Essere comunità insieme

27 agosto 2017

Salmo 133 L’amore fraterno
At 4:32; Fl 2:1-4
1 Canto dei pellegrinaggi. Di Davide.
Ecco quant’è buono e quant’è piacevole
che i fratelli vivano insieme!
2 È come olio profumato che, sparso sul capo,
scende sulla barba, sulla barba d’Aaronne,
che scende fino all’orlo dei suoi vestiti;
3 è come la rugiada dell’Ermon,
che scende sui monti di Sion;
là infatti il SIGNORE ha ordinato che sia la benedizione,
la vita in eterno.

Atti 2,42.44-45
Ed erano perseveranti nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e nella comunione fraterna, nel rompere il pane e nelle preghiere.
Tutti quelli che credevano stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; vendevano le proprietà e i beni, e li distribuivano a tutti, secondo il bisogno di ciascuno.

Care sorelle e cari fratelli nel Signore, come forse avete già notato non ho scelto un testo biblico specifico per la predicazione di oggi ma le due letture bibliche che abbiamo ascoltato mi hanno stimolato a condividere con voi queste mie riflessioni.

Vorrei cominciare allora con questo racconto. Un giorno un giovane in procinto di sposarsi chiese a suo padre, “secondo te come andrà la mia vita matrimoniale?”

La risposta che ebbe fu “dipende!” poi girate le spalle il padre se ne andò, il figlio rimase perplesso perché non aveva compreso quella risposta.

La notte che precedeva le nozze, il padre preparò una lettera al figlio nella quale scrisse: “Mio caro figlio, mi hai chiesto come sarebbe andata la tua vita matrimoniale ed io ti ribadisco dipende, sì, dipende in quale mani tu la metterai come per tutte le cose;

infatti un bastone nelle mie mani non servirebbe che per appoggio nel cammino, ma nelle mani di Mosè servì per dividere il mare.

Una fionda nelle mie mani potrebbe essere insignificante, ma nelle mani di Davide diventò una terribile arma che uccise il gigante.

Pochi pani e pochi pesci nelle mie mani basterebbero a sfamare una sola persona, ma messi nelle mani di Gesù ne sfamarono cinquemila.

Dei chiodi infissi nelle mie mani produrrebbero solo un orrendo dolore, ma messi nelle mani di Gesù hanno prodotto la salvezza dell’intera umanità.

Si figlio ricordati, tutto dipende dalle mani in cui riponiamo le cose che più amiamo”.

Gesù disse ai Giudei : “Il Padre mio che me le ha date è più grande di tutti: e nessuno può rapirle di mano al Padre” (Giovanni 10: 29)

Care sorelle e cari fratelli nel Signore,

ben tornate! Come state? Com’è andata la vostra estate?

Come avete trascorso la vostra vacanza?

E penso che mi avreste chiesto anche voi, com’è andato il Sinodo delle chiese metodiste e valdesi in Italia?

Innanzitutto, vi dico la verità che è stato per me una grande gioia sin da quando ho saputo che ci saremmo andati a parteciparlo con delegazioni di numero più elevate nella nostra comunità: Maria Laura Sbaffi per il distretto, Lucia Doria per il circuito, Laura Nitti per la consulta delle chiese nel territorio romano, Antonella Varcasia per il consiglio della facoltà valdese, Eric Noffke professore della facoltà, Luca Baratto per la FCEI, , Fabio e Luciano uditori ma per la nostra comunità si impegnano per la comunicazione, Giulio Maisano predicatore locale e non solo, la pastora Mirella Manocchio rieletta presidente del CP – OPCEMI e Claudio Paravati membro di esso e direttore della rivista Confronti. E’ davvero un bel gruppo!

Così potrete anche sentire da loro le esperienze e le opinioni soprattutto sulla vita delle chiese che possono servire per noi di confronto. La valutazione globale del lavoro che abbiamo fatto nelle nostre chiese e come ha influito la nostra vita quotidiana e il nostro agire nella società, è fondamentale soprattutto per l’essere chiesa insieme. Sì, sono d’accordo con la risposta del papà del neo-sposo che tutto dipende dalle mani in cui riponiamo le cose che più amiamo”.

Sì, ricordiamoci ‘tutto dipende’ da come investiremo le nostre forze per servire meglio il Signore e la nostra chiesa. Sì, tutto dipende da come utilizzeremo i nostri mezzi per fare sempre meglio la nostra testimonianza di fede che riponiamo e rimettiamo nelle mani del Signore nostro. Mi ricordo molto questa risposta del padre al figlio prima che avrebbe intrapreso un impegno che dovrebbe durare fino alla fine del rapporto coniugale.

