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Simon Pietro nella scrittura e nella memoria

di BOCKMUEHL Markus,
Paideia, Torino, 2017,
pp. 257, Euro 29,00

 

A differenza di Paolo, Pietro non è stato oggetto di frequenti studi da parte della critica biblica, soprattutto protestante. Questo testo cerca di recuperare l’importanza dell’apostolo nel primo cristianesimo, soprattutto indagandone la memoria, ossia ricercando come si è formata la tradizione a lui relativa, tenendo conto delle diverse prospettive locali, che fanno emergere, in occidente e in oriente, immagini differenti e spesso contrastanti: pescatore ignorante, discepolo imperfetto, portavoce e guida dei compagni, operatore di miracoli, testimone oculare del Messia, modello del credente, garante della tradizione, martire, affidatario del ministero ecclesiale, visionario apocalittico, depositario di rivelazioni esoteriche, misogino, antipaolino, esclusivista o inclusivista per quanto riguarda l’apertura ai gentili. Per tracciare la ricezione della figura di Pietro nel primo cristianesimo, l’autore prende in considerazione un’enorme quantità di testi del I e II secolo: fonti neotestamentarie, scrittori orientali, testi gnostici, vangeli apocrifi, le lettere pseudoclementine e quelle di Dionigi di Corinto, gli scritti di Flegonte di Tralle e gli Atti di Pietro. La vicenda dell’apostolo è ripercorsa con un’accuratezza perfino eccessiva, che occupa diverse pagine, ad esempio, per disquisire sui nomi di Pietro o sulla localizzazione della città di Betsaida o sul silenzio delle fonti circa la conversione dell’apostolo, di cui è difficile individuare il momento, o sulla simbologia del gallo nelle raffigurazioni del rinnegamento. Alcuni episodi sono oggetto di particolare interesse, come il confronto con Simon Mago, simbolo della lotta contro l’eresia, o lo scontro di Antiochia tra Pietro e Paolo, che indicherebbe solo “una rottura temporanea in un rapporto per il resto positivo di lavoro, se non di amicizia” tra i due apostoli, o la confessione di Pietro, che innesca la problematica sulla successione apostolica, che ancora divide Cattolici e Protestanti e che l’autore risolve ammettendo il ruolo petrino di trasmissione del ministero ai successori della Chiesa di Roma, così come sostiene la presenza e il martirio di Pietro a Roma, in virtù della precoce venerazione della sua tomba in Vaticano. Il quadro complessivo che emerge da questo testo è che, nonostante le differenze tra le fonti, il personaggio di Pietro esce con una forte sottolineatura di importanza e di preminenza, ma anche come figura complessa e ambivalente, che è poi la natura stessa del vero credente.

                                                                                                                        Antonella Varcasia

La giustizia del lavoratore e la giustizia di Dio

Matteo 20, 1-16

Care sorelle e cari fratelli nel Signore,
le parabole sono facili da capire ma anche facile da fraintendere.

Da un lato quando sentiamo una parabola ci sembra tutto evidente. Il messaggio è chiaro.

Da un’altra parte però ci accorgiamo che è facile capire un’altra cosa rispetto a quello che la parabola in realtà ci vuole dire e io, iniziando questa meditazione voglio indicarvi tre possibili fraintendimenti di questa parabola prima di venire ad una spiegazione di quello che mi sembra essere il messaggio che questa parabola ci vuole dare.

Il primo fraintendimento è molto evidente: è quello di pensare che questa parabola voglia offrire un modello di organizzazione del lavoro da applicare alla società.

Nessun sindacato accetterebbe che chi ha lavorato dieci ore sia pagato come chi ne ha lavorata una e nessun imprenditore accetterebbe di pagare uno che ha lavorato una ora sola come se avesse lavorato dieci ore.

Dunque, è chiaro che questa parabola non è un modello sociale in nessun modo e non è questo il modo giusto di intenderla: è una parabola del Regno di Dio e non una parabola della nostra società. Ed è perfettamente giusto che nella nostra società chi lavora molto e bene sia pagato di più di chi lavora poco e forse anche contro voglia, forse anche male: sarebbe un totale fraintendimento della parabola capirla come se fosse un modello sociale!

