Radio Beckwith parla di Breackfast Time Roma

Anche la chiesa metodista di Roma propone il Breakfast Time. Un progetto di solidarietà e di diaconia, offerto alle persone senza fissa dimora del quartiere.

Iniziata all’inizio di questo 2018, prende spunto dall’omologa iniziativa della chiesa metodista di Milano, di cui abbiamo parlato in questo articolo su Riforma.it.

Un gruppo di una quindicina di volontari ha impostato il lavoro in questi mesi, cercando anche collaborazioni con associazioni e chiese sensibili.
Domenica 25 febbraio c’è stata la prima uscita sul territorio, per offrire ai senzatetto una bevanda calda e un piccolo sacchetto di viveri. L’obiettivo è quello di distribuire una trentina di colazioni nelle zone limitrofe al tempio di via XX Settembre, fra Palazzo Massimo, Teatro dell’Opera, via Nazionale e piazza della Repubblica.

Ne parliamo con Fabio Perroni, della chiesa metodista di Roma, uno dei coordinatori di Breakfast Time.

Sul sito www.metodistiroma.it si trova un form che si può compilare per segnalare la propria adesione al progetto.

Qui per ascoltare l’intervista

La vigna, le vigne

Isaia 5,1-7

Vi è mai capitato di partecipare ad una vendemmia?
A me sì, giù in Sicilia, attorno ai primi di Ottobre, nel palermitano.

Ricordo che tra zii, amici e persone incontrate per la prima volta, l’atmosfera era quella di chi, gioioso, raccoglieva il frutto di lavoro ed aspettative. Sì, perché non è per nulla scontato raccogliere dei buoni grappoli d’uva: basta una grandinata, un’alluvione o, per contro, un periodo di siccità, oppure anche degli invisibili parassiti a far andare tutto a male! Per questi motivi, la vendemmia è spesso accolta con canti di gioia. Ne ricordo ancora uno, che provo a tradurvi: “Il pero disse all’uva: povera disgraziata, tu verrai calpestata; l’uva rispose: ma a l’uomo che mi calpesta, gli farò girar la testa!”.

Il testo biblico di oggi sembra sia stato scritto in occasione della festa ebraica dei Tabernacoli, coincidente con il tempo della Vendemmia.

Immaginate, adesso, un uomo, un profeta, al quale era stato detto da Dio di annunziare una parola al popolo. Provate a pensare a quest’uomo mentre, di campagna in campagna, vede gente festeggiare una buona vendemmia. L’odore d’uva, probabilmente, riempiva i polmoni ed i canti le orecchie dei passanti. Profumi e canti improvvisati e tradizionali accompagnavano i passi del profeta fino in prossimità del Tempio, dove probabilmente alcuni si erano riuniti per aspettare il momento dei riti cultuali e cerimoniali.

In quel periodo, però, non doveva esserci molto di cui gioire: il regno di Israele era parzialmente conquistato ed il regno di Giuda era anch’esso sotto il pericolo dell’occupazione militare assira. C’era, probabilmente, chi si ricordava del suo tempo di catechismo, nel quale gli era stato insegnato che il re che lo governava, Ezechia, proveniente dalla stirpe del celebre re Davide, era destinato ad un aiuto incondizionato da Dio.

“Dio è con noi”. Uno dei ritornelli più famosi ed utilizzati nella storia.

Il profeta, però, non condivideva né la gioia del popolo in mezzo al quale viveva, né il ritornello “Dio è con noi”. Lui aveva in cuore altro. Il profeta ricordava che nei testi biblici la fedeltà di Dio al popolo che era chiamato a servirlo, non era slegata dalla sua giustizia.

Per paura, desiderio di potere o semplice imitazione dei popoli vicini, sempre più ingiustizia e sangue veniva versato sulla terra promessa che gli era stata data come segno di libertà. Ingiustizia sociale e morti che Dio non tollera, al punto da scegliere un uomo proprio fra quegli uomini e mettergli in bocca un canto “diverso”.

Adesso pensate a quell’uomo mandato da Dio che si avvicina agli altri, cantando un canto non suo: il “canto del suo amico”. Il canto ha per oggetto una vigna per la quale il suo amico ha speso tutte le energie e le cure necessarie affinché portasse buon frutto. Anche il Cielo era stato benevolo: nessuna grandinata, alluvione, siccità o parassita aveva compromesso il suo lavoro. A questo punto, però, il canto comincia a presentare la prima nota stonata: nonostante le cure e il tempo clemente, l’uva prodotta è acerba, immangiabile e impossibile anche da trasformare in vino. Coinvolgendo la gente attorno a lui, quindi, il profeta chiede: «voi con una vigna così, che fareste?». La gente, impulsivamente, risponde – cantando – che una vigna così non merita il tempo e le cure spese. Alcuni, forse, propongono di venderla a qualche pastore di pecore; altri, probabilmente, avranno proposto di abbandonarla.

Il ritornello, però, non era ancora arrivato.

Ad un tratto il tono del cantante cambia e diventa più serio: «Ebbene, ora vi farò conoscere
ciò che sto per fare alla mia vigna: le toglierò la siepe e vi pascoleranno le bestie; abbatterò il suo muro di cinta e sarà calpestata. Ne farò un deserto; non sarà più né potata né zappata, vi cresceranno i rovi e le spine; darò ordine alle nuvole che non vi lascino cadere pioggia. Infatti la vigna del SIGNORE degli eserciti è la casa d’Israele, e gli uomini di Giuda sono la sua piantagione prediletta; egli si aspettava rettitudine, ed ecco spargimento di sangue; giustizia, ed ecco grida d’angoscia!».

Il significato della canzone era svelato: le tribù di schiavi che Dio aveva chiamato ad essere un popolo libero, avevano usato quella possibilità per opprimere i più deboli e usare ingiustizia e violenza. Anche gli amministratori politici ed i capi religiosi approfittavano della situazione sociale per nutrire la loro sete di potere. Molti sembravano aver dimenticato quel Dio che li aveva chiamati a vivere liberi, amando il loro prossimo dell’amore del quale erano stati amati dal Dio liberatore.