Dipende dice il padre al figlio, tutto dipende dalle mani cui puoi affidare tutte le cose che hai e che fai. Nel matrimonio si dichiara un comune patto di convivenza di due persone che si amano, è un accordo mutuo di due individui in cui legami di comunione si intensificano, si intrecciano in rapporto con dei beni materiali e quelli spirituali che hanno e ricevono a vicenda. Il loro star bene dipenderà dal loro modo di agire e affrontare le loro responsabilità ricordando sempre il loro comune accordo.

Nel matrimonio civile di un parente (di mio nipote) al quale ho assistito e ho rinnovato la mia considerazione sul confronto tra il patto d’amore e di fedeltà eterna di Dio al suo popolo e quello del patto matrimoniale di due nuovi sposi.
Il patto fra due persone che si dichiarano di amarsi l’un l’altro, e di conseguenza di promettere e intraprendere il cammino insieme è il punto di partenza per una vita di comunione e di impegno. Il legame coniugale si spera di consolidarlo nelle esperienze di gioia e di dolore. L’Amore li aiuterà ad affrontare anche le sfide nelle situazioni difficili e nelle prove più dure. Leggiamo nella prima lettera di Giovanni cap. 4 il versetto 8: <<Dio è amore >> quindi l’amore vero viene da Dio. Dunque, è fondamentale riconoscere che il legame matrimoniale è un patto in cui l’amore di Dio viene espresso. Esso è una parte integrante della vocazione al matrimonio del credente che possa aiutare a sostenere ogni impegno intrapreso. È in quell’amore di Dio che si muovono entrambe, le due persone saranno protette, coperte e tutelate.

Ai primi convertiti al cristianesimo, coloro che hanno creduto l’evangelo in Gesù Cristo , la nuova VIA per accedere al regno di Dio (alla casa del padre) la comunione fraterna era il momento clu della loro vita , cioè il nostro essere chiesa insieme.

42<<Erano perseveranti nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e nella comunione fraterna, nel rompere il pane e nelle preghiere. 43 Ognuno era preso da timore; e molti prodigi e segni erano fatti dagli apostoli. 44 Tutti quelli che credevano stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; 45 vendevano le proprietà e i beni, e li distribuivano a tutti, secondo il bisogno di ciascuno.

Sì, anche il benessere(ben stare) della nostra vita comunitaria dipende dalle cose che abbiamo, dalle risorse che abbiamo, tutto ciò che facciamo insieme, che siano accompagnate con una preghiera silenziosa personale e comune offriamole prima a Lui poiché ce le ridà spezzate e moltiplicate secondo il bisogno di ciascuno di noi per la sua edificazione.

Per raggiungere i nostri obiettivi ci vogliono le sue mani e le nostre, i frutti che raccoglieremo sicuramente la crescita e trasformazione continua della nostra vita.

Ricominceremo con la nostra comune accordo per programmare le nostre attività ecclesiastiche e saranno svolte bene o male, tutto dipende dalla preparazione e cura, dal tempo che dedicheremo prima, da ognuno di noi soprattutto da me nel saper coordinare con le sorelle e fratelli che si sono dati la loro disponibilità di aiutare per la chiesa del unico Signore Dio.

Per questo motivo vorrei condividere con voi le mie diverse considerazioni che penso siano utili per noi per ricominciare a riflettere sulla nostra vita comune d’Essere Chiesa Insieme ed è no degli argomenti che abbiamo discusso molto al Sinodo.

Primo, nei mesi di aprile e maggio, i membri del consiglio di chiesa hanno deciso di aggiornare l’elenco dei membri della comunità, e così hanno verificato che nel registro dei membri mancano i nomi di quelli che sanno che frequentano spesso i culti domenicali e i pranzi comunitari. Perciò io insieme alla past. Manocchio e all’animatrice giovanile Sara Mae Gabuyo, abbiamo preparato un modulo da compilare per il gruppo dei filippini e da distribuire a ciascuno e a ciascuna.

Poi, ci stata una riunione del gruppo per discutere se è necessario essere iscritto membro metodista di via XX settembre. Era una discussione molto intensa si sono immersi dei pensieri molto importanti su cui possiamo noi tutti riflettere proprio le caratteristiche del nostro battesimo e della nostra conversione come dice nel libro degli Atti. Alcuni sono andati via perché hanno ritenuto che bastava soltanto frequentare i culti domenicali e partecipare ai pranzi comunitari. Si è verificato anche che essere iscritto nel libro dei membri non li importavano. L’ abbandono alla comune adunanza ha recato di nuovo la tristezza a quelli che hanno ritenuto giusto diventare membro di questa comunità e che hanno capito l’importanza di essere parte integrante di questa comunità paragonata ad un corpo umano.