Un secondo possibile fraintendimento è quello che è accaduto tante volte nella storia della chiesa cioè credere che il centro di questa parabola siano le cinque chiamate con cui Dio, il padrone della vigna, chiama i lavoratori nel corso della giornata: alle 6 del mattino, alle 9, a mezzogiorno, alle 3 e alle 5, l’ultima chiamata. Allora molti commentatori, soprattutto antichi, padri della chiesa, hanno inteso questa parabola come se avesse al centro le chiamate di Dio, le cinque chiamate. Ad esempio il famoso Ireneo, nel II Secolo, le enumerò come le cinque grandi tappe della storia della salvezza, mentre Origene, il grande teologo del II secolo le intendeva come le cinque occasioni della vita, i cinque momenti chiave della vita di ogni persona nei quali Dio cercava di chiamare l’uomo per farlo diventare cristiano, credente.

Il centro della parabola non sta nelle chiamate del padrone della vigna ma sta nel pagamento: come questo padrone remunera questi lavoratori delle diverse ore.

Un terzo mezzo fraintendimento però che ci può stupire ancora di più è quello dello stesso evangelista Matteo perché anche l’evangelista Matteo – lo dico umilmente, con tutto il rispetto per lui – ha frainteso questa parabola. Alla fine dice: così i primi saranno ultimi e gli ultimi saranno primi. Interpreta la parabola come se fosse un ribaltamento delle posizioni davanti a Dio di tutte le gerarchie umane: Gli ultimi saranno primi e i primi saranno ultimi. Perché Matteo è stato indotto a interpretare così la parabola? Perché al versetto 8 c’è proprio questa espressione che il padrone dice al fattore di pagare i lavoratori per primi cominciando dagli ultimi fino ai primi: da lavoratore dell’undicesima ora fino a quello dell’alba e allora lui ha creduto che quello fosse il senso della parabola. Ma non è così!

Perché non è così? Perché qui – lo avete notato – è vero che gli ultimi diventano primi, ma non è vero che i primi diventano ultimi: restano primi!

Avevamo pattuito un denaro? Sei primo! Eccolo qua!

Non è che ti classifico come se avessi lavorato una sola ora, ma ti pago per tutte e dieci le ore, come eravamo d’accordo.

E questo – guardate – è tanto più significativo in quanto il ribaltamento – gli ultimi che diventano primi e i primi ultimi – è anche esso evangelo ma non è qui. E’ in tante altre parole. Ne ricordo alcune: “Ti ringrazio padre perché hai nascosto queste cose ai savi e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli fanciulli”.

Qui fa un ribaltamento. I savi non capiscono i fanciulli sì. I primi sono ultimi e gli ultimi sono primi.

Quando Gesù dice, ai farisei, i pubblicani e le meretrici vanno davanti a voi nel regno dei cieli, fa un ribaltamento delle gerarchie mentre nella nostra parabola…

Cioè, questi che sono ultimi, che voi considerate fuori della comunità sono i primi ad entrare nel regno dei cieli, c’è il ribaltamento, ma in altri passi, non in questo qua perché in questo caso ci sono gli ultimi che diventano primi e i primi che rimangono primi, e non diventano ultimi: c’è solo una inversione dell’ordine del pagamento, che è funzionale alla parabola e consente ai primi di assistere al pagamento degli ultimi.

E questa è una cosa straordinaria.

Cosa vuol dire? Vuol dire che tutti sono primi. Che c’è sì l’evangelo del ribaltamento, c’è, ma c’è anche un altro evangelo che è quello che i primi restano anche loro primi e non diventano ultimi. La parola greca utos, così, significa anche è in questo modo che.

Ma allora, se tu credi di essere primo davanti a Dio non temere di diventare ultimo! Non temere di diventare ultimo! Resti primo!

L’Evangelo qui è che l’ultimo diventa primo e non che il primo diventa ultimo.

E se tu credi di essere ultimo, rallegrati perché Dio vuol fare di te un primo.

Questo è il cuore di questa parabola.