Ma Dio non è cieco o sordo come una statua, Lui è Spirito, ed è potente da correggere il popolo che Lui ha scelto.

Nel canto messo in bocca al profeta si parla di “deserto”: come in un deserto, questo popolo che pensava di utilizzare il nome potente di Dio per legittimare le proprie azioni malvagie viene lasciato a se stesso, solo. Dio si ritrae, si allontana da loro, facendo sperimentare le conseguenze che una politica corrotta e iniqua e una religiosità ebbra del vino del potere e della visibilità può comportare.

Quella generazione, ubriacata dall’illusione della propria apparente potenza e dedita alla strumentalizzazione del nome di Dio, subirà le conseguenze del proprio peccato.

La presenza di Dio non è qualcosa da dare per scontato. Egli è dotato di una sua volontà, che ha anche rivelato nei suoi comandamenti. Non è mai per capriccio che Dio si allontana, nei racconti biblici. In questo caso, ad esempio, si parla di spargimento di sangue: non è cosa da poco!

Nel canto si parla di uva acerba, simile nell’aspetto a quella selvatica, ma impossibile da mangiare o da ricavarne del vino. Nel canto, al verso 7, si parla ancora del significato di questo essere “selvatica”: i regni di Israele e Giuda, a quanto pare, si comportavano similmente ai regni che li circondavano, commettendo le stesse ingiustizie e imitandoli, nell’uso e l’abuso del potere politico e religioso. Quelle tribù, un tempo schiave e perseguitate, hanno barattato la loro memoria e la loro vocazione per costruirsi un presente simile a quello dei popoli vicini: un presente di giochi di potere ed ingiustizie.

La storia ce lo insegna: anche lo spargimento di sangue, un assassinio, un’uccisione, può essere tollerata, se autorizzata da una legge e confinata ad una certa categoria di persone. Chi è al potere, quindi, si arroga il diritto di considerare alcune vite meritevoli di subire discriminazioni, violenze ed uccisioni. In questo modo, l’uccisione, le discriminazioni, le ingiustizie sociali, sono autorizzate dall’autorità politica e religiosa di turno, a volte anche per “legge”. Ma il fatto che un potere politico o religioso, una legge, proclami un atto dagli effetti dannosi o mortali come “giusto”, cambia la natura di quell’atto? Per le società sì, per Dio no. L’uva acerba e quella buona, spesso non si distinguono dall’apparenza, ma dal sapore, dagli effetti sulla lingua e sul corpo.

E Dio, contrario alle ingiustizie e allo spargimento di sangue, dopo aver ripreso una generazione, decise di allontanarsi da essa.

A volte, essere privati di qualcosa o qualcuno, è l’unico modo per farci comprendere cosa vale davvero nella vita.

Dio, nel testo biblico, si sottrae alla presenza di quella generazione e loro se ne accorgeranno presto!

Forse, gli ultimi ad accorgersene saranno i sacerdoti e la gente religiosa, che tendeva, allora come oggi, a riempire i silenzi e le assenze di Dio con le loro azioni, le loro chiacchiere e la loro presenza.

Come la presenza, anche l’assenza di Dio va riconosciuta e temuta.

Quando ci è donata la ragione della sua assenza, siamo chiamati a tornare sui nostri passi e a cambiare direzione alla nostra vita, convertendoci.

Quando questa ragione non ci è donata, dobbiamo aspettarlo. La ragione, in quei momenti, sta in Dio stesso, nel suo cuore. In quei tempi, la memoria di ciò che è stato e la speranza nel Dio che viene, possono essere l’unica cosa che ci è data vivere.

Ma in questo caso, la generazione di cui Isaia parla e da cui Dio si allontana, non sembra convertirsi dal male, smettendo di uccidere, come Dio aveva loro ordinato.

Ma quel Dio del quale il profeta cantava il canto, è il medesimo che ricordava di non punire i figli per la colpa dei padri (Deut 24,16).

Qualche capitolo più avanti, si parla di un’altra generazione alla quale Dio concede di imparare dagli errori dei padri e delle madri. Una generazione alla quale si rivela nuovamente, con pazienza rinnovata. Uomini e donne come chi li ha preceduti, che però scelgono di vivere quella vita che Dio mostra come possibile e che fa bene non solo a chi la vive, ma anche a chi sta vicino.

Dio non chiede altro all’essere umano, che resti umano!

Né Dio, né verme. Solo e semplicemente umano.

Non si allontana da quella generazione perché poco “santa”, ma perché uccidevano delle persone. E, come spesso accade, la violenza genera altra violenza. L’ingiustizia altra ingiustizia. E Dio non tollera né sangue, né ingiustizia, né la strumentalizzazione del suo Nome per far fare festa al popolo quando ci sarebbe prima da convertirsi.

Fermiamoci un attimo, quindi, e facciamo memoria di ciò che la storia delle generazioni che ci hanno preceduto ci può insegnare, nel bene e nel male. Facciamo memoria, perché solo da una elaborazione critica del passato, possiamo iniziare a lavorare su noi stessi, sostenuti dalle promesse del Dio che viene.

Pensate agli eventi di questi giorni: cosa abbiamo imparato da venti anni di dittatura fascista? Cosa abbiamo imparato da decenni di corruzione? Cosa abbiamo imparato dalla storia di chiese che, per paura di perdere potere e visibilità, si schierano sempre dalla parte della moda religiosa o politica di turno?

Chiediamo a Dio la nostra conversione. Chiediamo a Lui che la sua presenza torni a regnare nelle nostre vite, nelle nostre relazioni e che, con Lui, possiamo tornare a portare frutto, e frutto in abbondanza.

Perché senza di Lui, senza la sua presenza, non possiamo essere nulla e non possiamo far nulla.

Amen

Marco Emanuele Casci
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Giornata Mondiale di Preghiera

La Giornata Mondiale di Preghiera sarà celebrata il 2 marzo alle ore 18.00 presso la chiesa metodista di Roma in via XX settembre 123.

La preghiera è stata preparata da un gruppo di donne dello Suriname.

