,

Tu sei il re dei Giudei?

GIORGIO JOSSA,
Carocci, Roma, 2014,
pp. 250, Euro 21,00

Il recente libro di Jossa si inserisce nella ricerca sul Gesù storico con diversi intenti: a) riaffermare il valore storico del Vangelo di Marco, preferibile a quello di Giovanni; b) ricostruire una vita di Gesù non focalizzata su aspetti della sua predicazione (il regno, i miracoli, la legge) o della sua personalità (profeta, guaritore, maestro), ma su uno sviluppo del suo pensiero ed una graduale presa di coscienza della sua missione; c) prendere posizione nei confronti delle precedenti ricerche sul Gesù storico, ridimensionando i criteri della dissomiglianza e della plausibilità, che considerano autentici solo i detti di Gesù che, rispettivamente, non trovano o trovano un parallelo nel giudaismo del suo tempo. L’autore sottolinea affinità e diversità di Gesù con le principali correnti giudaiche e conclude che egli non può essere appartenuto né ai Farisei, né ai Sadducei né agli Esseni né ai seguaci di Giuda il Galileo, mentre mostrerebbe più affinità con i movimenti apocalittici, messianici e penitenziali, come quello di Giovanni Battista, di cui avrebbe sicuramente fatto parte nella prima fase della sua vita, staccandosene poi per la graduale acquisizione di un’autocoscienza messianica e per una svolta alla sua predicazione, che si sposta dall’annuncio del giudizio a quello del regno di Dio. La fase galilaica di Gesù è infatti caratterizzata dall’annuncio dell’imminenza del regno, che non sarebbe né la liberazione dall’oppressione romana, né la restaurazione escatologica del popolo di Israele, né la realizzazione utopica di uno stato sociale egualitario: anche qui Jossa sottolinea un’evoluzione del pensiero di Gesù, il quale avrebbe dapprima auspicato un regno terreno e solo in un secondo momento avrebbe maturato la concezione di un regno trascendente. Solo così si spiegano alcune contraddizioni dei Vangeli: da un lato l’elezione simbolica dei Dodici e l’entrata trionfale a Gerusalemme, segni di una concezione regale; dall’altro il riconoscimento di legittimità al potere romano espresso nell’episodio del tributo a Cesare. Segno concreto del regno di Dio sono i miracoli: il successo della sua attività di taumaturgo avrebbe convinto Gesù che il regno di Dio non era solo vicino, ma era già in qualche modo presente, segnando un’ulteriore svolta nel suo pensiero ed alimentando la sua coscienza messianica: pur senza condividere l’idea nazionalistica del Messia davidico, Gesù avrebbe gradualmente compreso di essere l’iniziatore di una nuova era, quella dell’avvento del regno di Dio. Strettamente legata al regno è anche l’etica di Gesù, come si manifesta nelle antitesi del discorso della montagna, che evidenziano non un contrasto con l’etica giudaica della legge, bensì una sua radicalizzazione. Particolarmente importante è il capitolo dedicato all’autocoscienza messianica di Gesù, in cui Jossa analizza gli episodi dell’ingresso a Gerusalemme, del tributo a Cesare e della purificazione del Tempio per ridimensionarli, negandone il collegamento diretto con la condanna a morte di Gesù, il quale ha comunque una concezione diversa della messianicità, che non rinvia ad un sovrano guerriero che rifiuta il dominio romano. Circa poi la comprensione dell’inevitabilità della propria morte, Gesù vi sarebbe arrivato solo dopo la salita a Gerusalemme, quando, dovendosi scontrare con le autorità, avrebbe capito di dover mettere in conto la possibilità di venire ucciso. Di questa consapevolezza sarebbero prova sia l’Ultima Cena, svoltasi prima della Pasqua, perché Gesù sapeva che non sarebbe arrivato vivo al giorno festivo, sia le parole da lui pronunciate, che fanno riferimento alla propria prossima morte. Non solo, ma Gesù, vedendo allontanarsi la venuta del regno, avrebbe deciso solo allora di inserire la propria morte nel piano salvifico divino. Un ricostruzione della vita di Gesù basata quindi su uno sviluppo graduale del suo pensiero, che ci rende questa figura più viva ed umana.

 

Antonella Varcasia

,

Dal battesimo allo “sbattezzo”

di PAOLA RICCA
Claudiana, Torino, 2015,
pp. 343, Euro 19,50

Questo complesso testo di Paolo Ricca affronta il sacramento cristiano per eccellenza, mettendone in luce origini, significato e prassi liturgica nelle diverse confessioni religiose. E’ quindi un libro storico, perché cerca di ricostruire l’istituzione e l’evoluzione del battesimo attraverso le Scritture e i documenti della prima cristianità e dei Padri della chiesa, fino alla svolta anabattista, alla Riforma e al Concilio di Trento, che hanno variamente influenzato le interpretazioni successive, per concludere con le proposte più moderne che tendono a superare l’attuale apartheid battesimale, segno di una divisione non tanto tra cattolici e protestanti, ma all’interno stesso del mondo evangelico.