Io parlando con il gruppo su questo punto, mi ha fatto riflettere che un credente che non sente di costruire il suo rapporto con i membri della comunità a partire dal essere iscritto il proprio nome, da una parte non sembra dare interesse all’appartenere di un corpo e dall’altra parte non si sente responsabile nei confronti dei fratelli e delle sorelle, membri di questa chiesa.

Secondo, uno che ha formato e fa capo ad un altro gruppo dei filippini che ha frequentato anche la nostra comunità nel passato ha chiesto di celebrare la benedizione del matrimonio del figlio qui il 15 agosto. Egli ha contattato la nostra presidente del Consiglio Maria Laura Sbaffi per chiedere la disponibilità nostra e se il tempio è libero e così poi ho saputo tutto.

In questo tempio, sono passate tante persone e facciamo bene a prenderlo cura e tenerlo in ordine e che sia a disposizione di tutti e di tutte ma la comunione dei membri ha un valore e effetto nel nostro rapporto di chiesa che si costruisce fra i membri così ricordiamo anche oggi il rispetto che dobbiamo verso l’uno l’altro/l’una l’altra. Spero che i miei connazionali si rendano consapevoli che cosa hanno avuto da questo luogo e anche il privilegio di chiamarsi essere chiesa insieme. Spero che imparino anche a dare il dovuto rispetto.

Queste esperienze ci servono perché avere una comunità come questa ci è necessaria per avere un confronto e dialogo franco e onesto e perché abbiamo più riguardo alla nostra vita eterna nel vivere insieme come dice il salmista del 133 che abbiamo letto e ascoltato prima. La benedizione di Dio si riceve nel nostro stare insieme, nel vivere in comunione con l’altro e l’altra.

Non voglio essere fraintesa ma il nostro legame di fraternità in Cristo Gesù che è la causa della nostra conversione donato a partire dal nostro battesimo è la motivazione primaria della accoglienza che pratichiamo fra noi, è come modo di dare e ricevere noi stessi, segno visibile(l’immagine dell’ essere corpo di Cristo). 1 Cor.12.

Terzo, da maggio che non vado più a Pescara e la coordinatrice del gruppo dei filippini mi ha aggiornato che cosa stanno facendo e sta succedendo nella loro comunità. Era molto felice di raccontarmi al telefono che continuano a radunarsi a casa per leggere la Bibbia e condividere la loro riflessione in relazione al loro vissuto di giorno in giorno. Loro mi aspettano e si fortificano tra di loro. Questo fatto mi rallegra molto.

Che succederà in comunità quando ci sono dei cambiamenti? L’atteggiamento che dobbiamo avere è di portare davanti a Dio e pregarlo che non ci fa mancare il nostro senso di comunione, simpatia e affetto.

In questa estate abbiamo vissuto e esperimentato la siccità e tutt’ora.

Oltre il problema da affrontare sull’immigrazione abbiamo vissuto il caldo, non pioveva quindi la terra era molto asciutta e si limitava di attingere l’acqua dal lago di Bracciano. La crisi idrica è stata una calamità naturale! Il calore provoca l’incendio e anche l’uomo pieno di ira coglieva l’occasione di accendere il fuoco e bruciare i nostri boschi. L’uomo con il suo cattivo pensiero ha coinvolto il cielo e la terra a non donare più l’acqua. Quanti di noi hanno pregato Dio perché vi sia pioggia? Perché si spengano gli incendi che aumentino sempre di più il calore.

Domenica scorsa, il nostro un giorno una parola ha proposto di riflettere sul patto di Dio sul monte di Sinai e abbiamo questo ricordo della presenza di Dio come un’ Aquila madre che ha avuto cura del popolo di Israele. Sono stati anni di vissuto in cui Dio ha dimostrato di aver avuto cura al popolo di Israele e credo anche alle nostre chiese.

La figura di Mosè è fondamentale per la salvezza del popolo di Israele. Immaginate che tramite lui, Dio ha fatto uscire il popolo di Israele dal paese di Egitto, l’ha potuto strappare dalla mano del Faraone, dagli Egiziani che lo avevano dominato e soggiogato, schiavizzato duramente per essere serviti. Loro, seguendo Mosè sono arrivati alla loro destinazione sani e salvi.
Guardiamo e osserviamo in televisione molte persone, uomini, donne, genitori con i loro bambini e bambine, che intraprendono un viaggio ma non sono sicuri di arrivare alla loro destinazione perché non sono affidati ad una guida sicura come era Mosè. Sul gommone, in camion si ammucchiano come delle sardine e purtroppo muoiono e così non sono completamente liberati dalla guerra, dalla violenza, dalla povertà, dalla fame, dall’egoismo, dal dominio perché non hanno raggiunto la loro liberazione ma la morte.
Ci vogliono oggi molti Mosè e l’Aquila madre che con un patto d’amore ci portino alla salvezza.