La metitazione sarà a cura della pastora Mirella Manocchio, presidente OPCEMI.

Seguirà un momento conviviale.

Vi aspettiamo!

È ora di colazione. È tempo di solidarietà. Una iniziativa della Chiesa metodista di Roma

Breakfast Time Roma, è un progetto di solidarietà lanciato dalla chiesa metodista di Roma, e che riprende un’omonima iniziativa milanese. Verrà avviato domenica 25 febbraio 2018 e prevede la distribuzione di 30 colazioni (bevanda calda, un panino, frutta e un dolce) nelle zone limitrofe al tempio di via XX Settembre. “Fra Palazzo Massimo, Teatro dell’Opera, via Nazionale e piazza della Repubblica sono molte le persone senza fissa dimora che desideriamo aiutare. Per ora inizieremo a domeniche alternate, ma speriamo presto di poter fornire questo servizio tutte le domeniche”, ha annunciato Fabio Perroni, della chiesa metodista di Roma. “È un’iniziativa aperta a tutti, che ci permette di fare la nostra parte insieme a tante realtà religiose e laiche già attive sul territorio”. Per partecipare o contribuire scrivere a info@metodistiroma.it.

Ma il mondo evangelico ha da tempo avviato anche altre iniziative analoghe. Ad esempio, “Cappuccino in sospeso”, promosso dall’Esercito della Salvezza (EdS), un movimento internazionale evangelico particolarmente dedito ad opere di carità e di assistenza ai bisognosi. Il progetto, realizzato grazie al contributo della Federazione italiana pubblici esercizi (FIPE) della Confcommercio Roma prevede la possibilità di lasciare, presso gli esercizi che aderiscono all’iniziativa, un caffè o un cappuccino pagato, in ‘in sospeso’ per un avventore nel bisogno. Da quest’anno l’iniziativa si allarga e le “tazze solidali” saranno presenti anche nei bar storici del centro di Roma.

Nella sola capitale l’EdS in un anno sono stati distribuiti circa 15.000 i pasti. Inoltre, grazie a diversi progetti EdS – fra cui il banco alimentare, il soccorso invernale, l’accoglienza ai rifugiati, gli interventi delle unità mobili con coperte e medicine – le persone assistite in un anno sono state 57.779.

L’EdS non promuove “solo” i cappuccini sospesi. Ci sono anche progetti come progetti Angel Tree, per esaudire i desideri di bambini in famiglie poco abbienti; gli interventi con le prostitute e vittime di tratta; i centri di accoglienza di Atena Lucana in Campania; il laboratorio di Castelvetrano in Sicilia per minori stranieri non accompagnati con la collaborazione di alcune sarte anziane; senza tralasciare il Selah Caffè in Piemonte, luogo di incontro e scambio per rimettere insieme una comunità.

Parlano di noi

Emergenza freddo. Esercito della Salvezza e metodisti in prima linea

Per i senza tetto l’Esercito della Salvezza lancia la Campagna 2018 “cappuccino in sospeso”, mentre la comunità metodista di Roma ogni domenica offre “colazioni in strada”

Roma (NEV), 19 febbraio 2018 – “Accanto alla povertà che si vede c’è anche una povertà di relazioni, che possiamo superare nell’incontro con gli altri” ha dichiarato all’Agenzia stampa NEV Francesca Danese, responsabile relazioni esterne dell’Esercito della Salvezza (EdS), nel presentare la campagna “Cappuccino in sospeso” lanciata ieri a Roma. “Il nostro grazie va a tutti quelli e quelle che contribuiranno a donare un po’ di calore umano acquistando un caffè, un cappuccino e lo lasceranno ‘in sospeso’ per un avventore nel bisogno”, così Massimo Tursi capo del Comando EdS Italia e Grecia, che prosegue: “La nostra riconoscenza va anche a Fabio Spada, presidente della Federazione italiana pubblici esercizi (FIPE) della Confcommercio Roma, che ci ha permesso di allargare l’offerta accogliendo le nostre tazze solidali anche nei bar storici del centro”. Da questa mattina sono già 90 gli scontrini raccolti per il cappuccino sospeso.

Nella sola capitale l’EdS in un anno ha distribuito 15.000 i pasti. Grazie a diversi progetti EdS– fra cui il banco alimentare, il soccorso invernale, l’accoglienza ai rifugiati, gli interventi delle unità mobili con coperte e medicine – le persone assistite in un anno sono state 57.779.

“Sono in aumento, fra le persone senza fissa dimora, le donne, i giovani e anche uomini in giacca e cravatta che faticano ad arrivare alla fine del mese. Le nostre parole chiave sono rispetto, ascolto e dignità”, dice Danese. Ma l’EdS non promuove “solo” i cappuccini sospesi. “Il nostro obiettivo – aggiunge Danese – è liberare le persone dalla povertà”, ed illustra anche i progetti Angel Tree, per esaudire i desideri di bambini in famiglie poco abbienti; gli interventi con le prostitute e vittime di tratta; i centri di accoglienza di Atena Lucana in Campania; il laboratorio di Castelvetrano in Sicilia per minori stranieri non accompagnati con la collaborazione di alcune sarte anziane; il Selah Caffè in Piemonte, luogo di incontro e scambio per rimettere insieme una comunità.

Sulla stessa linea, il progetto Breakfast Time Roma, che la chiesa metodista della capitale ha ripreso dall’omonima iniziativa milanese e che verrà avviato domenica prossima, 25 febbraio 2018, e che prevede la distribuzione di 30 colazioni (bevanda calda, un panino, frutta e un dolce) nelle zone limitrofe al tempio di via XX Settembre. “Fra Palazzo Massimo, Teatro dell’Opera, via Nazionale e piazza della Repubblica sono molte le persone senza fissa dimora che desideriamo aiutare. Per ora inizieremo a domeniche alternate, ma speriamo presto di poter fornire questo servizio tutte le domeniche” fa sapere Fabio Perroni, della chiesa metodista di Roma. “È un’iniziativa aperta a tutti, che ci permette di fare la nostra parte insieme a tante realtà religiose e laiche già attive sul territorio”. Per partecipare o contribuire scrivere a info@metodistiroma.it.