Ma è anche un libro teologico, dogmatico e pratico, perché spiega ed argomenta le diverse posizioni e illustra approfonditamente le liturgie delle chiese cattoliche, ortodosse, battiste, evangeliche e pentecostali, mettendone in luce analogie e differenze.

Ma è soprattutto un libro ecumenico, il cui scopo non è quello di portare argomentazioni a sostegno dell’una o dell’altra interpretazione, o dimostrare la superiorità di una prassi o di una teologia, ma è quello di individuare gli elementi fondamentali comuni alle varie confessioni religiose, per pervenire al riconoscimento reciproco, nel rispetto delle specificità di ciascuno.

Al di là delle modalità liturgiche (aspersione o immersione, formula trinitaria o nome di Gesù, gesti rituali e simbolici, esorcismi, ecc.), o delle interpretazioni teologiche (valore salvifico attribuito all’acqua o idea della cancellazione del peccato originale), i due motivi fondamentali di divisione riguardano il battesimo dei bambini e il legame tra il battesimo d’acqua e quello di spirito. Sul primo punto Ricca, dopo aver esposto le prassi e le motivazioni scritturistiche e teologiche dei diversi schieramenti, e dopo aver ammesso che le Scritture e i testi antichi confermano una prassi maggioritaria del battesimo dei credenti, ma non escludono il pedobattismo, propone la soluzione del pastore battista Paul Fiddes, che concepisce il battesimo come un processo strettamente connesso ad un itinerario di formazione, che può precedere il battesimo o seguirlo, sfociando nella confermazione. L’unità può essere allora raggiunta attraverso il riconoscimento reciproco non delle prassi battesimali, ma del percorso di iniziazione, comune a tutti.

Quanto al secondo punto, il problema è se il dono dello spirito, che avviene nel battesimo, sia connesso con l’acqua o con l’unzione o con l’imposizione delle mani. Un elemento tipico del rito ortodosso, ad esempio, è l’unzione col myron, che costituisce un sacramento a sé stante, corrispondente alla cresima cattolica; anche i pentecostali considerano il battesimo dello spirito come un’azione separata da quella che porta, attraverso la conversione, alla confessione di fede del battesimo d’acqua: è un’esperienza distinta dal battesimo, generalmente accompagnata dal fenomeno della glossolalia. Anche qui Ricca suggerisce l’idea di Karl Barth, secondo il quale il battesimo di spirito precede quello d’acqua in quanto consiste nella conversione dell’uomo a Dio ed è quindi opera di Dio: come tale, è il fondamento della vita cristiana, il vero sacramento, mentre il battesimo d’acqua è la risposta del credente alla grazia concessagli di Dio, in ubbidienza al comandamento di Gesù.

Nell’epilogo viene spiegato il senso dell’unicità del battesimo cristiano, che si riallaccia al battesimo unico e irripetibile che abbiamo ricevuto sul Golgota. Non manca un brevissimo accenno alla curiosa pratica dello “sbattezzo”, che rende il testo completo ed esaustivo, forse un po’ appesantito dalla prolissa descrizione delle varie liturgie battesimali, ma di indubbio valore storico, teologico ed ecumenico.

Antonella Varcasia

,

Il Vangelo secondo Harry Potter

PETER CIACCIO,
Claudiana Editrice, Torino, 2011,
pp. 110, Euro 10,00

 

