Il comandamento del Signore e le nostre opinioni

1 CORINZI 7, 18-31

 

Quante preoccupazioni, quante sofferenze, umiliazioni, delusioni l’apostolo Paolo aveva dovuto affrontare a causa delle divisioni, dei disordini, delle rivalità che avevano iniziato a caratterizzare la vita della chiesa di Corinto, da lui fondata durante il suo secondo viaggio missionario.

Eppure, questo settimo capitolo della prima lettera ai Corinzi è rivelatore di qualcosa che ce li fa sentire un po’ più vicini, che ci rende più comprensivi, forse, nei loro confronti.

Ci rivela quanto difficile e faticoso sia il passaggio dal proprio retroterra culturale ad una vita veramente plasmata dall’Evangelo.

Quanto la comprensione delle esigenze dell’Evangelo, della vita nuova in Cristo siano condizionate dalla mentalità e dalle esperienze del mondo; dal c.d. “contesto”.

Quanto forte possa essere la tensione fra la radicale novità dei presupposti su cui si costruisce una comunità di fede e il suo continuare ad esistere nella sfera di dominio delle preoccupazioni mondane, una sfera fatta di relazioni da cui nascono vincoli e legami, impegni, responsabilità. Quanto sono compatibili queste relazioni con la dignità, il ruolo, la libertà, la vocazione scoperti nella nuova dimensione di fede ?

Questo capitolo mette insieme le risposte date dall’apostolo Paolo ad una serie di quesiti posti dai membri di chiesa sul tema del matrimonio,

Ascoltiamo alcune delle voci che hanno interrogato l’apostolo.

Dicci Paolo: una volta convertiti, non è vero che è meglio astenersi dai rapporti sessuali; anche se si è sposati, per mantenersi più puri ?

Non è addirittura meglio separarsi, così ciascuno (persino la donna!) è più libero per mettere a frutto i suoi doni per la missione evangelica ? 

E se uno ha una figlia, non è meglio che non la faccia sposare, in modo che resti vergine e come tale possa meglio consacrarsi al servizio divino, come fanno le vergini consacrate al servizio degli Dei pagani, nei templi greci?

E se poi, prima della conversione,  ci si è sposati con dei pagani, che non condividono la nuova fede, beh, almeno in questo caso non è certo che è meglio divorziare, per evitare conflitti e limitazioni derivanti dall’incomprensione del coniuge non credente, che cosa si ha più a che spartire ?

Nell’intreccio di culture, filosofie, religioni, tradizioni, etnie che caratterizza la società in cui vive, il credente cristiano riflette su ciò che è compatibile, coerente, preferibile.

Lo fa rispetto alle classificazioni in cui la società in cui vive incasella gli esseri umani, e da cui fa dipendere ruoli e valori: il matrimonio, dunque, al quale si riferisce il binomio sposati/non sposati; come l’appartenenza etnica (al quale si riferisce il binomio circoncisi/non circoncisi); e lo status sociale del binomio schiavi/liberi.

I quesiti posti a Paolo dai Corinzi negli anni 50 dopo Cristo, non sono forse quelli che noi oggi porremmo.

Ma il tema della tensione fra dentro e fuori, fra prima e dopo non ci è certamente estraneo, fa sorgere nuovi quesiti.

Quale rilevanza attribuisco io alle appartenenze che derivano dalle relazioni familiari, sociali, etniche che caratterizzano la mia vita ?

Quanto queste appartenenze e le reti di relazioni in cui sono immerso influiscono sulla definizione della mia identità.

Quanto confliggono con l’unica identità, quella nuova in Cristo, che dovrebbe contare, che preme nella mia vita, che chiede di crescere, di avere spazio, di ridefinire i vari ambiti della mia esistenza?

Paolo risponde, esaminando una ad una le affermazioni di chi gli ha scritto: “quanto alle cose di cui mi avete scritto”; quanto – si potrebbe dire – alle soluzioni che mi avete riferito di avere adottato…”

Le sue riflessioni e valutazioni rispetto al tema del matrimonio e della scelta di celibato/nubilato, sono chiaramente condizionate da una convinzione che si rivelerà infondata, ma che ancora per un po’ di tempo dominerà la vita delle prime comunità cristiane: quella cioè che la “parusia”, il ritorno di Cristo e dunque la fine del tempo del mondo presente, con il pieno avvento del Regno di Dio fosse vicinissimo e preceduto da grandi tribolazioni.

Il tempo è ormai abbreviato….

In quel contesto, e partendo da questa premessa, Paolo aveva scelto per sé il celibato (non certo per esigenze di purezza, ma di maggiore libertà nella missione e di minore esposizione di congiunti e familiari a sofferenze per le crescenti ostilità e persecuzioni).