Il patto di integrazione fra le chiese metodiste e valdesi è vissuto anche con Amore, un legame in un unico Dio a cui le chiese si rifanno, grazie all’esempio di vissuto del popolo di Israele scritto nelle Sacre Scritture.

Così noi pastori e pastore suoi collaboratori e collaboratrici siamo chiamati a ricoprire l’impegno e la dedizione che Dio continua a manifestare per il suo popolo.
Nel nostro campo di lavoro in cui ci troviamo ad operare, ci ritroviamo spesso a dover fare anche come Mosè. Noi invochiamo Dio con un grido di aiuto a Lui per affrontare i nostri impegni fedelmente. E così saremo sicuri che siamo sempre nelle mani sicure perché la sua promessa di grazia, misericordia e perdono ci giungerà . Amen.

I due figli

6 agosto 2017

Matteo 21,28-32

Parabola dei due figli
«Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli. Si avvicinò al primo e gli disse: “Figliolo, va’ a lavorare nella vigna oggi”. Ed egli rispose: “Vado, signore”; ma non vi andò. Il padre si avvicinò al secondo e gli disse la stessa cosa. Egli rispose: “Non ne ho voglia”; ma poi, pentitosi, vi andò. Quale dei due fece la volontà del padre?» Essi gli dissero: «L’ultimo». E Gesù a loro: «Io vi dico in verità: I pubblicani e le prostitute entrano prima di voi nel regno di Dio. Poiché Giovanni è venuto a voi per la via della giustizia, e voi non gli avete creduto; ma i pubblicani e le prostitute gli hanno creduto; e voi, che avete visto questo, non vi siete pentiti neppure dopo per credere a lui.

Care sorelle e cari fratelli nel Signore,

anche oggi siamo chiamati apposta per riascoltare un’altra parabola di Gesù che ha voluto raccontare a coloro che lo seguivano allora.

A loro quella volta disse: un uomo aveva due figli. Egli ha mandato questi figli ad andare a lavorare nella sua vigna. Il primo gli ha risposto: << vado, Signore>> ma il secondo gli ha risposto <<non ne ho voglia>>.

Il primo quindi gli ha dato la sua disponibilità. Di conseguenza ha ricevuto questo incarico e così dovrebbe compiere a tempo pieno, al massimo della sua capacità come spesso diciamo, di intendere e di volere ciò che occorre fare in questo campo di lavoro.

Supponiamo che egli fosse consapevole di tutto ciò che andava a fare, e quello che doveva essere fatto. Supponiamo anche che la sua adesione significava che voleva obbedire, rispettare la volontà del Padre suo Signore.

Dall’altra parte il secondo figlio gli ha fatto sapere che non andrà a lavorare nella vigna del Padre suo Signore. Supponiamo anche che ha espresso al padre che non vuole assumere nessuno impegno in quella vigna quindi non si occuperà in nessuno modo di migliorare la proprietà del padre. Il padre non deve allora aspettarsi niente da lui perché la decisione presa dal secondo figlio è molto chiara e netta.

Allora il primo figlio comincia a lavorare. Egli compie il suo mandato, è un incarico che adempie ma deve essere un collaboratore del Padre. Lavora insieme al padre. L’atteggiamento che dovrà mantenere è di obbedire a ciò che comanda il padre signore. Obbedire nel senso di ascoltare e fare ciò che ha ascoltato.

Il secondo figlio, che ha rifiutato nel primo momento di lavorare nella vigna, non ha però detto di non voler fare niente ma farà un’altra cosa e in quel frangente, accadrà qualcosa. Mentre sta facendo qualche altra cosa, pensa al lavoro che gli ha proposto il padre. Forse ha pensato che ha deluso il padre per la sua decisione e nel contempo si rende conto della sua inadeguatezza. Forse si è sentito che non è il suo mestiere, non ha degli strumenti per lavorare in questa vigna. Così come il primo si è sentito subito di essere in grado di fare ciò che a lui è stato affidato però a lungo andare ha creduto troppo in se stesso ed è diventato padrone di quella vigna al posto del padre suo Signore. Si è autorizzato da sé, è diventato auto-referenziale.

Egli si è dato le sue regole e ha trascurato l’accordo preso col padre di obbedire alla sua volontà e chiamata(vocazione).

Mentre invece il secondo quando ha avuto modo di pensare e riflettere sulla richiesta del padre si è pentito e dopo ha voluto anche lui lavorare nella sua vigna.

Molti genitori filippini dicono spesso: meglio avere due figli che uno solo. Perché? Perché notano, forse, grazie all’esperienza di molti altri prima di loro che nell’avere un unico figlio o figlia sembra mancare qualcosa. Pensano forse che sia meglio averne due perché avere due figli potrebbe significare avere due possibilità. E’ comodo per i genitori dirsi che se falliscono con uno avranno un’altra chance.