Non so se avete letto i libri di Joanne Rowlings che narrano le avventure del celebre Harry Potter o se avete visto i film tratti da quei libri, ma questo testo del pastore Peter Ciaccio vi farà desiderare di conoscere più da vicino questo personaggio e il mondo magico nel quale la sua saga è ambientata. Il titolo non deve ingannare: non si tratta di teologia “pura”, ma di un gustoso (per quanto serio) tentativo di ritrovare – nei libri come nei film della serie – echi e suggestioni cristiane o, più generalmente, bibliche, in polemica con chi vede in questi racconti fantasy uno strumento di Satana che, attraverso l’istigazione alla magia, spinge i ragazzi verso il Male. Niente di più falso: e Peter Ciaccio ce lo dimostra, rintracciando nell’opera della Rowlings i concetti di vocazione e di predestinazione, i temi della morte e dell’amore, gli inganni del potere e il senso della giustizia, e stabilendo addirittura un confronto tra le “maledizioni senza perdono”, proibite nella scuola di magia di Hogwarts, e il “peccato imperdonabile” contro lo Spirito Santo di cui parla Gesù nel Vangelo di Matteo. Queste suggestioni cristiane, di cui forse l’autrice stessa è inconsapevole, convivono nella sua opera accanto ad echi della mitologia classica, celtica e nordica, con l’effetto di indirizzare i minori verso una crescita responsabile e una giusta presa di posizione nell’eterna lotta tra il Bene e il Male. La saga di Harry Potter è un classico romanzo di formazione, in cui la magia è solo uno strumento per catturare l’attenzione dei lettori divertendoli e stimolandone la fantasia. Infatti, essa non è offerta come la facile soluzione a tutti i problemi: è un dono, ma è anche una conquista, perché la si raffina con l’impegno e lo studio, e il mondo magico in cui Harry si muove non è alternativo, ma parallelo al nostro e non è un mondo idilliaco, ma ripropone le stesse dinamiche del nostro mondo, gli stessi problemi, le stesse paure; inoltre, l’uso della magia è vietato al di fuori della scuola di Hogwarts. Perno centrale del pensiero della Rowlings sembra essere, secondo Ciaccio, il superamento di una visione dualistica del mondo, a favore di una maggiore complessità del singolo individuo: lo stesso Harry, lungi dall’essere l’eroe per eccellenza, è pieno di dubbi, incertezze e sfumature ambigue che lo rendono perfettamente “normale”. Il superamento del banale schematismo bianco-nero e buono-cattivo è un monito contro ogni razzismo, che ci riporta alle parole di Paolo nella lettera ai Galati: “Non vi è nè Giudeo, nè Greco; non vi è nè servo, nè libero; non vi è nè maschio, nè femmina, poiché voi tutti siete uno in Cristo Gesù”.

,

Piccola guida alla preghiera

PRITCHARD John,
Claudiana, Torino, 2011,
pp. 214, Euro 14,50

Consiglio a tutti la lettura di questo piccolo libro: è di quelli che lasciano il segno, che ci arricchiscono, non di nozioni, ma di spiritualità. Non è una raccolta di preghiere, né un trattato di teologia pratica, né una storia della preghiera, né un manuale in senso tecnico, ma una guida che vuole accompagnarci in un cammino spirituale, senza pretendere di darci insegnamenti su un’espressione così personale della fede come la preghiera che, per sua stessa natura, non può essere strutturata senza perdere la sua essenza, cioè la spontaneità e la sincerità, che non può obbedire a delle regole, non può essere inquadrata in uno schema senza diventare retorica, finendo per essere pronunciata con la bocca e non con il cuore. Il testo del vescovo anglicano Pritchard non ha questa pretesa, ma, con uno stile semplice, colloquiale, fraterno, ci conduce alla scoperta dei diversi modi di pregare, aiutandoci a comprendere qual è quello più affine alla nostra sensibilità: dalla preghiera-freccia (Dio, aiutami!), pronunciata di getto per un’improvvisa emozione, che stabilisce un contatto veloce, traducendosi in una chiacchierata con Dio in mezzo al frastuono degli adempimenti quotidiani, alla preghiera-conversazione, che affronta in modo serio le questioni importanti, riservando a Dio un tempo ed uno spazio esclusivi per ringraziarlo, implorare il suo perdono, chiedergli aiuto, fino alla meditazione, che comporta la pura contemplazione, l’ascolto del silenzio e l’intimo godimento di Dio. Ognuno di noi troverà rispecchiato il proprio modo di pregare. Non importa se siamo più portati ad una preghiera di tipo francescano, che soddisfa l’emotività, o di tipo celtico, che vede la presenza di Dio in tutti gli aspetti della vita quotidiana, o di tipo benedettino, che privilegia la dimensione comunitaria; non importa se il nostro modello di preghiera appartiene alla scuola di Pietro, più strutturata, o a quella di Paolo, più intellettuale, o a quella di Giovanni, più riflessiva: quello che conta è trovare tempo per un incontro con Dio. Pritchard sottolinea l’importanza non tanto della quantità di tempo che si dedica a Dio, quanto della costanza: stabiliamo noi ora, luogo e durata dell’appuntamento, ma non manchiamo all’incontro! Alternando suggerimenti, domande, citazioni, esercizi pratici, piccoli brani edificanti, episodi divertenti, brevi preghiere, Pritchard riesce a stimolare la nostra volontà di rendere più intimo il nostro rapporto con Dio, facendolo diventare a poco a poco il punto di riferimento costante della nostra vita. Il testo ci dice come tirar fuori dal profondo quello che vogliamo dire a Dio, ci insegna a trovare materiale per la preghiera in ogni atto della vita quotidiana, in ogni persona che incontriamo, ci spiega come dominare le distrazioni che spesso ci assalgono mentre preghiamo, ci mostra delle tecniche efficaci per ricordare gli altri a Dio nelle nostre preghiere (ad esempio, associare ad una diversa persona ogni dito della mano). Non tutto in questo testo è condivisibile: specie ad una mentalità protestante alcune tecniche, come l’uso di candele o di fotografie o di sedie particolari o di altri oggetti (ad esempio un sasso per rappresentare il peccato) o lo sfruttamento della sollecitazione estetica provocata da una musica, un quadro, una poesia, possono farci sorridere o addirittura sembrarci fuori luogo, ma, se ci lasciamo sedurre da ciò che è inconsueto, potremmo sperimentare modalità suggestive, come quella che risale ad Ignazio di Loyola, il quale rievocava un episodio del Vangelo coinvolgendo tutti i cinque sensi, immaginando di vivere in prima persona quell’episodio, di stare  faccia a faccia con Gesù e parlare con lui. Ognuno di noi, chi crede e chi no, chi è abituato a pregare e chi no, chi vorrebbe pregare, ma non sa da che parte cominciare, chi si vergogna, chi si rivolge continuamente a Dio: tutti trarranno giovamento da questo testo e ne usciranno arricchiti.