Molte sue risposte sembrano conservatrici: “ognuno resti nella condizione in cui si trovava quando Dio lo chiamò”. Ma queste sono le risposte che Paolo sente di potere fornire in relazione a quel contesto, in cui non ha senso mettere in discussione ordini sociali, perché “il tempo è ormai abbreviato” e “la figura di questo mondo” (le sue strutture, le sue regole) “passano” …

Sia pure con questi limiti, in ogni caso, dall’approccio di Paolo possiamo trarre diversi insegnamenti preziosi, che sono ancora validi per affrontare i nostri quesiti, le nostre tensioni e forse anche per la edificazione della vita comunitaria, per le scelte che su come vogliamo camminare insieme come chiesa, come comunità di credenti

1) Il primo insegnamento, lo traiamo dal modo in cui Paolo presenta la maggior parte delle sue conclusioni: “Non ho comandamenti dal Signore” (cioè: non sto esprimendo una dottrina che Dio stesso impone a tutti), ma “esprimo il mio parere”.

Paolo insegna, quindi, a distinguere fra il comandamento del Signore e le nostre opinioni, anche quelle delle persone più autorevoli, che si mettono, con coscienza davanti alla parola di Dio per cercare di capire che cosa il Signore vuole, che cosa è veramente conforme alla sua volontà. Incoraggia, quindi, in ciascuno un processo di discernimento, senza risposte preconfezionate: un modello per la discussione all’interno delle chiese.

2) Il secondo insegnamento riguarda proprio il modo in cui vivere le tensioni relative ai rapporti mondani, alla rete di relazioni ed appartenenze che derivano dal nostro vivere nel mondo, con i suoi ordini, i suoi schemi culturali e le sue strutture sociali.

E ci dice che è inevitabile, alla luce del comandamento di Dio (per come esemplificato, anzi incarnato da Gesù stesso), sottoporre tutto ad un ripensamento critico;

ma questo lo si può, anzi lo si deve fare con la serenità (senza gli appesantimenti di risentimenti e di carica violenta) che nasce dalla consapevolezza che, per quanto importanti, le appartenenze del mondo, le classificazioni che ne derivano, sono “relative”.

Relativo il pianto ed il riso; relativi i possessi che se ne ricavano; come le privazioni che si subiscono.

Queste appartenenze e queste relazioni non vanno dunque mai assolutizzate, esponendosi a due rischi opposti: quello di trasformarle in idoli (la famiglia; la classe sociale; l’etnia, come fonte di sicurezza, di prestigio, di privilegio) o, al contrario, in fantasmi, in spauracchi di cui avere paura, pesi da cui sentirsi schiacciati.

Ed invece, sono di per sé prive di valore davanti al Signore e non rilevanti ai fini della salvezza: “Voi tutti che siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. (quindi) non c’è qui giudeo né greco (circoncisi/incorcincisi); non c’è né schiavo né libero, non c’è né maschio né femmina (marito/moglie; celibe/nubile), tutti siete uno in Cristo”:

E non hanno neppure il potere di condizionare in modo assoluto la libertà interiore che si trova quando è Cristo a dimorare in noi, radicandosi nel nostro cuore: voi siete stati riscattati a caro prezzo – ricorda Paolo- e qualunque sia la vostra condizione siete affrancati dal Signore, dunque, non diventati schiavi di nessun essere umano !

La realtà nuova di Cristo può essere vissuta, quindi, qualunque sia la condizione nella quale ci si trovi, in un equilibrio difficile, ma non impossibile: un equilibrio fra il rifiuto di vincoli opprimenti, che pretendono di forzare la coscienza, da una parte; ma anche della pretesa (pericolosa ed illusoria) di una autonomia individuale assoluta, che porta ad escludere qualunque legame ed impegno.

In questo equilibrio – difficile, ma non impossibile – le relazioni e le appartenenze del mondo, vanno orientate nello spirito del reciproco servizio e della reciproca sottomissione; senza gerarchie, senza ricavarne sensi di superiorità/inferiorità; impegnandosi a viverle, invece, come spazi in cui può sempre operare – anzi in cui certamente opera – la potenza trasformatrice di Dio.

3) Il terzo insegnamento è che il comandamento di Dio va sempre vissuto in relazione al contesto: non possiamo mai sottrarci, fratelli e sorelle, alla fatica di valutare ciò che è giusto, ciò che è bene, in relazione alle situazioni concrete e reali, ai tempi storici che ci troviamo a vivere, che non sono quelli di Paolo, non sono neppure quelli dei nostri nonni.

E di farlo in spirito di libertà responsabile, che cioè si fa carico dell’altro/ dell’altra; e di amore.

Voglia essere questo lo Spirito che guida i nostri passi, il nostro cammino di crescita nell’amore, di “santificazione” (per usare il linguaggio a noi caro)

Sia questo lo Spirito che guida i nostri passi, dentro e fuori la comunità, nel tempo breve o lungo che dovrà trascorrere prima che la figura di questo mondo passi per sempre.

Amen

dica. Alessandra Trotta

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