E forse possiamo dire: com’è che nessuno diventa ultimo? E’ perché Dio si è fatto ultimo affinché tutti diventassimo primi? Sarà questa la chiave del discorso, del significato di questa parabola?

E perché Dio si fa ultimo affinché nessuno resti ultimo?

Perché è buono. Perché è buono.

Se non fosse buono direbbe. Ma chi me lo fa fare? Ma perché? Sono primo e resto primo, non c’è nessun bisogno che diventi ultimo.

Non c’è nessun bisogno che io venga dove sei tu per tirarti su, per tirarti fuori. Lasciamo le cose così!

Se Dio non fosse buono. Invece, vedete, Dio è buono.

Questo è il messaggio della parabola.

Dio è buono e anche giusto. E’ anche giusto perché a chi ha detto vi do uno dà uno. Quindi la caratteristica di questo Dio che viene fuori da questa parabola è quella di essere giusto e buono.

E’ giusto però in modo che la sua giustizia non cancelli la sua bontà; è buono però in modo che la sua bontà non cancelli la sua giustizia.

Naturalmente i lavoratori della prima ora protestano: è logico, non potrebbero fare altro, però Dio dice: ma scusami, avevamo pattuito per uno e ti ho dato uno e allora vai in pace!

Il discorso finisce qui: non sono in debito con te! Ti ho dato il tuo, quindi basta. Ma se io voglio essere buono con questo qui, chi me lo impedisce? O forse ti dà fastidio che io sia buono? Vedi tu di malocchio, questa bella espressione di quando si sbircia con gli occhi storti. Ti dà fastidio la bontà di Dio?

A Giona dava fastidio, dava molto fastidio che Dio perdonasse questa città pagana al mille per cento, questa città dissoluta, proprio quella città simbolo della dissolutezza, della degenerazione ecc. ecc.

Che questa città si penta e che soprattutto Dio si penta del male che voleva farle, che aveva dichiarato di fare: no! No! Questo non lo accetto! Non accetto che Dio sia buono!

Ai farisei dava fastidio che Dio accogliesse i peccatori, dava molto fastidio: i peccatori vanno puniti, non vanno amati, ma dove siamo: non c’è più religione!

Lo straniero va cacciato non accolto! Dove siamo? Stiano a casa loro! Ci danno fastidio, non li vogliamo! Non c’è posto! La barca è piena!

E sì, l’amore dà fastidio: c’è poco da fare: dà molto fastidio.

Che Dio sia buono: no, no, no, non mi va!

Anche ai discepoli dava fastidio questo amore di Gesù.

Ricordate ad esempio quando c’era un tipo, con una certa fantasia, fatto sta che cacciava i demoni nel nome di Gesù, ma non era un discepolo. E allora i discepoli veri e propri protestarono con Gesù e dicevano: ma come questo qui, che non è un discepolo, che non sta con noi, usa il tuo nome per cacciare i demoni, per guarire gli indemoniati. E speravano che Gesù glielo vietasse, come loro hanno vietato.

Invece Gesù dice: no, non glielo vietate perché chi non è contro di noi è per noi.

Ma c’è di più per raccontare quanto l’amore di Dio sia fastidioso per tante persone, che non lo vogliono.

L’apostolo Pietro, il grande apostolo, il capo ecc. ecc. ha fatto una fatica improba e Dio ha molto penato per convincerlo finalmente di una cosa che lui proprio non riusciva ad accettare: e sapete cosa? Che Dio desse lo Spirito santo ai pagani e non soltanto agli ebrei diventati cristiani. Siamo sempre allo stesso punto.

Ma come, ci metti sullo stesso piano? Ebrei e pagani? Ebrei con tutta la loro storia, da Abramo in avanti, i dieci comandamenti, le tavole della legge, l’arca del patto, il tempio di Gerusalemme e questi paganacci che non capiscono nulla e che non hanno Dio?

E tu dai a loro lo Spirito santo come a noi: e no, questo è troppo.

L’apostolo Pietro e come ho detto Dio ha fatto una gran fatica per convincerlo finalmente – ci sono tre capitoli degli atti degli apostoli – per questa convinzione di Pietro che finalmente deve arrendersi anche lui alla bontà di Dio.