,

Martin Lutero (1483-1546)

MARIO MIEGGE,
Claudiana Editrice, Torino, 2013,
pp. 180, Euro 12,50

Il titolo di questo libretto è piuttosto fuorviante: non si tratta infatti di una biografia del grande Riformatore, né di un’esposizione della sua teologia: Lutero è solo il pretesto, in quanto iniziatore della Riforma, per indagare il complesso intreccio tra componenti storiche, sociali, politiche ed economiche che fanno da sfondo, ma anche da elemento propulsore della Riforma o che sono da essa influenzate. L’esposizione narrativa e lo stile scorrevole rendono facile la lettura, specialmente nella prima parte, più storica, che tratteggia le caratteristiche della società medievale, fondata sulla compenetrazione tra pubblico e privato; le origini della Riforma, da rintracciare anche nell’Umanesimo e nella diffusione della stampa e della lingua volgare, che l’hanno trasformata in una rivoluzione anche culturale; l’opera dei Riformatori. L’attività di Lutero è ripercorsa dalla scoperta di Paolo alle indulgenze, dalle 95 tesi alle bolle di scomunica, dalla critica al potere della Chiesa all’idea del sacerdozio universale, dalla discussione sui sacramenti al rapporto tra fede e opere, dalla libertà del cristiano alla dottrina dei due regni, dalla guerra dei contadini al contrasto con Muntzer e l’anabattismo. Anche l’apporto di Calvino è colto attraverso le sue fasi principali, dalla controversia con Sadoleto alla formulazione dei capisaldi del suo pensiero: il “soli Deo gloria”, la predestinazione, il concetto di Chiesa come compagnia dei fedeli, il conservatorismo politico, le differenze da Lutero. Alla teologia del patto, elaborata da Bullinger, vengono collegate la rivoluzione religiosa scozzese e la fondazione delle colonie americane. La parte storica si allarga  a comprendere la prima rivoluzione inglese e il Puritanesimo, visti come risultato di una crisi politico-religiosa dell’antico ordine sociale, che crea il passaggio dalla concezione medievale di confusione tra Chiesa e Stato ad una concezione di netta separazione; la seconda rivoluzione inglese; il risveglio wesleyano; la protesta mennonita: il tutto sullo sfondo dello sterminio degli Indiani d’America e della tratta degli schiavi come frutto dell’imperialismo anglosassone, conseguenza, a sua volta, della dottrina della predestinazione. Leggermente più ostico il capitolo sull’etica protestante, in cui si affronta l’idea del lavoro in Lutero e Calvino, attraverso la dottrina della vocazione, che diventa critica sociale, laddove, in nome di un dovere cristiano dell’attività e dell’impegno, si condannano l’ozio e l’improduttività e si respinge l’idea tradizionale della carità. Grande spazio è lasciato alla famosa tesi di Weber sul rapporto tra etica protestante e capitalismo e alla sua contestazione da parte di storici successivi, che spostano l’accento sugli aspetti politici più che economici del Puritanesimo, che per primo trasformò la politica in un fatto collettivo, in un movimento organizzato dal basso che, solo a seguito della Restaurazione, fu nuovamente confinato nell’ambito privato ed economico. Completa il libro un epilogo sull’influenza del principio protestante della ricostruzione di se stessi nella letteratura e nella filosofia dal 1700 al 1900, mentre due appendici, dedicate alle eresie medievali e alle Chiese riformate, restano a livello di semplici citazioni. In sostanza, un testo che ha forse l’ambizione di mettere troppa carne al fuoco, ma che riesce ad esprimere bene l’intreccio tra elementi storici, politici, economici e religiosi che sono alla base di ogni evento di rottura con il passato e di trasformazione.