I genitori devono , poi, aspettare che crescano per capire chi sono i loro figli, come e quando obbediscono. I genitori crescendo i figli si accorgono delle loro diversità di carattere. L’atteggiamento o il comportamento dei figli, uno a uno si possono scoprire attraverso l’incarico o i compiti che a loro vengono affidati. Sono i genitori spesse volte a farsi prima un giudizio sui loro figli soprattutto quando sono due. Infatti è più facile esprimere un giudizio quando sono due, un numero perfetto per cominciare a fare un confronto.

I genitori investono sui figli. i figli sono un grande investimento per i genitori. I genitori possono anche rischiare di fallire, ma è comunque un loro dovere di investire sui loro figli. Per i genitori il rischio di cui devono tener conto è di non fare dei paragoni ma aiutare i figli a cercare di scoprire i doni, i talenti, i loro punti forti e deboli per poi, così piano piano affidare loro diversi incarichi.

I genitori sperano che i figli manterranno tutto oppure porteranno avanti con dei miglioramenti , soprattutto, quando ci sono le proprietà come nel caso di questo padre della parabola. L’esempio dei due figli (la parabola del padre misericordioso) in qualche modo, ci presenta due fotografie: una è quella del figlio che potrebbe far perdere tutto sperperando quella parte che gli spetta e l’altra è quella del figlio che ha dato se stesso, servendo il padre per mantenere tutta la proprietà.

Lavorare nei campi è pesante. Molti di noi filippini siamo proprietari di terra nel nostro paese. Abbiamo pensato bene di investire i nostri guadagni comprandoci la terra per il nostro futuro. Là dove potremo coltivare il riso, mais, arachidi, zucchero di canna e ecc. Ma c’è un problema da risolvere finché i figli non imparano questo mestiere. Lavorare in campagna è molto difficile e faticosa e la verità è che molti filippini si sono già allontanati dal loro paese perché coltivare la terra è più difficile che lavorare come un collaboratore domestico o collaboratrice domestica.

I figli devono imparare e hanno bisogno dei genitori come dei bravi insegnanti. Devono imparare anche loro che devono guadagnare quello che i genitori hanno già acquisito come beni materiali. I genitori, come insegnanti dei figli non dovrebbero dare tutto quello che hanno senza obbligare i figli a conquistare con fatica le loro proprietà perché la terra ha bisogno di essere coltivata per dare frutto. Quindi bisogna che i figli imparino prima e devono avere degli strumenti per la coltivazione o per qualsiasi mestiere.

La nostra parabola vuole però farci capire attraverso questi due figli cosa vuol dire obbedienza. Impariamo qui che ubbidire non è solo il rispondere con parole <sì vado> ma anche che la risposta di non volere merita una riflessione sulla motivazione. Prima la mancanza di volontà e poi l’assunzione della richiesta e il cambiamento di idea.

Dunque, in questa parabola si tratta di ubbidienza. Il padre con i suoi due figli ha provato forse una soddisfazione? Ha ottenuto forse quello che voleva? Egli ha messo forse alla prova i suoi due figli per vedere come fanno i conti con la realtà?

Che cosa ha voluto insegnare Gesù con questa parabola prendendo due soggetti importanti come questi due figli? Il padre signore, proprietario di un campo o di una vigna assume i suoi due figli a lavorare e collaborare con lui. Ci vuole insegnare, oggi, ancora che per lavorare nel suo campo come degli operai non basta l’adesione(l’aderenza), ma conta soprattutto quella pratica del pentimento dimostrato dal secondo figlio.

Ricordo che con i fratelli e le sorelle filippini abbiamo già letto i due primi capitoli dell’epistola di Paolo ai Galati. In quei due capitoli Paolo ha voluto sottolineare qual è il vero evangelo di Dio. È molto chiaro che nella chiamata dell’apostolo Paolo ci sia stata la sua conversione che era nata prima in risposta all’elezione da parte dei suoi padri israeliti. Egli ha obbedito agli insegnamenti dei suoi padri e ha dovuto obbedire per rispetto alle loro fede e tradizioni ma poi, la conversione più profonda quella seconda avviene in risposta a Cristo Gesù secondo la sua testimonianza. E stato Dio, Signore, Padre che gli ha svelato la vera Via della salvezza e questa è anche la vera motivazione dell’elezione dei figli legittimi e adottivi che sono i giudei- cristiani, i pagani, i pubblicani, le prostitute, gli stranieri(tutti quelli che si riconoscono peccatori e peccatrici che hanno bisogno della salvezza promessa nel figlio di Dio). Questo campo della vigna è la chiesa di Dio oggi che è disposta ad accogliere tutti, questa chiesa inclusiva.

