Giobbe solo contro tutti, anche Dio. Tutti contro Giobbe, anche Dio.

In una invettiva contro i suoi amici, che lo accusano e gli fanno la lezione, anziché consolarlo, Giobbe passa in rassegna gli aspetti del suo isolamento. Il primo accusato è Dio (vv. 7-13): non ascolta le sue preghiere; mette ostacoli sul suo cammino; lo ha spogliato del suo onore; gli ha tolto ogni speranza; lo tratta come un nemico, anzi lo assale come un esercito.

A Giobbe viene deliberatamente negato il conforto della famiglia e della sua rete di relazioni (vv. 13-18): fratelli, famigliari, congiunti, ospiti della sua ricca casa lo evitano, neppure i domestici gli obbediscono più; appare repellente anche a sua moglie, persino i ragazzini lo disprezzano.

La cerchia delle sue relazioni lo aborre, gli voltano le spalle persino gli amici più intimi (v. 19).

Questo l’isolamento di Giobbe. Non una misura cautelativa o terapeutica, ma una reazione di giudizio e di condanna. L’ostilità di chi vuole avere ragione, di chi pensa di tenere le parti di Dio contro di lui che lo interpella, anzi lo contesta.  Intorno a Giobbe c’è solo chi lo respinge e sentenzia.

Giobbe vede la causa ultima di tutto questo in un ingiusto accanimento di Dio, con il quale vuole arrivare a discutere.  Il suo isolamento è emarginazione. È “appeso a un filo” (questo forse il senso dell’espressione “non m’è rimasta che la pelle dei denti”, v. 20).

È giunto al punto che implora gli amici di avere almeno pietà: “Pietà, pietà di me, voi, amici miei, poiché la mano di Dio mi ha colpito.  Perché perseguitarmi come fa Dio? Perché non siete mai sazi della mia carne?” (vv. 21-22)

Evidentemente Giobbe dubita che il suo accorato appello venga accolto.

Pensa perciò che la giustizia che egli rivendica possa, eventualmente, essere solo postuma. La sua causa può essere affidata soltanto a una memoria scritta, forse non su papiro o pergamena, ma incisa su un rotolo metallico, perché duri più a lungo. O scolpita nella pietra col bulino, versando piombo fuso nelle incisioni, per rallentarne l’erosione.

Anche la nostra storia è piena di riabilitazioni postume; non è una grande consolazione.

Dio contro Dio, davanti a Dio.

Dio contro Dio, per l’uomo.

A questo punto Giobbe parla dal suo completo isolamento, e dice qualcosa ex abundantia cordis. “Io so che il mio Redentore vive e che alla fine si alzerà sulla polvere.”  (Nuova Riveduta) Quanto a me, per parte mia, – è detto con enfasi, “io, proprio io so” –  io so che il mio redentore – colui che può difendere la mia causa, prendere le mie parti – vive, è vivo, qui dove io sono appeso a un filo, a un passo dalla morte, senza nessuno dalla mia parte, neanche Dio …

Io non avrei messo, a Redentore, la maiuscola nella traduzione della Bibbia, ma quasi certamente qui Giobbe parla di Dio e non di una figura umana o celeste (cfr. invece 9,33 dove lamentava che non ci fosse un “mediatore” nella causa tra lui e Dio o 16,19 dove si diceva convinto di avere in cielo un testimone che prendesse in alto le sue difese), ma ha in mente proprio Dio.

Il redentore si ergerà non tanto “alla fine”, ma come “l’ultimo”, come “colui che è ultimo” come anche è “primo”, cioè colui che sovrasta la creazione e la storia: lo dice Isaia 44,6 “Così dice Yhwh, re d’Israele e suo redentore: «Io sono il primo e io sono l’ultimo e oltre a me non c’è Dio.»” Lui sorgerà, lui si ergerà, estremo redentore.

Il v. 26 è complicato. La nostra traduzione: “E quando, dopo la mia pelle, sarà distrutto questo corpo, senza la mia carne, vedrò Dio” è troppo libera e presuppone che Giobbe dia un annuncio diretto della resurrezione dei morti ad opera del Messia (cfr. la nota di Diodati 1641). Letteralmente sarebbe così: “Anche dopo che avranno lacerato la mia pelle, dalla mia carne io contemplerò Dio”.  Giobbe non sa come ciò avverrà – nella sua vita, per la sua persona oltre la sua vita – ma sa che sarà.

Lo ribadisce al v. 27:  “Io lo vedrò [“a me favorevole” è un’aggiunta dei revisori della Nuova Riveduta]; lo contempleranno i miei occhi, non quelli d’un altro;  Le reni [= la vitalità il desiderio] si consumao in me [scil. per l’impazienza].” Nell’abisso, Giobbe è preso dall’ansia dell’incontro.

La situazione di Giobbe, al fondo dell’abisso – e le sue parole –  so che è vivo chi può essere per me anche se lo vedo contro di me, so che finirò eppure so che ci aspetta ancora un incontro personale, tu ed io, non qualcun altro – creano un paradossale campo di tensione.

Ed è in quel campo di tensione che, alla fine del libro, Giobbe potrà dire: “Avevo sentito dire di te, ma ora i miei occhi ti hanno visto.” (42,6)

Forse la cosa più bella che potrebbe esser data anche a noi in questi tempi bui è quella è di saper stare accanto a Giobbe, senza proclami, senza spiegazioni, ma presi nello stesso campo di tensione e sorretti dalla stessa attesa.

prof- Daniele Garrone

0 commenti

Lascia un Commento

Vuoi partecipare alla discussione?
Fornisci il tuo contributo!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.