Antonella Varcasia

,

I vangeli. Variazioni lungo il racconto

YANN REDALIE’,
Claudiana Editrice, Torino, 2011,
pp. 239, Euro 15,00

Punto di forza di questo testo è la dimostrazione della sostanziale unità della narrazione evangelica, attraverso la diversità dei racconti presentati dagli evangelisti, e la difesa di questa “pluralità limitata” come garanzia di libertà, che impedisce una chiusura nel dogma e nell’ideologia e apre invece al confronto e al dialogo. L’autore, dopo aver sottolineato l’importanza teologica del genere narrativo, in quanto mezzo attraverso cui viene trasmessa la rivelazione divina, e dopo aver tracciato una sintesi della nascita di Vangeli e Lettere e dell’iter di formazione del canone del Nuovo Testamento, passa in rassegna, attraverso i diversi racconti evangelici, i punti salienti della vita di Gesù, a partire dalle sue origini e dalla sua famiglia, per passare alle sue parole e alle sue azioni e concludere con la sua passione e la sua resurrezione. Già a proposito delle origini emerge la differenza tra Matteo e Luca nel presentare l’investitura di Gesù, cioè la legittimazione a compiere la sua missione: per l’uno la genealogia e il ciclo dell’infanzia che lo presentano come un nuovo Mosè; per l’altro l’inaugurazione del ministero pubblico a Nazareth con la citazione di Isaia, che lo presenta come il profeta liberatore atteso. Un intero capitolo è dedicato alla figura di Maria e al tentativo di darne un’interpretazione ecumenica, che superi le differenze di approccio tra protestanti e cattolici, trovando proprio nel Nuovo Testamento una diversità di ritratti, che danno una visione molto differenziata della madre di Gesù. Analogo atteggiamento è riservato alla famiglia di Gesù, in particolare al problema dei fratelli di sangue, con un esame accurato dei testi biblici e uno studio critico sulle interpretazioni date nei secoli su questo argomento. La sezione relativa alle azioni e alle parole di Gesù sottolinea l’importanza del genere narrativo, attraverso un’esegesi approfondita del miracolo dell’indemoniato di Gerasa e uno studio sul ruolo della parabola nella predicazione di Gesù. Si esamina poi il comandamento dell’amore per il prossimo, in particolare per i nemici, con un’interessante interpretazione dei concetti di “limite” e di “reciprocità” e un’analisi della parabola del Buon Samaritano. Il rapporto tra Gesù e il Tempio è occasione per discutere sul significato del sacrificio nell’ebraismo e sulle alternative al Tempio offerte da Qumran e da Giovanni Battista. La passione di Gesù è raccontata attraverso le diverse interpretazioni che gli evangelisti ne hanno dato, utilizzando le metafore del tempo (espiazione vicaria, sofferenza del giusto, riscatto), ma con un particolare riferimento al racconto di Marco e alla sua ironia drammatica. Per la resurrezione, invece, si prendono come riferimento il racconto lucano dei discepoli di Emmaus e quelli giovannei dell’apparizione alla Maddalena e dell’incredulità di Tommaso: in tutti i casi si sottolinea il rapporto tra presenza e assenza di Gesù, che ritroviamo nel racconto dell’ascensione, che apre alla svolta escatologica. Un capitolo è poi dedicato all’etica del Nuovo Testamento, sia in rapporto all’Antico, sia in relazione ai diversi approcci possibili (letteralista, idealista, analogico, aperto al confronto). L’opinione dell’autore è che Gesù proponga un cambio di prospettiva e un riordinamento della gerarchia dei valori, mentre Paolo propone un’etica dell’imitazione, non di tutta la vita di Gesù, ma solo della croce, e un’etica della libertà, in cui il punto di partenza è il prossimo. Conclude il testo un capitolo sulle diverse modalità di studio del testo biblico, la cui pluralità rappresenta per tutti i credenti un bene e una ricchezza.

 

Antonella Varcasia

 

 

,

Il racconto di Marco

RHOADS David, DEWEY Joanna, MICHIE Donald,
Paideia, Brescia, 2011,
pp. 241, Euro 25,40

 