La musica, la danza e il culto a Dio

Salmo 149:3-4

Lodino il Signore con le danze,
salmeggino a lui con il tamburello e la cetra,
perché  il Signore gradisce il suo popolo
e adorna di salvezza gli umili.

Riflessione 1(Debora Troiani)

Questo testo ci parla di corpi che ballano e strumenti che suonano per lodare il Signore, ci parla di musica come modo di vivere la fede. A volte ci appare scontata l’importanza della musica all’interno di una comunità: la musica diventa routine, abitudine, canto imparato a memoria, canzone conosciuta o sconosciuta… tuttavia la musica ha un suo significato essenziale. La musica è importante perché coinvolgente. È coinvolgente perché è universalmente comprensibile. Essa ci coinvolge e ci chiama come comunità, come insieme di voci, come armonia. La musica è coralità, è un riflesso, è un’immagine dello spirito comunitario, e in questo senso è aggregante. Ma essa ci coinvolge anche come singoli e singole: ognuno con le proprie reazioni, emozioni, con la propria voce. Essa coinvolge sensi, sensazioni. Essa ci chiama a mettere in gioco il nostro corpo: le nostre orecchie, la nostra voce, le nostre mani che si muovono lungo i tasti di un pianoforte o battono veloci sulla membrana di un tamburo. La musica muove corde profonde, ci prende e ci smuove.

Il testo ci parla anche di danza: Lodino il Signore con le danze…

Quando con Joylin abbiamo scelto questo testo per questa mattina, mi è subito venuta in mente un’immagine: una delle scene finali di Footloose. In questo film\musical il protagonista, Ren, si ritrova in una cittadina che ha bandito la musica rock e il ballo, perché considerati immorali. Nella scena in questione questo ragazzo, Ren, propone una mozione per cambiare una legge che crede ingiusta e cita il salmo 149 per rivendicare il diritto di ballare. Diritto che egli rivendica e noi dovremmo forse riaffermare, restituendogli la sua legittimità contro un immagine spesso così ancorata ad un unico ideale di solennità che rischia di privarci della bellezza di manifestare apertamente, e senza imbarazzo, la nostra gioia nella fede. Verso la conclusione del suo discorso aggiunge, riferendosi al ballo: “è il nostro modo di festeggiare la vita”. La danza è una gioia che esplode, è gioia incontenibile che erompe nel movimento: in questo senso è un modo di celebrare la vita e un modo di celebrare il Signore. È espressione di qualcosa che non sempre è esprimibile a parole, per cui le parole spesso non bastano. La danza è un corpo che dà se stesso, è il nostro modo di coinvolgere  tutto il nostro essere nella lode. Anima e corpo. Musica, danza, gioco vengono accolti dal Signore come espressioni di gioia, come modi per rivolgere la nostra lode, oltre che non le parole, con il corpo.

 

 

Riflessione 2(Joylin Galapon)

Care sorelle e cari fratelli  nel Signore,

ringrazio ancora Debora perché  ha richiamato la mia attenzione  a porgermi l’ascolto sulle parole del salmo 149, versetti 3 e 4 come Dio sia lodato. Il popolo di Israele ha  lodato  il Signore con le danze, ha salmeggiato con il tamburello e la cetra.

 

Mentre preparavo con Debora questo culto di oggi, quando parlavamo di questo testo ho pensato subito e le ho detto che i nostri fratelli e le nostre sorelle africani ballano al culto nel momento della colletta. Essi raccolgono la colletta danzando. Esprimono la loro gioia danzando perché così anima e corpo si mettono all’opera insieme nel culto.

Spesso li guardiamo(sembriamo degli spettatori) ma un po’ ci hanno già contagiato perché  la gioia che sentono gli altri ci trascina e quindi essa viene trasmessa.

Il corpo  umano è fondamentale, è necessario per lodare il Signore.

Perché? Perché in esso trova l’espressione e la dimostrazione della forza dell’alito di Dio, del soffio di vita che smuove  e sveglia un corpo e ci mette all’opera. Il nostro corpo ondeggia perché lo spirito vivente di Dio lo smuove, lo anima.

 

Nel libro dell’esodo cap. 15 il verso 20 ci racconta anche:  20Allora Miriam, la profetessa, sorella di Aronne, prese in mano il timpano e tutte le donne uscirono dietro a lei, con timpani e danze .

E Miriam rispondeva:  “Cantate al Signore, perché sommamente glorioso; ha precipitato in mare cavallo e cavaliere». Miriam ha guidato un popolo alla lode segno di piena riconoscenza al  Dio liberatore.

 

E poi passiamo al Nuovo Testamento che ci parla attraverso le lettere  dell’apostolo Paolo ad esempio quando dice alla comunità di Roma cap. 12, 1: «Io vi esorto dunque, fratelli, per le compassioni di Dio, a presentare i vostri corpi in sacrificio vivente, santo, accettevole a Dio; il che è il vostro culto spirituale».

 

Innanzitutto, nella teologia di Paolo , il corpo umano è descritto nella sua importanza, testimoniando  l’intento di Dio di creare l’uomo  come è stato raccontato nel libro della Genesi. La sua comprensione del corpo è stata rinnovata così ha riacquisito la sua dignità per mezzo di Gesù Cristo che lo ha salvato. Il nostro corpo è stato guarito, purificato, lavato con il sangue di Cristo Gesù.

 

Oggi questi testi biblici dirigono i nostri pensieri circa l’importanza del nostro corpo per il motivo per cui è stato fatto. La lode che possiamo attribuire al Signore  come comunità di credenti è di continuare ad offrirgli il nostro corpo come un sacrificio vivente, renderci disponibile  al suo servizio.

Siamo diventati santi perché ci ha santificati.

Siamo stati accolti per quello che siamo perché lui ci ama.

Non abbiamo altro da offrirgli in cambio del suo amore se non quello che siamo.

