Il ribelle e il bigotto

Lc. 15, 1-3. 11-31
Immaginatevi che un gruppo di persone della comunità, mentre si reca allo studio biblico, veda in un bar la pastora che si fa un bicchierino un po’ forte insieme alle prostitute del quartiere. Sarebbe un bel colpetto. Poi però qualcuno penserebbe: Sì, forse ha esagerato un po’, ma è per il loro bene. Parlando con loro, può convertirle. Supponiamo però che la pastora risponda: Veramente io sto con loro perché mi sono simpatiche. E già che ci siamo: siete proprio sicuri che siano loro, le prostitute, che si devono convertire? Magari siete voi che siete mal messi con il buon Dio e dovreste darvi una regolata.
Non credo che il gruppetto della chiesa la prenderebbe molto bene. Proprio questo, però, è quello che secondo Luca vuol dire Gesù. Non un discorsetto edificante sull’amore di Dio, bensì un pugno nello stomaco delle persone per bene convinte che le altre siano per male.
La nostra parabola ha ricevuto, nella storia della chiesa, vari titoli: “Il figliuol prodigo”, probabilmente il più diffuso; “Il padre misericordioso”; “I due fratelli”. Potremmo aggiungerne un altro: “Vite contrapposte. Due modi di intendere ll’esistenza,, due “progetti”, diremmo oggi, che sembrano prendere direzioni diametralmente opposte. Vediamole.
Il “figliuol prodigo”, il trasgressivo. Quali sono le sue motivazioni? Un famoso poeta sostiene che il ragazzo aveva bisogno di non essere amato. Il racconto non offre indicazioni chiare, ma la congettura sembra un po’ astratta, filosofica. Più semplice e diretta la tesi di suo fratello: ha voluto sperperare tutto quanto con le prostitute. Forse si tratta di una semplificazione, ma ha il merito di limitarsi ai crudi fatti.
Farsi liquidare anticipatamente l’eredità (un terzo del patrimonio paterno, nel caso del figlio minore) era in teoria giuridicamente possibile, ma rappresentava una richiesta estrema, considerata offensiva nei confronti del genitore; anzi, la saggezza ebraica invitava quest’ultimo a rifiutare; già il libro dei Proverbi, del resto, sa che «l’eredità acquistata in fretta non sarà benedetta alla fine» (20,21). Il racconto vuole che ci immaginiamo in modo vivido il compiersi di questa profezia di sventura: dapprima la voglia compulsiva di spendere, poi la carestia, la necessità di accettare un lavoro ritenuto particolarmente ripugnante e religiosamente impuro, fino all’estremo di dover desiderare, invano, il cibo dei maiali. Il testo resta ambiguo sulle motivazioni del ripensamento. Il ragazzo si pente in senso morale? Una lunga tradizione interpreta in questa senso, compreso il nostro inno con musica di Mendelssohn. La faccenda, tuttavia, non è affatto chiara e, anzi, il v. 17 sembra suggerire un calcolo: in ogni caso, da mio padre mi andrà meglio. Il giovane, però, si conquista un certo rispetto da parte di chi legge preparando un discorso sobrio, che non accampa scuse né cerca di edulcorare la situazione.
Veniamo alla vita contrapposta, il figlio maggiore. Di lui sappiamo, essenzialmente, quello che ci dice egli stesso, che cioè è stato un figlio per bene e senza grilli per la testa. Colpisce il vocabolario utilizzato dal giovane: per anni ha servito il padre, senza trasgredire alcuno dei suoi ordini (la parola è la stessa che indica i comandamenti). Egli si muove in un universo rigidamente gerarchico il che, secondo il racconto, gli impedisce di comprendere il proprio rapporto col padre («ogni cosa mia è tua»: ma il ragazzo non se n’era accorto) e, soprattutto, lo spiazza di fronte al fatto che il padre vive secondo un’altra logica. La storia è costruita in modo da presentarci il giovanotto in modo poco simpatico. Tuttavia ci possiamo chiedere: come mai aveva interpretato la vita familiare in termini militari? Se l’era sognato lui, oppure il padre l’aveva, diciamo, aiutato a fraintendere la situazione? Non lo sappiamo. Fatto sta che egli ha costruito il suo rapporto sull’obbedienza alle regole, l’esatto contrario di suo fratello. Vite contrapposte, come dicevamo.
Con ciò, però, siamo ancora alla superficie di questo rapporto a tre. Dietro l’apparente contrasto tra le vite dei fratelli, vi è un parallelismo assai più importante: entrambi i figli sono ciechi di fronte all’amore del padre; entrambi comprendono il rapporto con lui come oppressione, solo che uno si ribella, mentre l’altro subisce. Le vite dei due giovani sono opposte, ma il rapporto con il padre è meno diverso di quel che sembra a prima vista. Il senso di oppressione è comune. Da una parte il ribelle, che manda a quel paese il padre e le buone regole; dall’altro l’obbediente, che però si fa il fegato marcio e sotto sotto invidia le prostitute di quell’altro, le vorrebbe anche lui, gli sembrano un’espressione di libertà, ma non ha il coraggio. Sono entrambi come un tappo che sta per saltare. E salta, in effetti: per il figlio minore, quando decide di andarsene; per l’altro, quando il ritorno del fratello è accolto dal padre come il più grande dei doni. Sintomi diversi della stessa malattia: l’incapacità radicale di comprendere l’amore di questo padre e in fatto che la sua casa è un luogo di vita e di libertà, non un campo di lavori forzati.
E Gesù chiede ai bravi israeliti che lo ascoltano, e chiede a noi ora: e voi, con tutta la vostra religione, da che parte state? Siete tra quelli che pensano che Dio li metta alla prova, voglia vedere se sono proprio così bravi come dicono, così obbedienti, così fedeli? E che magari, sotto sotto, non ne possono più di questo Dio, dei suoi precetti e dei suoi obblighi, e invidiano “gli altri”, che sembrano più liberi di vivere una vita interessante, con tante belle cose che a loro, a noi, sono negate (da Dio!)?
La domanda di Gesù è stata ben capita dai suoi interlocutori, che non l’hanno presa bene. Semplificando un po’, si potrebbe osare dire che Gesù è stato ucciso proprio per questa domanda: per il suo sospetto, esplosivo, destabilizzante, che le persone della religione, tutte casa e chiesa, non sono più vicine a Dio di quelle che frequentano i bordelli. gli uni e gli altri sono diversi in tutto meno una cosa: la volontà profonda di sbattere la porta in faccia a Dio.
Gesù, però, dice anche un’altra cosa, se possibile ancora più importante, se possibile ancora più esplosiva. Che Dio, Dio stesso, quella porta la tiene aperta. Per le persone per bene e per quelle per male. La vita vera, dice Gesù, non è nei bordelli, certo; ma non è neanche nell’esistenza bigotta che critica gli altri per sopportare la propria mediocrità. La vita vera è resa possibile dalla porta tenuta aperta da Dio, per entrambi i figli. Il racconto non dice se il maggiore, l’uomo per bene, voglia entrare alla festa. Il padre, però, lo desidera molto ed è per questo che ci è concesso di avere speranza.
Amen.
prof. Fulvio Ferrario
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