La storia di un racconto che si legge come un racconto… E’ quanto fa questo testo di tre professori americani che, applicando al Vangelo di Marco i metodi dell’esegesi narrativa, lo analizzano come una fiaba o una novella. Innanzi tutto viene esaminata la figura del narratore, che in Marco, con la sua onniscienza, ha il ruolo di tenere informato il lettore, guidarlo, fornirgli informazioni privilegiate, che i personaggi del racconto ignorano, tenere alta la suspense, trasmettere il proprio punto di vista, e quindi il sistema di valori e credenze in esso implicito. Anche l’ambientazione ha il suo ruolo, quello di creare le condizioni entro cui si muovono, non casualmente, i personaggi. Per quanto riguarda l’intreccio, elemento costitutivo di ogni racconto, gli autori si soffermano in particolare sull’esame dei conflitti, utili per vedere il disegno degli eventi che dà significato alla narrazione. Ogni racconto consiste, in fondo, nel perseguimento di un obiettivo e nelle forze che confliggono nel tentativo di raggiungerlo o contrastarne il raggiungimento. Nel caso del Vangelo di Marco vengono analizzati tre tipi di conflitto: quello di Gesù con le forze non umane (demoni, malattia, natura), basato su miracoli ed esorcismi; quello con le autorità, visto nei termini di sconfitta e vittoria, perché esso porta Gesù alla morte, ma anche alla resurrezione; quello con i discepoli, caratterizzato dall’alternarsi di successo e fallimento. In ogni caso il conflitto riguarda lo scontro tra i valori del Regno di Dio e l’egoismo umano. I personaggi, divisi in quattro gruppi (il protagonista Gesù; l’antagonista, ossia le autorità; i discepoli e i personaggi minori) sono presentati dall’Evangelista con l’intento di sensibilizzare il lettore ad accettare la “via positiva”, ossia vivere secondo le regole del Regno di Dio, e rifiutare la “via negativa”, vissuta secondo le regole umane. Il narratore, perciò, orienta la presa di distanza o l’identificazione del lettore coi personaggi, suscitando simpatia o disapprovazione nei loro confronti. La parte conclusiva del libro è dedicata al lettore, quello di ieri come quello di oggi: un racconto, infatti, può diventare se stesso soltanto tramite il canale del lettore, che lo recepisce e gli dà significato. La lettura è un dialogo, da cui entrambi gli interlocutori possono essere influenzati: il narratore cerca di indirizzare il lettore, in questo caso invitandolo a diventare seguace di Gesù; il lettore subisce il fascino della storia fino a cambiare la sua vita o i suoi valori oppure, al contrario, rimane indifferente o la rifiuta. Per chi ne subisce il fascino questo testo aiuta a comprenderne il perché.

Antonella Varcasia

 

,

La nascita del giudaismo dallo spirito del cristianesimo

SCHÄFER Peter,
Paideia, Brescia, 2014,
pp. 188, Euro 22,00

E’ ormai acquisito che il cristianesimo non sia nato come una religione autonoma contrapposta al giudaismo, ma che anzi abbia avuto origine all’interno di esso, ma solo di recente gli studi si sono focalizzati sui rapporti reciproci tra i due movimenti e sull’influsso che a sua volta il cristianesimo ha avuto sulla nascita del giudaismo rabbinico. E’ proprio su questa influenza che si sofferma il testo di Schäfer, il cui pregio risiede soprattutto nella novità delle teorie sviluppate, nell’originalità del materiale studiato, nella prospettiva inconsueta da cui vengono analizzati i rapporti tra cristianesimo e giudaismo. La tesi di Schäfer è che i due sistemi di pensiero si sono sviluppati parallelamente dalla comune radice del giudaismo classico, influenzandosi a vicenda, prima di prendere strade diverse: il giudaismo avrebbe eliminato alcuni elementi presenti nella propria tradizione proprio in quanto usurpati dal cristianesimo, o, al contrario, si sarebbe riappropriato di tali elementi, riaffermandoli orgogliosamente proprio per ribadire la loro appartenenza originaria alla tradizione giudaica. Il libro si sofferma, in particolare, sul tema del messia bambino, sulla polemica contro la teologia binitaria e sul concetto del messia sofferente. Quanto al primo argomento, l’autore prende spunto da un racconto del Talmud palestinese, con la nascita del re messia Menachem a Betlemme e la sua sparizione ad opera di un vortice di vento, per analizzare questa tradizione, parallela a quella classica del messia adulto, e concludere che la storia talmudica sarebbe un capovolgimento ironico del racconto di Natale neotestamentario: in particolare, i sentimenti omicidi della madre nei confronti del figlio esprimerebbero il desiderio di uccidere il nascente cristianesimo. Il secondo tema viene affrontato sotto diverse angolazioni, per dimostrare che una parte del giudaismo cercava di ammorbidire il rigido monoteismo tradizionale. Tracce di una concezione binitaria della divinità si rinvengono infatti in diversi elementi e testi, come nella teologia della Sapienza, nei diversi nomi di Dio, nelle sue diverse incarnazioni, in particolare nella presenza di un Dio vecchio, giudice, e di un Dio giovane, guerriero. Schäfer avanza l’ipotesi di un’influenza della struttura dell’Impero romano di epoca dioclezianea, con la sua diarchia e la sua tetrarchia, i suoi augusti e i suoi cesari, e, studiando i motivi del Figlio dell’Uomo e dell’angelo Metatron nella letteratura canonica ed apocrifa, conclude che l’idea delle due potenze fosse presente soprattutto a Babilonia, in cerchie giudaiche che avevano risentito dell’influenza del cristianesimo: è qui che si ritrova l’idea di un essere umano straordinario asceso al cielo e trasformato in vicerè divino, idea che capovolge l’insegnamento neotestamentario, in cui è l’essere divino che si incarna, rinunciando alla sua divinità. Sull’ultimo punto Schäfer analizza un’altra figura di messia, appartenente alla stirpe di Efraim, il quale, a differenza di quello della stirpe di David, finisce ucciso nello scontro escatologico. Esso è presente in diversi testi giudaici, specie in alcune omelie, dove il ruolo di redentore è stabilito a monte da Dio: Efraim dovrà soffrire, dopo essersi incarnato ed essere stato inviato sulla terra, per poter permettere la creazione dell’uomo. Le tracce cristiane in queste omelie indicherebbero una riappropriazione giudaica di concetti usurpati dal cristianesimo. In conclusione, con la sua ricchezza di contenuto e di significato, il libro di Schäfer ha tutto il fascino della ricerca e costituisce un ulteriore passo avanti nella consapevolezza della nascita comune di giudaismo e cristianesimo, fratelli nutriti dallo stesso grembo.