Ma uno si chiede ma perché? Che cosa mette in movimento questa bontà di Dio? Che cosa? Allora la risposta è molto facile.

E cioè questo.

Perché al lavoratore dell’11a ora Dio dà la stessa paga del lavoratore della prima ora? Risposta: perché Dio guarda alla fame di quell’uomo. Capite? Non al merito di aver lavorato un’ora soltanto: non avrebbe merito, ma la fame, la fame, quella c’è: capite?

E la sua famiglia che aspetta che lui ritorni con una paga per poter campare uno o due giorni, quella famiglia c’è.

Cioè: è vero che tu non hai lavorato, ma la fame intanto è cresciuta. Cioè che cosa significa bontà di Dio? Che Dio non guarda al nostro merito ma al nostro bisogno. E il bisogno è grande che tu abbia lavorato o non abbia lavorato, che tu abbia meritato o che abbia demeritato. Il bisogno è grande, il bisogno è uguale, ed ecco perché è uguale anche la paga: perché risponde al bisogno e non al merito.

Però, vedete che bell’annuncio è questo! Che bell’evangelo!

Che Dio guarda al nostro bisogno e non al nostro merito è una rivoluzione, è una bellezza, è una luce, una grande luce che si diffonde sulla nostra vita.

Dio è buono, Dio è giusto però preferisce essere buono piuttosto che giusto.

E ricordate il famoso terzo comandamento che cosa dice: dice che lui è un Dio geloso che punisce l’iniquità di quelli che lo odiano fino alla terza o alla quarta generazione e benedice quelli che lo amano fino alla millesima generazione.

Cioè giustizia sì ma più bontà, più bontà che giustizia. Ha un debole per la bontà perché è la bontà che corrisponde alla sua natura profonda. Dio è buono nel suo essere Dio: Dio è amore. E’ quello che lui preferisce: la bontà che non dimentica la giustizia.

Questa parabola è veramente stupenda: potremmo avere solo questa parabola, basterebbe per la nostra conversione e per la nostra vita.

E mi sono detto: e va bene e allora? Cosa significa per me? E cosa significa per il nostro mondo per il quale preghiamo: il mondo creato da Dio?

Che Dio è buono l’ho associato ad una parola dell’apostolo Paolo: “Dobbiamo tutti comparire davanti al tribunale di Cristo affinché ciascuno riceva la retribuzione di ciò che ha fatto in bene e in male”.

Cioè ho associato la giornata del lavoratore alla nostra giornata terrena e il padrone che paga, che retribuisce, l’ho associato a questo tribunale di Cristo.

Noi ci pensiamo poco a questo tribunale di Cristo. Ci fermiamo alla croce di Cristo, che è anche giusto, ma non dobbiamo dimenticarci che dopo la croce c’è anche il tribunale di Cristo. E allora ho immaginato di arrivare davanti a questo tribunale con la mia giornata, con la mia vita.

Se mi va bene, sarò il lavoratore dell’11a ora. Avrò un’ora buona da far valere davanti a questo tribunale. Tutte le altre…

Cioè se io mi chiedo: ho lavorato per il regno di Dio più di un’ora nella mia vita? Mah! Mah!

Quante ore ho sciupato nel nulla? In ciò che non dura?

Allora invocherò la bontà di Dio. Con la mia piccola e misera ora. Dio sarà buono anche con me.

E pensando al mondo, questo mondo nel quale c’è tanta malvagità: sembra più malvagità che bontà.

La malvagità da dove viene? Come mai c’è tanta malvagità?

Dove l’ha imparata l’uomo la malvagità? Da chi l’ha imparata? Da Dio?

O non piuttosto dalla negazione di Dio? Dal rifiuto di Dio, dall’allontanamento da Dio?

E allora questo messaggio della parabola – Dio è buono – proiettato nel nostro mondo in cui c’è tanta malvagità che ci rattrista terribilmente, che cosa ci dice, cosa ci porta?

Mi porta ad avere fiducia che alla fine la bontà di Dio prevarrà nel nostro mondo. Vincerà. La bontà di Dio, sì, vincerà.