Il secondo figlio, dalla sua iniziale esperienza di rifiuto nasce il ripensamento e la vera esperienza di essere un collaboratore di Dio proprietario della vigna e avere con lui un legame di continua fiducia e di ascolto di ciò che gli rivela giorno per giorno.

È un rapporto non solo di memoria, di ricordo al comando ma è una pratica di vita continua nella conversione. L’esempio del pentimento di questo secondo figlio è quella conversione che è nata dalla riflessione sulla fede. L’autentica fede è il frutto della consapevolezza che si deve rimanere legati e subordinati al Signore per poter essere degni di essere chiamati collaboratori.

In questa parabola dunque, c’è questo primo figlio che ha avuto l’incarico di lavorare per il Signore, il Padre di tutti i popoli e il secondo figlio che ha avuto anche l’incarico di lavorare per lo stesso Signore e il padre eterno .

Perché l’ordine dei figli è rovesciato.? Non basta il sì come risposta alla chiamata di lavorare nella vigna del Signore ovvero nel campo di lavoro del Signore perché ci vuole un continuo rinnovamento dell’adempimento alla vocazione, quello compito affidato a tutti i credenti. Il no come risposta dall’altro figlio che ha eseguito la volontà del padre ha ribaltato la situazione. Il diritto alla salvezza non si determina dall’adesione a parole ma dall’adempimento.

Uno dei commentari che ho letto dice: E’ probabile che quest’ordine alterato rifletta un’interpretazione allegorica della parabola della chiesa antica: gli ebrei pretendevano di essere obbedienti a Dio, ma respingevano l’evangelo, mentre i pagani, che avevano rifiutato di obbedire a Dio, si pentivano e lo accettavano. Agli ebrei è stata fatta prima la promessa del regno di Dio ma per il rifiuto del Vangelo si sono autocondannati. In quanto leader religiosi essi pretendono di essere obbedienti a Dio, ma non si rendono conto che l’obbedienza autentica include il reagire con fede alle nuove cose che Dio sta facendo.

Il ruolo di anticipazione , preparazione nella persona di Giovanni Battista che ha testimoniato il Cristo, conferma qui che il loro rifiuto di vedere Dio all’opera anticipa anche il loro rigetto di Gesù.

Perché c’è il rifiuto della autorità di Gesù? Per l’orgoglio di non accettare il dono di Dio in Gesù. Non era facile cambiare la mentalità di un popolo che ha sempre pensato che la sua salvezza dipendeva dall’obbedienza sul fare come un obbligo ad eseguire dei comandamenti, delle prescrizioni. I leader religiosi facevano fatica ad accettare questa promessa di Giovanni Battista, che battezzava con acqua coloro che credevano e si pentivano di aver commesso dei peccati. Nella fede come risposta alla testimonianza di Giovanni si denota la vera l’obbedienza.

Che lo Spirito Santo del Signore rinnovi continuamente la nostra volontà al pentimento e alla conversione per fare ciò che occorre nel nostro vivere oggi. Amen.

Pastora Joylin Galapon

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Il vangelo secondo il Piccolo Principe

GIANNATEMPO Stefano,
Claudiana, Torino, 2015,
pp. 140, € 12,50

 

Chi non conosce il Piccolo Principe di Antoine de Saint-Exupery, testo cult della narrativa per ragazzi, ma che insegna moltissimo anche agli adulti, troverà in questo libro di Giannatempo un’occasione per colmare una lacuna. Chi lo conosce, avrà una prospettiva diversa per interpretarlo in un’ottica cristiana e arricchirne quindi il significato profondo di cui è già di per sé portatore. Il Piccolo Principe è un classico racconto di formazione, poetico, commovente, fantastico, istruttivo: Giannatempo lo trasforma in qualcosa di più, leggendolo come un commento laico al vangelo. Il saggio comprende 27 capitoli, come il racconto originale, ed ogni capitolo affronta il personaggio, il tema, l’evento che caratterizza il corrispondente capitolo del racconto secondo tre linee principali: una riflessione personale, legata alla propria esperienza, che ha attinenza con il soggetto da trattare;  un’interpretazione del soggetto nel contesto del racconto originale e in relazione ad analoghi episodi biblici o tematiche evangeliche e infine un’attualizzazione del messaggio, una riflessione sulle domande che suscita quel soggetto e sulle risposte che possiamo dare come cristiani. Completa ogni capitolo una scheda riassuntiva che, oltre a indicare i versetti biblici di riferimento, le frasi chiave del testo originale, il tema e la domanda di fondo, formula alcune proposte di animazione per la catechesi. Un esempio su tutti può essere il cap. 13, che ha per soggetto l’uomo d’affari, uno dei personaggi incontrati dal Piccolo Principe nei suoi vagabondaggi su altri pianeti. Il capitolo inizia con un ricordo personale, l’incontro con una leggenda relativa a Sant’Antonio e al tesoro di un avaro. Si prosegue con la descrizione dell’incontro tra il Piccolo Principe e l’uomo d’affari, per trarne una riflessione sul tema del possedere e sul diverso significato che esso ha per i due personaggi: per il secondo l’accumulo di ricchezza, per il primo la presa in cura nelle relazioni. Il capitolo si conclude con alcune citazioni del vangelo di Giovanni, che puntano l’accento sulla dedizione agli altri. Più articolato il cap. 21, dedicato alla volpe, personaggio chiave del racconto originale, che fornisce l’occasione per riflettere sul significato del verbo addomesticare, cioè creare quei legami che consentono di considerare unico ed irripetibile per noi l’oggetto o la persona che abbiamo “addomesticato”, e quindi sul valore dell’amicizia e dell’amore. In conclusione, un bellissimo e originale saggio, che non ha semplicemente lo scopo di commentare un testo, ma quello di ricercare spunti, sollevare interrogativi, scuotere le coscienze, riscoprire e approfondire il significato dei valori cristiani di cui spesso ci dimentichiamo di esseri portatori.