 

Antonella Varcasia

 

 

,

Deuteronomio

GERHARD von RAD,
Paideia Editrice, Brescia, 1979,
pp. 231, Euro 18,00

Il “Deuteronomio” di Gerhard von Rad è un libro senza tempo: nonostante siano passati alcuni decenni, esso mantiene inalterato il suo fascino e la sua attualità ed è facilmente reperibile. Il merito è forse del suo linguaggio scorrevole e comprensibile, che fa luce su un testo “difficile”, come è comunemente ritenuto il Deuteronomio. A differenza di Genesi ed Esodo, che sono libri più narrativi, il Deuteronomio è un libro teologico: invece delle storielle dei Patriarchi e dei racconti del deserto, qui abbiamo lunghi discorsi di Mosè, elenchi puntigliosi di leggi che regolamentano ogni aspetto della vita, strani rituali di benedizione e maledizione. Tutto è finalizzato a sottolineare i temi che stavano a cuore al redattore deuteronomista: il monoteismo, il patto, la centralizzazione del culto, la separazione del popolo eletto dai Gentili. L’esegesi di von Rad, condotta secondo il metodo storico-critico, ci permette di districarci nella complessità del testo, evidenziando le stratificazioni che si sono succedute nel tempo e che sono attribuibili a fasi storiche, autori e quindi anche mentalità e intenzioni differenti. In tal modo riusciamo a capire i motivi di certe usanze per noi inconcepibili, come lo sterminio, a spiegarci certe contraddizioni, a chiarire l’oscurità di talune affermazioni, a riconoscere le formule tipiche e i generi letterari, a evidenziare le interpolazioni tardive. Von Rad spiega il testo puntualmente, capitolo per capitolo, versetto per versetto, ma la sua non è un’esegesi erudita, finalizzata a mostrare il suo sapere: è invece un’esegesi chiarificatrice, ricca di contenuto, ma condotta con un linguaggio accessibile a tutti. Particolarmente interessante è il raffronto tra i comandamenti in Esodo 20 e in Deuteronomio. Il decalogo sembra identico, ma von Rad ci fa capire che la diversa motivazione messa a base del rispetto del sabato sottolinea un mutamento nella struttura sociale, che ora si fa più attenta ai bisogni del popolo: il sabato associato non più alla creazione, ma all’uscita dall’Egitto, ed esteso a schiavi, stranieri e animali domestici, denota sensibilità psicologica e caritativa piuttosto che cultuale, come era invece nel racconto dell’Esodo. Allo stesso modo, la “spigolatura” è giustificata da un motivo non più sacrale (lasciare qualcosa per gli spiriti dei campi), ma umanitario (lasciare qualcosa per i poveri). L’autore si sofferma anche sulle diverse motivazioni che sono alla base della centralizzazione del culto, sulle varie interpretazioni dell’anno sabbatico, sul significato di alcuni termini, come “giustizia”, sul passaggio delle feste di Israele da celebrazioni di natura agricola a memorie della storia salvifica. Il Deuteronomio, infatti, recupera e attualizza antiche tradizioni cultuali e giuridiche: anche ciò che sembra più innovativo e rivoluzionario, come l’abolizione del principio della responsabilità collettiva, in realtà è, secondo von Rad, anteriore al Deuteronomio stesso, mentre altri elementi, come il concetto del ritorno di Israele, appartengono già all’opera storiografica deuteronomistica, in cui il Deuteronomio è stato letterariamente inserito. In conclusione, il commento di von Rad rappresenta un utilissimo strumento per affrontare la lettura del libro biblico, mettendoci in grado non solo di capire, ma anche di amare questo testo, di cui ci fa riscoprire il fascino e l’attualità.