Martin Luter King cantava We shell over cam, vinceremo, ma non noi, Dio vincerà. Vincerà perché è buono e la sua bontà dura in eterno.

La bontà di Dio avrà la meglio sulla malvagità dell’uomo, come già è accaduto nella persona e nella vita di Gesù di Nazareth nella quale vediamo come in uno specchio non solo che Dio è buono, ma che può esserlo anche l’uomo.

Anche l’uomo può essere buono, credendo in Gesù, vivendo con lui in stretto rapporto personale intimo con lui così che Gesù diventa quello che dicevano i Quaccheri: “quel Cristo interiore” e non solo il Cristo esteriore della storia ma “quel Cristo interiore della fede”.

Vivendo così, uniti a Cristo, anche tu puoi essere o diventare un uomo buono come forse non lo sei ancora stato.

Iddio lo voglia per tutti noi.

Amen.

pred. Andrea De Girolamo

Il canto di Anna

1 Samuele 2,1-2 .6-8

Care sorelle e cari fratelli nel Signore, il Signore vive. Il vivente è qui. YHWH , l’io sono è presente. Il Signore Dio ascolta il grido del dolore, il pianto di amarezza dell’oppresso. Il Signore del cielo e della terra rende giustizia agli esseri viventi. Egli fa esistere. La sua parola non ritorna vuota. Lodiamo il Signore perché a lui appartiene la vita. Egli fa risorgere. Chi lo prega non torna a mani vuoto.

Anna è la nostra protagonista di oggi, lei conferma l’essere di Dio.  Ella con il suo canto di gioia ci farà tornare a casa oggi con la speranza che Dio è con noi, ridonandoci il cuore del suo messaggio che fa sorgere e risorgere chi giace senza speranze. Colei che è amareggiata oggi ci viene ad annunciare l’evangelo di  consolazione che c’è Dio. Egli è stato capace di dare, di donare una vita piantata in quel deserto, nel grembo di una madre. Il  Dio che ha conosciuto Anna è tutt’ora capace di trasformare la vita di ognuno e di ognuna di noi donandoci  la vita. Il canto di Anna era frutto del dono che ha ricevuto e in cambio lei farà la sua offerta per sempre.

Se riusiamo oggi a comprendere il passaggio compiuto dall’opera di Dio nella vita di Anna di donare la vita nel suo figlio, possiamo anche oggi avere conferma del  perché esistiamo, del  perché ci viene ancora donata la vita.  Perché dopo la morte rinasce la vita.  Anna ha rivolto la sua preghiera a Dio, gli ha chiesto di ricordarsi di lei e  Dio le ha esaudito. Quella preghiera di Anna era una richiesta specifica che solo il Dio fonte e donatore  di  vita poteva esaudirla. Le parole di Anna  cantate derivavano dal riconoscere davanti a  Dio la sua condizione umana fatta di vita e di morte.

In quel tempo,  allora nella storia d’ Israele c’ erano delle donne(Sara, moglie di Abramo, Rebecca, moglie di Isacco, Rachele, moglie di Giacobbe e Anna, moglie di Elcana ) che non potevano generare la  vita e come se fossero state la terra deserta in cui abitualmente abitassero.

Il vivere  di queste donne era la testimonianza del loro proprio ruolo in relazione  ai loro mariti. Perciò, il loro non poter dare un figlio era una sofferenza, in quanto considerate incapaci di svolgere il ruolo fondante della loro esistenza. Allora, le donne che potevano  generare figli erano chiamate madri, ma quelle che non potevano erano disprezzate e emarginate(quindi non contavano nulla). Questo era il dolore di Anna nonostante fosse amata da suo marito Elcana. Allora, il grembo di Anna non  era adatto per far abitare la vita perché era  sterile, era  incapace di generare.