Accogliamo l’esortazione dell’apostolo che ci serve ora per affrontare e continuare il nostro culto di lode al Signore perché ci sentiamo coinvolti.  Anima e corpo sono tutt’uno.    Diamo ascolto al corpo umano, riconoscendo che il corpo è stato redento dal Signore.

Riflettiamoci.

 

Una notizia  del 15 febbraio 2018 08:54 della strage a Parkland, in Florida, ci ha sconvolti. UN EX STUDENTE 18/19ENNE, Nicholas Cruz  ha compiuto questo atto  gravissimo ed  irreparabile perché sono stati uccisi degli esseri  umani  con uno strumento pericoloso   Come è potuto succidere questo? E’ tutta colpa sua?

Questo ragazzo era stato espulso e forse proprio per questo è tornato nella scuola con un fucile d’assalto e ha aperto il fuoco, uccidendo 17 persone e ferendone decine.

 

Il fucile è creato dall’ uomo. Noi siamo quelli che lo creano, inventiamo noi gli strumenti. Così siamo anche noi  responsabili di come vengono utilizzati. Tutto dipende dai nostri  scopi.

La scuola è diventata un luogo di uccisione. Corpi sono uccisi a causa forse di un malessere, di non essere più compreso . I giovani si ribellano, rifiutano di vivere una vita disumana  causata dagli adulti ma non sanno come devono affrontare una situazione del genere.

C’è la  malattia gravissima che dobbiamo curare  dell’anima dei nostri giovani. Essi sono disperati.

Si sentono già  sconfitti prima ancora di imbarcarsi alla ricerca del senso della loro esistenza. Non trovano delle motivazioni per sperare in un buon futuro.

Servono loro delle guide che aiutino ad affrontare le sfide della loro gioventù.

Sono molto delusi e demotivati.

Così reagiscono male. Operano contro  loro stessi e anche contro i loro simili.

Facciamo attenzione, riflettiamoci. Non perdiamo di vista i nostri giovani.

 

Tiriamo le nostre considerazioni e rendiamoci conto che dobbiamo prenderci cura di  loro, come noi stessi.

Insegniamoli come curare il proprio  corpo, che  vada rispettato da loro stessi per primo.

Così anche l’insegnamento di Paolo potrà ancora aver senso  per noi oggi  che il Signore Gesù ha avuto pietà di noi e ha redento la nostra anima e corpo donandoci il suo corpo.

Egli si muove in noi e con noi e la nostra comunione con lui si dimostra in comunità.

Salmo 149,1-4

Alleluia. Cantate al Signore un cantico nuovo,

cantate la sua lode nell’assemblea dei fedeli.

Si rallegri Israele in colui che lo ha fatto,

esultino i figli di Sion nel loro re.

Lodino il Signore con le danze,

salmeggino a lui con il tamburello e la cetra,

perché  il Signore gradisce il suo popolo

e adorna di salvezza gli umili.

 

Queste parole del salmista e  quelle dell’apostolo Paolo (Romani 12,1) ci ricordano la  relazione intima tra la creatura e la lode al Signore.

Il corpo è il tempio di Dio in cui dimora la nostra anima. Quando la nostra anima è afflitta siamo abbattuti e anche il nostro corpo è fiaccato.  Ci sentiamo deboli e ci manca la forza. Come il vento  soffia, il corpo si muove.

Credo che il soffio di vita che abbiamo ricevuto ci faccia questo effetto.

 

Grazie al salmista per le sue parole che ci aiutano a non trascurare dimenticando che il nostro corpo è la dimostrazione della presenza tangibile di Dio. Senza di esso le nostre anime, il nostro intimo essere non può dimostrare la profondità del nostro cuore.

«Benedici, anima mia, il Signore; e tutto quello che in me, benedica il suo santo nome.  Benedici, anima mia, il Signore e non dimenticare nessuno dei suoi benedici.  Salmi 103,1-2. Amen.

 

 

 

 

 

Gesù e il lebbroso

Marco 1: 40 – 45

Questa è una storia in cui i protagonisti sono senza nomi. Solo il nome di Mosè è stato nominato. Un personaggio non fisicamente presente nel racconto. Non c’è il nome del lebbroso e nemmeno il nome di Gesù è scritto esplicitamente nel testo greco. Per una evidenza supposta siamo abituati a inserire il nome di Gesù, per capire meglio il testo del vangelo. Prendiamo come esempio il versetto 45: Ma quello, appena partito, si mise a proclamare e a divulgare il fatto, tanto che Gesù non poteva più entrare apertamente in città. Ecco così il testo è spiegato in qualche modo. Nella prima parte si tratta dell’uomo che non poteva tacere, nella seconda si tratta delle brutte consequenze per Gesù. Ma il lettore  di Marco non ne può essere tanto tranquillo, leggiamo il versetto secondo la versione greca: Ma egli, appena partito, si mise a proclamare e a divulgare il fatto, tanto che egli non poteva più entrare apertamente in città. È difficile dire con certezza se Marco ha volutamente inserire questa confusione. Così rimane aperta la domanda: Chi dei due protagonisti proclama e chi rimane fuori in luoghi isolati? Siamo propensi a pensare che Gesù è quello che proclama e che il lebbroso si rifugge in luoghi isolati. Guardando meglio il testo vediamo che si tratta di un cambiamento dei ruoli alquanto notevole. Non solo Gesù prende su di sé il ruolo del lebbroso, cioè essere isolato, e il lebbroso quello di Gesù, proclamare; ma è possibile intravedere una identificazione fra i due. Una identificazione che fa pensare a Matteo 8 versetto 7 dove sta scritto che Gesù ha preso tutte le nostre debolezze e che ha portato tutte le nostre malattie. Questa parola ci fa riflettere su quanto Gesù si è voluto identificare con coloro che ha guarito.

Tanto che egli non poteva più entrare apertamente in città: questo si riferisce tanto a Gesù quanto all’uomo da lui purificato. Il guarito proclama tante cose  così Gesù non può più entrare in città, ma è altrettanto vero che a causa del fatto che Egli/egli (Gesù/il lebbroso) proclama, egli non si può più manifestare pubblicamente. Quest’uomo è diventato la parola che Gesù proclama, e questo ha come conseguenza che egli non può essere compreso al di fuori di Gesù. Dove va Gesù, è proclamata la parola che riguarda quest’uomo, è proclamata la guarigione, la purificazione, la liberazione, in altre parole lì Gesù proclama la parola del Regno.