 

Antonella Varcasia

Meditate la pazienza

6 agosto 2017

Pubblichiamo il sermone del pastore Mario Sbaffi, letto durante il culto odierno dalla figlia,  presidente del Consiglio di chiesa, Maria Laura.

Affinché mediante la pazienza…noi riteniamo la speranza. Or l’Iddio della pazienza.. vi dia d’aver fra voi un medesimo sentimento”. ( Romani 15,4-5)

Mediante la pazienza!…

Mediante la pazienza, scrive l’apostolo Paolo, noi riteniamo la speranza, cioè un ponte verso il futuro, una porta aperta sul domani.

E l’impazienza?

L’impazienza, spesso, infrange questo ponte, chiude questa porta. È di ostacolo alla speranza.

L’impazienza è un sentimento vecchio quanto l’uomo. Non entrò forse anche un pizzico di impazienza in quei nostri lontani progenitori che peccarono per voler tutto conoscere e vedere e fare?

Ma forse questa atmosfera di impazienza è diventata particolarmente acuta nel nostro tempo. Siamo continuamente impazienti con gli altri, con il nostro prossimo, con coloro che ci sono vicini  sul lavoro. Siamo impazienti in casa, in famiglia: il marito verso la moglie, la moglie verso il marito, i figli verso i genitori, i genitori verso i figli. Siamo impazienti con i nostri compagni di attività quotidiana, verso i nostri dipendenti e verso coloro da cui dipendiamo. Vorremmo sempre che gli altri fossero più pronti a rispondere a ciò che desideriamo, più lenti a reagire a ciò che non collima col loro pensiero e il loro interesse, più disposti ad accettare il nostro punto di vista.

Siamo impazienti anche con coloro che affermiamo di amare e questo nostro essere impazienti è un segno della imperfezione del nostro amore.

E impazienti lo siamo nei confronti degli eventi: impazienza del malato che vede tardare il ristabilimento della sua salute, impazienza di colui che deve lottare contro le difficoltà della vita quotidiana ed è stanco di questa lotta che gli sembra vana, impazienza di chi vorrebbe veder realizzato questo o quello e non considera a sufficienza che gli eventi attesi ci sembrano più lenti a concretarsi proprio perché noi non sappiamo aspettare con pazienza. E che dire della impazienza sul piano delle realizzazioni sociali, delle rivendicazioni politiche, delle conquiste scientifiche?

Che dire della impazienza con cui avanziamo verso una meta che ci siamo prefissata, con cui vorremmo bruciare le tappe del nostro successo, con cui vorremmo superare una situazione che ci appare pesante o irrealizzabile.

Tutto il nostro agire, tutto il nostro esprimerci, tutto il nostro desiderare sono continuamente intaccati, resi spesso pericolosi da questo nostro essere impazienti.

E solo che se noi consideriamo la nostra stessa vita e la vita di tante creature umane o la vita di interi popoli, noi dobbiamo riconoscere che molte delle grandi o piccole tragedie che travagliano l’umanità, molte delle catastrofi che si abbattono sugli uomini, hanno, fra l’altro e il più delle volte alla loro radice uno stato di impazienza.

E se queste forme di impazienza sono comuni a tutti gli uomini, noi, come credenti, siamo talvolta portati ad un altro atteggiamento di impazienza: all’impazienza nei confronti di Dio: impazienza nelle nostre preghiere, impazienza nell’attesa dell’esaudimento, impazienza nel considerare l’azione di Dio nel mondo.