Ma con la sua preghiera  al Dio che l’aveva creata, Anna ha avuto modo di capire la ragione della sua esistenza e del ruolo di Dio come Padre di tutti gli esseri viventi. Care sorelle e cari fratelli nel Signore, c’era una volta una donna che si chiamava Anna. Una donna amata da suo marito Elcana nonostante la sua condizione di essere sterile. Questo fatto non era considerato per lui una vergogna, un modo per cui dovesse essere disprezzata. Pennina l’altra moglie di Elcana  le faceva notare e pesare tutto della sua condizione. Elcana però aveva dimostrato alle due mogli il comportamento giusto ad entrambi. Ai figli di Pennina egli dava a ciascuno la loro parte e Anna ne riceveva anche lei. Il pianto di amarezza che esprimeva il dolore di Anna di non poter dare un figlio a suo marito era indipendente dal loro rapporto coniugale. Anna era amata da suo marito così come era. Elcana accettò la condizione di lei, di essere  sterile ma lei pianse per il fatto che lei  non era realizzata  pienamente per il ruolo che doveva avere per suo marito e per il suo popolo. Chiese a YHWH di darle un figlio. Nella storia di Anna vediamo come i rapporti si distinguono tra uomo e uomo e tra Dio e uomo. In primo luogo il rapporto di Anna con Elcana  dimostrava che per amore si può superare tutto come quello di non avere dei figli. In secondo luogo il rapporto di Anna con Dio a causa di questa impossibilità di generare un figlio, la ispirò a fare una specie di voto davanti a Dio. Anna non chiese a Dio  per sentirsi pienamente realizzata davanti a Pennina e a Elcana ma chiese un figlio perché fosse la  dimostrazione di chi fosse Dio, che questo Dio era diverso dagli altri perché capace di ribaltare la situazione degli emarginati nella comunità .YHWH è colui che ha il potere di trasformare e la volontà di intervenire in difesa dei deboli.

La preghiera di Anna fu esaudita a patto che se questa richiesta fosse stata esaudita lei avrebbe restituito il figlio a lui. Perciò,* “l’ho chiesto al Signore” era il nome di Samuele. Dio  ascoltò il canto di dolore e di disperazione di Anna dal profondo del suo cuore a tal punto che non potè nemmeno più emettere parole. Egli le esaudì, le donò la vita tramite il figlio Samuele che significa “l’ho chiesto al Signore” e  così in cambio l’ha offerto come tale.

Perché questa esperienza di vissuto di fede di Anna  è fondamentale per noi oggi che celebriamo la risurrezione di Gesù?

Perché il Dio della vita esiste sempre per trasformare, io e tu, noi e questo mondo.

Noi così comprendiamo che in questo mondo  ognuno o ognuna deve passare, attraversare il vissuto di vita e di morte. Queste due esperienze(della vita e della morte) si intrecciano ma si esperimentano nel tempo e nello spazio del vivere di ogni uomo. C’è il presente che per il credente è continuamente un vivere di morte e di vita. Il canto di Anna è un sunto del suo vissuto fatto di questa esperienza di vita. Nell’esperienza del vivere nel mondo l’uomo deve attraversare il passaggio continua dalla morte alla vita.  L’esperienza di Anna come credente  in Dio ci ricorda ora che la vita è un dono che  Egli può donarla dove manca. La richiesta di questa vita da parte del  credente  in Dio vivente è giustificata perché viene esaudita e questa vita stessa, donata in offerta a testimonianza di Dio stesso come vivente.  Impariamo così ad accettare la nostra condizione umana di essere creatura. Noi crediamo nel  Dio vivente che ha fatto risorgere la vita dalla morte con la resurrezione di Gesù, dalla tomba vuota, così come dal grembo vuoto di Anna  Dio stesso ha fatto nascere  un figlio. Questi eventi(del grembo vuoto di Anna e della tomba vuota di Gesù) ci garantiscono ancora oggi la consolazione della rivelazione della nostra vera relazione con la vita e con la morte. Il Signore della vita ha manifestato la sua gloria e la sua potenza nella vita di una donna come Anna e anche Gesù. Il canto di gioia di Anna ce lo ricorda oggi.

La natura di questo canto è eccezionale.

Questo canto è davvero la celebrazione della natura incomparabile di YHWH.

La gioia è di Anna, ma la potenza è di Dio. In questo cantico si capovolgono i privilegi sociali dei principi. YHWH è colui che ha il potere di trasformare e la volontà di intervenire in difesa dei deboli. Significa che Dio possiede quella combinazione tra qualità e intenzioni che conta per questa comunità marginale che canta. Questo Dio presiede con la sua sovranità unica al dono della vita e della morte, e concede questi doni poiché sa tutto, senza darne una ragione o una giustificazione (cfr. Deut. 32,39).