Rivolgiamo adesso la nostra attenzione verso il lebbroso, la lebbra e ciò che comporta. Forse pensiamo già di sapere ciò che vuol dire essere lebbroso nel mondo di allora: essere escluso, isolato, staccato. Ma vediamo lo stesso se questo brano particolare aggiunge qualcosa alla nostra  conoscenza.

È una storia davvero particolare. Una storia di guarigione – cioè di purificazione (nonostante che sopra questo passo hanno messo il titoletto: Gesù guarisce un lebbroso, ma nel testo stesso incontriamo la parola purificare). Tutto succede da qualche parte in Galilea, non solo mancano i nomi delle persone, ma anche indicazioni geografiche precise. Il brano precedente finisce dicendo che Gesù andò per tutta la Galilea, predicando nelle loro sinagoghe e cacciando i demoni (Marco 1: 39) e in seguito, Marco 2: 1, si legge che Gesù ritorna a Capernaum. Strada facendo incontra un lebbroso che gli supplica di purificarlo. Il miracolo della guarigione/purificazione avviene fuori dalla città e fuori dalla sinagoga, perfino la grande folla che si raduna spesso intorno a Gesù manca in questo momento. Questa mancanza di spettatori sottolinea una delle più grave conseguenze della malattia. L’isolamento totale e l’essere sbattuto fuori dalla società.

Oggi non posso che pensare agli immigrati, trattati non come dei malati, ma come dei lebbrosi, si trovano in un isolamento e quando provano ad inserirsi nella società la risposta è una risposta di rifiuto, non sempre in modo così terroristico come a Macerata, ma pur sempre un rifiuto. Non vogliamo essere resi impuri da loro. La paura e l’odio che vengono fuori da un atteggiamento simile regna fra di noi. La paura e l’odio, due cose opposte alla fede. La paura vuol dire che non c’è fiducia, mentre la fede è fiducia, l’odio nega il diritto d’esistenza, è il contrario della vita dataci da Dio.

Abbiamo davanti a noi un brano particolare. La purificazione del lebbroso conclude un primo ciclo di racconti sulle attività di Gesù in Galilea. Dopo il suo ritorno a Capernaum Gesù incontra in misura crescente resistenza. La predicazione del Regno, che sta per venire, trova qui una prima conclusione e coronamento: malati guariti, indemoniati liberati dai loro spiriti maligni e lebbrosi purificati dal terribile male.  In tutta la Bibbia c’è il pensiero che è impuro chi è colpito da questa malattia. E quindi chi è colpito da questo male non ha più diritto a un posto in mezzo alla comunità del popolo d’Israele. Ecco come i migranti di oggi a cui non viene ricevuto il diritto a un posto in mezzo alla società.

 L’inizio del racconto indica la solitudine completa del lebbroso. Nei racconti precedenti, malati, indemoniati sono stati portati da Gesù da parenti o amici.

Né la suocera di Simone con la febbre nella casa del genero, né l’indemoniato del primo racconto di guarigione è solo. Malattia e ossessione, in generale, non hanno l’esclusione come conseguenza. La lebbra sì. Ecco perché il lebbroso non ha nessuno che gli porta vicino a Gesù. Deve andare da solo e rischia grosso. È come attraversare un mare con le sue onde. Avvicinando a qualcuno infrange la Tora di Mosè. La sua impurità rende impuri gli altri, ecco perché non può stare in luoghi dove sono molte persone. Siccome è impuro non può entrare nel Tempio e nemmeno in molte sinagoghe. Siccome è ritenuto impuro non può entrare nelle nostre realtà, nelle nostre case, nelle nostre scuole.

Nell’antico testamento la lebbra è vista come una punizione di Dio. Ciò significa anche che può essere guarita solamente da Dio – ecco perché il re d’Israele si sente disperato quando Naaman gli chiede d’essere purificato (2 Re 5: 7). Quindi solo Dio può purificare un lebbroso e sollevarlo dal suo isolamento. Visto così è molto particolare che questo lebbroso va da Gesù e gli dice: se vuoi. Vede in lui un uomo di Dio.

Sono pochi versetti, ma in questi sono espresse molte emozioni. Il lebbroso cade in ginocchio per terra e supplica, dell’altro protagonista si racconta che è mosso a pietà, letteralmente sta scritto: mosso fino alle viscere. Comunque, un aspetto che salta nell’occhio è che questo incontro rende impuro Gesù. Il lebbroso diventa subito puro, ma Gesù  esce danneggiato da questo incontro, un’altra volta si scambiano i ruoli. L’incontro con l’immigrato ci dovrebbe toccare fino nelle viscere, fino a rendere anche noi impuri, solo così si arriva alla radice del problema. Ma forse siamo già impuri, per la nostra lontananza da Dio …

Arriviamo all’ultimo versetto. In un paio di battute succede tanto. Il lebbroso purificato non ubbidisce a Gesù. Non può tacere, ma chi gli darebbe torto!? Anche l’evangelista gli dà ragione. Chi scrive usa qui la parola per il strombazzare ai quattro venti (proclamare) che finora ha usato solo per la predicazione di Gesù. Infatti il lebbroso diventa il primo missionario nel Vangelo di Marco. Prima dei discepoli comincia ad annunziare. Chi è salvato, vuole che anche le altre persone si salvano (Wesley).

Gesù diventa qui persona non-grata nelle città della Galilea. Non ci può entrare perché è diventato impuro, un espulso. Ecco perché l’evangelista racconta che Gesù si trova in luoghi deserti. È li dove abitano i lebbrosi, lontano dalla società degli puri e sani. È lì dove secondo noi devono stare gli immigrati.