 

,

I Salmi. Vol. I

ZENGER Erich, Paideia, Brescia, 2013,
pp. 203, Euro 18,80

L’esegesi dei Salmi condotta da Erich Zenger ha un taglio particolare, che la rende degna di nota, al di là della competenza storica, filologica e teologica di cui dà testimonianza. Il Salterio è interpretato all’interno del suo contesto veterotestamentario, ma con un risvolto attualizzante che ne motiva anche l’uso cristiano, tradendo l’impegno dell’autore nel dialogo Ebreo-Cristiano. Zenger, ad esempio, rifiuta il concetto che il Dio di vendetta sia tipico dell’Antico Testamento, esistendone testimonianze anche nel Nuovo, e intende le espressioni di odio di alcuni Salmi (ad es. Sl 137, 8) non come dogma, ma come forma di poesia, manifestazioni di paura, dimostrazione che Dio non è neutro di fronte al dolore. In questo primo di quattro volumetti previsti (due finora pubblicati) l’autore prende in considerazione alcune tipologie di Salmi, ad ognuna delle quali è dedicato un capitolo, con una breve introduzione sulla tipologia e l’analisi di due o tre Salmi per tipo. Per ogni Salmo l’autore effettua un commento generale ed un’esegesi specifica, con proposte di struttura e di datazione, analisi degli ambienti di utilizzo e delle modalità di composizione. Dopo aver spiegato l’inquadramento dei Salmi nella Bibbia, le diverse traduzioni, i titoli, il genere letterario, la metrica, il contesto vitale di produzione, l’autore analizza le diverse tipologie di Salmi: i primi due e gli ultimi due Salmi del Salterio, che fungono da cornice teologica e politica di tutto il libro; i Salmi di lamento e di ringraziamento, che erano recitati nella famiglia o nel clan o nel santuario locale; i Salmi della teologia di Sion, che hanno come riferimento il Tempio, e quelli della teologia del popolo di Dio, che riguardano il popolo. In particolare, il Sl 47 colpisce per la visione universalistica del popolo di Dio, probabilmente non abbastanza compresa dalla Chiesa quando canta questo Salmo nel giorno dell’Ascensione. Dei Salmi storici viene esaminato il Sl 114, in cui si propone un’attualizzazione dell’Esodo, mentre dai Salmi regali l’autore ricava il senso della responsabilità della politica sul benessere del popolo. All’opposto dei Salmi regali si trovano i Salmi che spostano l’attenzione sui poveri, in quanto alla base del Dio dei poveri c’è la mancanza di fiducia nel re. I Salmi di lode al Dio creatore, come il Sl 33, hanno il loro contesto nel culto ufficiale, in quanto, a differenza dei Salmi individuali di lamento e ringraziamento, essi cantano Jhwh come signore del cosmo, come Dio di un popolo. Di grande importanza teologica è il Sl 8, che mette a raffronto la maestà di Dio e la piccolezza dell’uomo, considerato sovrano degli animali, col compito di difendere la natura, come fa un buon re. L’ultimo capitolo è dedicato alla mistica di Dio, cioè al rapporto stretto, di relazione intima, che si instaura tra Dio e l’uomo: l’autore prende in esame, fra gli altri, il Sl. 23, reinterpretato non come canto di ringraziamento per il pasto rituale, ma come Salmo di fiducia che usa la metafora del pastore per indicare il buon re. In conclusione, un lavoro esegetico accurato ed approfondito, che esamina i Salmi sotto il profilo letterario, filologico, storico e teologico, che li inquadra nel loro contesto storico-geografico, spiegandone alcuni passaggi con richiami intertestamentari e legando alcune immagini alle tradizioni giudaiche o vicino-orientali, sulle quali ci fornisce interessanti informazioni: ad esempio, la differenza tra i gruppi dei Coraiti e degli Asafiti; l’uso dell’olio nel mondo antico; il motivo del giubilo, usato per l’incoronazione del re, per il raccolto, per la salvezza escatologica; il concetto del sogno profetico. Ma il merito maggiore di questo testo è il tentativo di accordare l’uso cristiano dei Salmi con la loro originaria destinazione giudaica, conservandone quindi il significato primario, che non viene svalutato, ma anzi rafforzato, ma da cui viene tratto anche un senso per la nostra spiritualità moderna e cristiana.

 

Antonella Varcasia