Nella visione di Anna non vi sono cause secondarie né circostanze attenuanti, vi è soltanto Dio. La realtà di Dio consente una straordinaria speranza e mette in moto opportunità sociali che vanno al di là della razionalità amministrata dal sistema politico-economico vigente.

E’ una speranza che supera i confini definiti dall’attuale realtà sociale, una speranza che riveste la massima urgenza per quanti nel presente sono esclusi a causa di quei confini.  E’ il capovolgimento della realtà. Le distinzioni sociali e sproporzioni nel potere politico vengono superate e annullate.

Attraverso questa esperienza di Anna molte vite furono trasformate e  liberate perché la sua esperienza testimoniava il Dio a cui appartiene la volontà di intervenire nella sorte dell’uomo con l’unica ragione di ridonare la vita. Quel Dio a cui appartengono la vita e la morte.

Il grembo di Anna era come una specie di terra deserta, non poteva nascere una vita, ma è proprio per questo motivo, per  il suo pianto interminabile, il canto di grido di dolore che chiese a Dio di trasformarlo. Il canto di gioia di Anna di aver avuto la risposta della sua preghiera era la ragione della sua lode perché YHWH il Dio che lei professava era capace di far congiungere i due lati estremi della condizione umana. Da questa esperienza di Anna oggi si riconferma la nostra fede in Lui. Egli operò allora per dimostrare che in lui tutto può avere una ragione di esistere , e anche di dimostrare la sua volontà di capovolgere quella esistenza che denota disuguaglianza, esclusione.

Il racconto della risurrezione di Gesù era l’opposto del racconto di Anna e Dio è intervenuto in entrambi casi. Il grembo di Anna era come una tomba, vuota, sterile, non poteva nascere la vita, ma dalla tomba era nata la vita nella esperienza di Gesù. Dio era chiamato in causa in entrambi gli eventi. C’è una ragione per spiegare la volontà di Dio che è quella di riempire un vuoto. E nello stesso tempo ciò che è pieno  deve essere svuotato perché sia tutto per la sua gloria.

Dimostra egli dunque la sua sovrana volontà di trasformare le sue creature.

In lui esperimentiamo le risposte concrete delle nostre preghiere esaudite da lui per noi. La preghiera di Anna era una richiesta di donarle la vita e in cambio era di offrire a lui come tale questa vita. Noi chiediamo Dio di donarci, di rispondere alla nostra  richiesta particolare nata dalla nostra condizione umana di impossibilità e  Dio ci darà questo dono da offrire a nostra volta offerta tale . È integrale, è il pieno dono che non vogliamo spezzare. Rimane come tale perché siamo consapevoli che il dono era pieno, era tutto, non era parziale perché ci è stato donato. Samuele(l’ho chiesto a Dio) è l’offerta di Anna che ritorna a Dio.  Dio ha ridonato vita al suo figlio Gesù per essere di offerta. La vita donata da Dio nel figlio e quell’offerta che ha ricevuto da Anna.

Io do quello che mi hai dato. Restituisco quello che mi hai dato.

L’esperienza di Anna avendo avuto un figlio nella vecchiaia e nella sterilità ci ricorda oggi che nel  tempo della risurrezione, la vita ha una doppia valenza, la vita che Dio dona in questa maniera rivela che sia la morte che la vita, entrambe  sono dipendenti, sono in relazione.

Vita e morte, morte e vita acquisiscono i loro veri significati. Il non senso della morte acquisisce il suo significato grazie alla esperienza di Anna in questo brano e la nuova vita nata da questa morte come era stata la sua impotenza di generare ha dato il motivo di lode, di canto al Signore.

Il canto di Anna è un esempio per noi oggi di dire«Alleluia> lode a te Signore Dio. In questa domenica della risurrezione, ci auguriamo e ci benediciamo a vicenda  con le parole del canto di Anna.

Amen.

past. Joylin Galapon