Quante volte ci accade di sentir affermare: “ ho perso la fede- non riesco più a confidare in Dio, perché Dio non ha risposto alle mie preghiere, non ha esaudito alle mie richieste, non ha operato con la Sua potenza in questa o in quella circostanza”.

Come se Dio fosse il nostro cieco servitore, come se Egli potesse soggiacere passivamente alla nostra volontà, come se l’Eterno fosse schiavo della relatività del nostro tempo.

NO, sorelle e fratelli, Dio è il Signore ed il Maestro che sceglie il tempo favorevole, che opera secondo la Sua sapienza, Colui che era che  è e che sarà”

Dio è Colui  il cui stesso nome è una testimonianza della sua pazienza che si oppone alla nostra impazienza innata.

Ora l’ Iddio della pazienza – scrive l’apostolo Paolo – dopo aver invitato le creature umane ad essere pazienti.

L’Iddio della pazienza.

Basta sfogliare le pagine della nostra Bibbia per veder ergersi dinanzi al nostro spirito, con potenza convincente e contagiosa, la monumentale pazienza del nostro Dio.

L’Iddio di Israele,

L’Iddio di Gesù Cristo,

non si lascia mai andare all’impazienza, non abbandona mai l’impresa. Egli detesta il peccato degli uomini, ma usa pazienza verso di essi fino a giungere a salvarli.

Israele si ribella, dimentica, si allontana, ostacola l’azione di Dio, proprio come noi, ma Dio non si scoraggia e prosegue nei suoi piani.

Iddio non ricorre mai a soluzioni estreme, non annienta la creatura ribelle, sopporta, anzi porta Egli stesso i nostri errori.

Egli si prende tutto il tempo necessario per preparare, durante i secoli, e attuare attraverso i secoli il suo piano di liberazione e di salvezza.

Egli ci offre continuamente il suo perdono e sa attendere che noi diventiamo spiritualmente maturi per accettarlo.

E se la nostra impazienza esprime spesso l’inadeguatezza e la fragilità del nostro amore, la pazienza di Dio è uno dei segni del Suo amore perfetto.

Pazienza del buon pastore che prende amorevolmente sulle proprie spalle la pecorella che ha abbandonato il gregge e si è smarrita: pazienza del seminatore che, dopo aver sparso generosamente la buona semenza nei solchi, sa attendere la stagione in cui la messe sarà matura. Pazienza del padrone che vede crescere la zizzania insieme al buon grano, ma non si lascia tentare dall’ impulsività con cui, invece, gli uomini vorrebbero svellere l’erba cattiva senza riflettere che così facendo strapperebbero anche il buon frumento.

Pazienza del Padre che attende… attende la sera ed il mattino, attende con un’anima che prega e con un cuore che ama ardentemente, attende senza stancarsi fino a che il figliuol prodigo faccia ritorno alla casa che ha stoltamente abbandonato.

Pazienza del Signor Gesù che, durante il suo ministerio terreno, sa rispondere a tutte le sollecitazioni dell’impazienza umana: “l’ora mia non è ancora venuta”.

Pazienza del Cristo sulla  via del Calvario e sulla croce, pazienza dell’Iddio tre volte santo che è nostra speranza e nostra sicurezza, pazienza che continua a tenere le redini della storia di questo nostro mondo, malgrado i suoi sussulti, le sue ribellioni, le sue bestemmie.

Pazienza di Dio che non ha nulla in comune con le forme tutte umane di rassegnazione fatalistica, ma che è la forma più alta di azione.

Essa è fiducia assoluta nel potere dell’ Evangelo e nella forza di attrazione dell’amore.

Pazienza che ha in sé un rispetto infinito della nostra libertà, che rifugge da ogni forma di costrizione, che fa continuamente appello agli uomini e alla storia degli uomini ma sa attendere l’ora della risposta spontanea e convinta.

L’ Iddio della pazienza!

Oh sapessimo noi contemplarla questa pazienza divina in tutta la sua maestà, in tutta la sua potenza,  in tutta la sua pienezza d’amore da cui è mossa!

Come essa ci rifonderebbe coraggio e calma, come essa sarebbe un continuo correttivo alla nostra impazienza ed ai moti inconsulti che l’impazienza reca sempre con sé.

L’impazienza è il segno del naufragio già avvenuto della speranza, lo stato d’animo che infrange il “sentimento fra voi”, di cui parla l’apostolo, l’ allontanarsi dal nostro prossimo.

La pazienza è il segno che la fiducia nel domani non è spenta e che la comunione con gli uomini può essere mantenuta.

Ora – ci dice l’apostolo Paolo nel nostro testo di oggi – ora l’Iddio della pazienza vi dia di avere fra voi un medesimo sentimento, affinché, mediante la pazienza…noi riteniamo la speranza”

AMEN!