L’incontro di Gesù con il lebbroso anonimo svela uno dei più profondi nuclei del vangelo. Il lebbroso è venuto come un espulso dai luoghi isolati verso Gesù. È stato toccato da Gesù ed è diventato puro. In seguito il lebbroso compare come predicatore, come annunciatore, e Gesù sparisce nei luoghi isolati. Si può trovare un’illustrazione migliore della parola di Isaia 53 del servo sofferente che prende su di se le nostre malattie e i nostri dolori?!

Fortunatamente il racconto non finisce con l’isolamento di Gesù. Perché lo scrittore racconta nella stessa frase che Gesù non rimane in pace, nemmeno in questi luoghi isolati. Gli innumerevoli che hanno bisogno di lui lo liberano dall’isolamento, dalla solitudine e lo riportano nel mondo. Fino alla fine lo scambio dei ruoli. Quelli che hanno bisogno di Gesù, lo portano a galla! Gesù e il lebbroso sono uno. È il guarito che annunzia, perché il segreto non può rimanere nascosto, benché percorre la sua strada nel nascosto in mezzo al popolo. Bisogna saperlo trovare. E questa storia ci mostra dove lo possiamo trovare. Siamo coinvolti tutte e tutti, l’esperienza dell’isolamento non ci è estranea. È una condizione che ci riguarda tutte e tutti, perché tutte e tutti noi abbiamo bisogno di uscire dall’isolamento, non solo gli immigrati che abbiamo spinto nel deserto. Dimentichiamo che insieme a loro siamo nel deserto anche noi, nel deserto della nostra vita da cui Gesù ci chiama fuori se veniamo verso di Lui. Amen.

Greetje van der Veer

La mia grazia ti basta

2 Corinzi (11,18.23b-30)12,1-10

 

 

Care sorelle e cari fratelli nel Signore,

il nostro libretto un giorno una parola ha proposto per la predicazione di oggi una parte dell’undicesimo capitolo della seconda lettera di Paolo nel quale ci viene raccontato come l’apostolo ha vissuto durante lo svolgimento del suo ministero.

Nel cap. 11 ciò che è stato letto prima, l’apostolo ha fatto un elenco delle sue esperienze di vita in cui egli ha molto sofferto. Non ha vissuto nel benessere ma piuttosto ha vissuto in cattive condizioni di salute e ha incontrato delle difficoltà facendo il suo lavoro pastorale.

L’apostolo Paolo ci ricorda ora come era il suo vivere durante lo svolgimento del suo ministero.

Immaginate ora un pastore che si chiama Paolo che sta svolgendo il suo lavoro pastorale perché ha sentito Gesù Cristo che lo chiamava.

A causa di Cristo è stato più volte in prigione, a causa di Cristo è stato colpito dai giudei, a causa di Cristo poteva morire, a causa di Cristo è stato più volte destinato a morire durante il suo viaggio missionario da una comunità ad altra.

Insomma, ovunque andava aveva l’ impressione che la sua vita fosse in pericolo. Non era mai tranquillo e persino il suo corpo non godeva di buona salute.

In questi versetti, possiamo fare anche un  confronto tra il lavoro pastorale nell’epoca di Paolo e la cura pastorale che svolge il pastore di oggi ed è necessario che ci riflettiamo.

Spesso noi pastori sentiamo che i membri della comunità dicono che i pastori non sono più come quelli di una volta. Ogni volta fanno un paragone soprattutto gli anziani di chiesa, coloro che hanno vissuto molto nella  comunità e che con passare degli anni  hanno fatto  il  ritratto di ogni loro pastore.

La realtà di oggi è molto lontana da quella di prima e constatiamo che non siamo uguali di razza, di lingua, di cultura, di fede e così i membri delle nostre chiese sono anche diversi perciò  questi testi biblici ci invitano ancora di più  a mettere in discussione per poi accettare che ogni epoca subisce un cambiamento e quindi bisogna capire e conoscere bene il  contesto in cui uno vive. Perciò per essere un pastore o una pastora di oggi,  bisogna avere anche degli strumenti per affrontare una realtà di questo genere.

Chi sono per voi i pastori e le pastore? Che ruolo stanno svolgendo? Che rapporto avete con loro?

Sentite questo che ho ricevuto dal whatsapp che mi ha mandato uno studente della facoltà di teologia. Dice che è una statistica curiosa.

Essere “pastore” è tra le quattro “professioni” più difficili negli stati uniti. Ma è davvero così?

Per tutti un Pastore deve essere:

predicatore, esempio, padre, marito, consigliere, oratore, organizzatore, ministro, uomo di visione, direttore, mentore, consigliere per matrimoni, consigliere per i giovani, amico, tuttofare, conciliante, formatore di leader, insegnante di dottrina, conduttore della lode, intercessore, oltre a questo un Pastore  molto spesso è portiere del locale di culto, autista occasionale dei fratelli che non possono venire alle riunioni, addetto alle pulizie, il primo ad arrivare e l’ultimo ad andare via.

Ogni pastore affronta molte critiche tra cui: la predicazione non è stata soddisfacente, la riunione è durata o troppo o troppo poco ecc.ecc.

«Forse è giunto il momento di considerare il tuo Pastore in modo differente!»

– Il pastore molte volte è la persona più sola della tua comunità. Anche se lo vedi circondato da molte persone, considera che pochissime volte le molte persone che lo circondano sono interessate ai suoi problemi e ai suoi bisogni.

– Rispetta e onora la vita di tutti quelli uomini di Dio che hanno sacrificato tante cose, compreso alcune delle esigenze della propria famiglia per aver risposto alla chiamata di Dio.

– Apprezza il tempo che il pastore ti dedica: non sai quanto di  quel tempo sarebbe apprezzato dalla sua famiglia.

– Se hai un pastore custodiscilo, proteggilo, prega per lui, sostieni la sua visione di fede, ma soprattutto AMALO.

Credo e crediamo che ogni epoca cambia ma il ruolo del pastore essendo chiamato da Dio è veramente quello di dover fare conto con quello che è stato chiamato a fare. Nel cap. 12 l’apostolo Paolo parla della sua visione e rivelazione. Queste parole furono le parole che descrissero l’atteggiamento e il suo apostolato. Egli ebbe una visione, vide Gesù durante il suo viaggio.

