noi così abbiamo appreso e con timore e tremore scorgiamo la presenza di Dio, capace di irrompere, di pervadere, attraversando i confini, le barriere a partire da noi stessi.

Così Dio inseguì Giona attraverso anche la tempesta del mare per rivendicare la sua volontà.  Allontanandosi dal luogo della propria missione, Dio continua anche lui con insistenza la sua volontà di fare ciò che aveva in mente, il suo proponimento.

Il disegno di Dio che sarà compiuto da Giona era anche un pensiero che il Salmo 139 ha voluto esprimere in parole che ci ricordano della conoscenza che Dio ha in sé di ciascuna e ciascuno di noi. Così, il Salmista dichiara:

7 Dove potrei andarmene lontano dal tuo Spirito,
dove fuggirò dalla tua presenza?
8 Se salgo in cielo tu vi sei;
se scendo nel soggiorno dei morti, eccoti là.
9 Se prendo le ali dell’alba
e vado ad abitare all’estremità del mare,
10 anche là mi condurrà la tua mano e mi afferrerà la tua destra.
11 Se dico: «Certo le tenebre mi nasconderanno
e la luce diventerà notte intorno a me»,
12 le tenebre stesse non possono nasconderti nulla
e la notte per te è chiara come il giorno;
le tenebre e la luce ti sono uguali.

13 Sei tu che hai formato le mie reni,
che mi hai intessuto nel seno di mia madre.

Perciò, noi cogliamo in questo momento, nel tempo di Pentecoste, per elevare l’opera più potente dello Spirito, che nella vita del profeta Giona aveva precisamente usato questo prodigio per la salvezza del popolo di Ninive.  A colui che è, lo Spirito di Dio, disse: Alzati e va’ a Ninive v.1…

Giona teme Dio, con la consapevolezza di Giona che ha su Dio produce in se l’autentica umiltà che porta a riconoscere il suo essere un semplice uomo, non capace di compiere grandi cose come il Dio che professa il  creatore del cielo e della terra. Questo fuggire di Giona era manifestato da questo timore. Forse perché era consapevole della sua grande inadeguatezza,  che non poté con la sua forza  fare ciò che Dio gli aveva comandato.

Nello stesso tempo  Giona disse: «Sono Ebreo e temo il SIGNORE, Dio del cielo, che ha fatto il mare e la terraferma».

Un ebreo, quindi colui che appartiene il popolo di Israele del Dio che con lui potrebbe anche fare di più come era con Mosè che aveva visto Dio con i suoi occhi i prodigi come lo faceva trasformando da una cosa all’altra nel libro dell’Esodo ai capitoli 3 e 4ss , la sua missione e obiezione.

A partire dal nome di Dio, “IO SONO COLUI CHE SONO” vuol dire non c’è nessuno o non c’è un altro nome più grande di lui; Il bastone che diventò un  serpente, poi si trasformò di nuovo un bastone;  la sua mano che diventò lebbrosa, bianca come la neve, poi di nuovo tornò come la carne, come era prima.

Non è un fatto magico ma è un essere di Dio che doveva comprendere Mosè perché fosse  lui a svolgere la sua vocazione di far uscire gli israeliti dalla casa del re faraone, dalla casa di schiavitù.

Quindi, parallelamente a ciò,  E’ opportuno evidenziare per noi oggi  la missione di Giona ai niniviti,  Coloro che erano stranieri  Dio aveva avuto pietà, e così ricordiamo che a sua volta anche per gli israeliti,  per mezzo di Mosè ebbero avuto la salvezza di Dio che li liberò.

Tutto il popolo ebreo e straniero ninivite sono stati investiti dal soffio dello Spirito e per mezzo della parola annunciata  rivelata da Dio ha portato la vita nuova, la vita rinnovata riconoscendo lui il Dio di tutti che non si limita a donare la sua bontà infinita.

Così io e Rowena abbiamo avuto in comune la conferma che quando Dio disegna un suo piano lo realizza. La salvezza universale è realizzata da Dio per mezzo del suo chiamato che compie l’annuncio della sua Parola a coloro che sono i destinatari.

Il frutto dell’opera di Dio Spirito, nell’uomo credente deve sempre ritornare al punto di partenza cioè di essere obbediente alla volontà di Dio come strumento al servizio della sua parola.

In questo modo si riconosce dagli ultimi destinatari cioè la chiesa che  Dio ha parlato sin dall’inizio  per bocca dei profeti per la salvezza di molti fino a Gesù.

Dio aveva giudicato i niniviti malvagi  perché  avevano raggiunto il picco della loro malvagità. E per questo motivo che mandò Giona poiché rivolse una parola giusta perché  si converta. La vocazione di Giona è unica proprio per il popolo di Ninive.

Noi che leggiamo la sua storia di vocazione realizzata nel suo percorso di  fede non priva di dubbi, ci incoraggia a credere di più e confessargli  che Dio prosegue ad eseguire il suo piano perché a ciascuna e ciascuno di noi serve a sua volta quello che è necessario ed opportuno.

Leggiamo la Bibbia e mentre lo facciamo, essa stessa ci legge e ci giudica a che livello siamo attraverso il nostro modo di praticare l’amore misericordioso di Dio, che è così irraggiungibile ed esaustivo perché solo in Lui è la salvezza di tutti per tutti, nascosta e rivelata a suo tempo. E per questo il nostro compito è quello di non esimerci dal proclamarlo sempre e ovunque per la nostra reciproca consolazione.

Conosciamo i nostri limiti, calcoliamo bene la nostra inadeguatezza, ma a Dio appartiene tutto.  Ci ha creati tutti perciò non sta a noi a dare l’ultimo giudizio e ebbene che ci ricordiamo  il Dio che ci mette insieme per fare ciò che è giusto.

Come possiamo dire ‘lui’ no, lei sì, perché  ha fatto questo e quel male.

Noi dimentichiamo spesso la nostra chiamata(vocazione) di essere per il progetto di realizzazione del piano di Dio che lo compie nella storia della salvezza di tutta l’umanità.  Ricordiamoci quelle parole del Signore Gesù: <<Non siete voi che avete scelto me, ma sono io che ho scelto voi…>>

Accettiamo umilmente che  siamo  giudici di noi stessi perché tendiamo ad esprimere giudizi immediati, e questo serve sempre a noi a guardare Dio di fronte  a noi.  Colui che aspetta al nostro dire di sì ad annunciare la sua parola che è un invito, un appello alla conversione.

Voglia il Signore accompagnarci e guidarci sempre con il suo spirito Santo. Amen

past.a Joylin Galapon