Gesù era per lui una rivelazione di Dio. Saulo dunque divenne Paolo il messaggero del Cristo crocifisso e risorto. Il Signore Gesù Cristo disse: La mia grazia ti basta, perché la mia potenza si dimostra perfetta nella debolezza.

Questa frase di Gesù risorto era per lui la sua ispirazione, la lampada ai suoi piedi ovunque andava. Egli capì che la sua chiamata di annunciare la parola della croce comportava un sacrificio, una rinuncia di se stesso, e corpo e anima ne risentivano.

La sua vocazione era di annunciare Gesù Cristo che donò la sua vita per amore al Padre e agli uomini a tutte e a tutti.

Egli capì che questo atto di  sacrificio e di rinuncia era la volontà di adempiere ciò che era giusto per la giustificazione del credente.

Così ovunque andava l’apostolo Paolo, per lui l’incontro con l’avversario e il male che soffriva fisicamente erano una lotta continua.

Il male del corpo  che gli era stato messo  nel suo corpo e l’angelo di satana che lo accompagnavano sono stati i suoi primi persecutori. Era purtroppo costantemente quasi oggetto degli affari dello spirito maligno.

Paolo capì che la sua arma era la parola di Gesù«la mia grazia ti basta>. La mia grazia ti basta, perché la mia potenza si dimostra perfetta nella debolezza.

A mio avviso, all’apostolo Paolo non è mancata quella parola che divenne la sua spada contro al male che ha avuto e ha potuto superare.

Egli conservava quella promessa che si manifestava concretamente ogni volta che affrontava una difficoltà. Davanti a ciò che umanamente era più grande di lui, subentrava la grazia del Signore. Paolo invece con la sua visione e rivelazione di Cristo si fortificava sempre di più. Per ciò che viveva riusciva a trovare la sua forza in lui.  Si sentiva male ma era come se non lo sentisse. Il suo corpo era malato, colpito da tante disgrazie ma il suo spirito viveva e si nutriva della sua visione e rivelazione di Cristo. Ciò che gli dava forza erano queste parole di Cristo: « La mia grazia ti basta, perché la mia potenza si dimostra perfetta nella debolezza. La potenza di Cristo  riposa nella debolezza. Credo che spesso il credente si rifugia in queste parole.

Il pastore di oggi vive in comodità nei confronti del vissuto di Paolo. viaggia in treno, in macchina, in aereo e in nave e il pericolo è minore.

I testi biblici che abbiamo letto che riguardano le esperienze pastorali dell’apostolo ci assomigliano in parte e dipendono anche da dove siamo chiamati a lavorare.

Ma  è importante riflettere se in mezzo alle tribolazioni, alle  persecuzioni, alle preoccupazioni di tutti giorni si trova ancora la gioia di aver trovato l’evangelo in Cristo Gesù. Ciò che è  fondamentale  allora e  oggi,  è come vive un pastore/una pastora questi momenti per poter continuare a svolgere il suo ruolo. Penso che l’apostolo Paolo, per l’ennesima volta ha preso molto seriamente ciò che affermiamo sulla grazia, come uno dei  principi del protestantesimo. Senza la grazia del Signore non possiamo andare oltre, e non troviamo mai la pienezza della gioia(la contentezza) in ogni cosa che facciamo e in ogni circostanza in cui ci troviamo. Questo è valido per tutti, pastori e credenti.

La grazia è quella che abbiamo scoperto e saputo riconoscere come segno che ci dà l’ avvio per perseguire il nostro lavoro e cammino nonostante le avversità che affrontiamo.

Domenica scorsa abbiamo sentito la predicazione della sorella Francesca Agrò, seguita poi dalla testimonianza di Lina che ci ha coinvolti emotivamente ,rispetto alla vita che deve esperimentare  chi vuole seguire Gesù.  Uno che crede o che vuole seguire il cammino di Gesù Cristo è un credente cristiano che inevitabilmente viene perseguitato.

La parola persecuzione (come oppressione, maltrattamento, tortura) è molto pesante da supportare ma questo è caratteristico di chi vuole seguire Gesù. Questo è il risultato di una scelta ponderata. La decisione da intraprendere è in ricerca di  qualcosa che uno ritiene più importante, più prezioso come gli insegnamenti che traiamo dalle  parabole di Gesù raccontate allora nel vangelo di Matteo cap. 13 dal 44-46.   L’uomo avendo trovato qualcosa di più prezioso ha rinunciato a tutti i suoi averi che per tanti anni ha acquisito come suo possesso .

La gioia che provava Paolo nonostante la sofferenza che continuamente lo perseguitava o che non lo mollava è stato il frutto della grazia che ha ricevuto dalla rivelazione del Signore. Penso che  la grazia del Signore sia la gioia che abbiamo sentito noi credenti in lui quando abbiamo potuto superare ogni passaggio doloroso nella vita. Gesù nel suo vissuto sulla terra e nello  svolgere il suo ministero non  ha illuso nessuno. L’obbedienza al comandamento di Dio è  un vivere la realtà più viva che grazie all’assunzione della propria responsabilità diventa un vivere di gioia e di pace. Gesù pregò «padre mio, se è possibile passi oltre lontano da me questo calice. ma non come voglio io,  ma come vuoi tu» Matteo 26,39 e l’apostolo disse «8 Tre volte ho pregato il Signore perché l’allontanasse da me; 9 ed egli mi ha detto:  La mia grazia ti basta, perché la mia potenza si dimostra perfetta nella debolezza». (2 Corinzi 12,8-9) La grazia è quella forza che non ci viene mai a mancare e va oltre il nostro limite umano e per chi ha ricevuto la parola della conoscenza di Dio è la rivelazione stessa di lui che dà la prova della sua esistenza.

Questa forza ci dà  vita ed è vitale per noi, nelle circostanze particolari per superare le difficoltà che incontriamo. «Tutto concorre al bene per quelli che amano Dio».

Penso alla comunità composta da credenti come la nostra ai quali, agendo insieme, Dio concede la grazia. La grazia del Signore sia con tutti noi. Amen

past. Joylin Galapon