L’intruso

17 settembre 2017

Marco 1,40-45
Venne a lui un lebbroso e, buttandosi in ginocchio, lo pregò dicendo: «Se vuoi, tu puoi purificarmi!» Gesù, impietositosi, stese la mano, lo toccò e gli disse: «Lo voglio; sii purificato!»
E subito la lebbra sparì da lui, e fu purificato. Gesù lo congedò subito, dopo averlo ammonito severamente, e gli disse: «Guarda di non dire nulla a nessuno, ma va’, mostrati al sacerdote, offri per la tua purificazione quel che Mosè ha prescritto; questo serva loro di testimonianza».Ma quello, appena partito, si mise a proclamare e a divulgare il fatto, tanto che Gesù non poteva più entrare apertamente in città; ma se ne stava fuori in luoghi deserti, e da ogni parte la gente accorreva a lui.

Care sorelle e cari fratelli nel Signore,
anche in questa domenica il nostro libretto un giorno una parola ha proposto per la meditazione un altro brano tratto dall’evangelo di Marco.
Se vi ricordate domenica scorsa abbiamo riflettuto sulle parole di Gesù che ci hanno ricordato chi erano i membri della sua famiglia.
Sua sorella, suo fratello e sua madre erano quelli che ascoltavano e mettevano in pratica la volontà di Dio padre.
Oggi ci propone per la nostra riflessione l’episodio dell’incontro fra Gesù e l’uomo malato di lebbra.
Questo fatto l’evangelista Marco l’ha inserito, probabilmente, secondo gli esegeti nel primo capitolo del suo vangelo perché desse conferma dell’ autorità di Gesù di natura divina guarendo le malattie degli uomini, delle donne, dei bambini e delle bambine . Compiendole confermava di essere stato inviato da Dio, di essere suo figlio e mediante lui si scopriva la vicinanza di Dio e la sua presenza nella creazione tutta. Dunque, l’ autorità di Gesù di guaritore dei malati si riconosceva proprio nella manifestazione della forza(potenza) che aveva contro la morte.
Lui può ridare vita superando, vincendo tutte le manifestazioni della morte perché questo è il suo unico obiettivo. La sua ira si infiamma contro ciò che non è vita, Lui deve sconfiggere la morte in noi.
Nel primo capitolo del vangelo di Marco vi sono descritti i seguenti avvenimenti:
– la predicazione di Giovanni, quindi la sua testimonianza, il battesimo di Gesù compiuto da Giovanni stesso
– poi le tentazioni di Gesù da parte di Satana,
– poi dopo l’ inizio della sua missione in Galilea con i suoi primi discepoli,
– poi viene narrato il suo potere di scacciare il demone dall’uomo, la guarigione della suocera di Pietro
– e , infine, c’ è la guarigione dell’uomo con la lebbra.

L’evangelista Marco facendo in questo ordine la sua testimonianza ci istruisce che Dio si era avvicinato agli uomini e alle donne per stabilire tra di loro una comunione e formare delle nuove comunità.
In queste comunità giudeo-cristiane, grazie agli insegnamenti di Gesù, potevano vivere liberamente cercando di superare i loro pregiudizi e le tradizioni con un cambiamento di mentalità. Inoltre, Dio in Gesù si era avvicinato a quelli che non avevano più speranza di vivere con gli altri e di conseguenza, aiutava a cambiare la mentalità dei credenti in Lui. Il cambiamento della mentalità cioè la conversione, dunque, comporta il ritorno a Dio, grazie alla fede nella sua promessa di salvezza in Gesù Cristo , dell’umanità corrotta; tornare di nuovo a credere nella parola di Dio è l’invito che Gesù rivolgeva alla gente, al popolo che lo seguiva e ascoltava le sue predicazioni.
Questo episodio dell’incontro di Gesù con l’uomo lebbroso in Galilea doveva essere la prova della sua missione, profetizzata nel vangelo di Dio nei versi: <<il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; ravvedetevi e credete al vangelo>> Mc.1,15.

Così, il lebbroso ha cercato di avvicinarsi a Gesù, ha riconosciuto nella sua predicazione che il regno di Dio si era avvicinato a lui. Gesù è stato così tanto vicino agli uomini e alle donne che toccando solo la sua veste immediatamente guarivano come la donna malata dal flusso di sangue di cui soffriva da dodici anni. Ella diceva fra sé: << Se riesco a toccare almeno la sua veste, sarò guarita>>. Infatti, Gesù gli disse: <<coraggio, figliola; la tua fede ti ha guarita>>Matteo 9,20-22.
Solo Dio in Gesù uomo può fare questo ma non gli uomini come noi. Dunque, credere in Gesù è anche incontrare Dio.

Nel verso 40 dice: << Venne a lui un lebbroso e, buttandosi in ginocchio, lo pregò dicendo: «Se vuoi, tu puoi purificarmi!» 41 Gesù, impietositosi, stese la mano, lo toccò e gli disse: «Lo voglio; sii purificato!» 42 E subito la lebbra sparì da lui, e fu purificato.
Dio in Gesù ha voluto purificare il lebbroso come noi e risanarci dalle nostro malattie. Egli trasforma il nostro vecchio essere in uno nuovo. L’apostolo paolo dice: <<le cose vecchie sono passate: ecco , sono diventate nuove>> 2 Cor.5,17. Ognuno e ognuna di noi vive continuamente l’esperienza di sentirsi impuro a causa della imperfezione dovuto alla nostra ignoranza(mancanza di conoscenza o consapevolezza) che si manifesta nei nostri pensieri, e giudizi.
Ma siamo consapevoli che se Gesù in questo episodio ha sconfitto la barriera d’esclusione alla inclusione, dobbiamo rendere gloria a Dio nella nostra comunità e farci promotori e promotrici di questo messaggio evangelico, per i cittadini e gli stranieri.
Convertiamoci , ravvediamoci , torniamoci al nostro Signore. Inginocchiamoci davanti a lui e chiediamolo di farci sentire vivi. Io, tu abbiamo bisogno di incontrarlo personalmente e confessargli ciò che ci fa sentire morti senza vita e senza speranza.
Egli immediatamente ci risponde perché lui può ridare la vita.
Ognuno e ognuna di noi deve chiedergli innanzitutto quella vita che ci permette di rialzarci e che ristabilisce comunione quindi inclusione.
Noi siamo inclusi nel regno di Dio sulla terra.
Noi abbiamo ricevuto l’evangelo di Dio che ha superato l’esclusione.
Siamo giunti alla conclusione che ci ha risanati dalle nostre impurità per vivere e sperimentare la comunione. Il lebbroso ha sperimentato l’esclusione e l’inclusione e sta a noi scegliere di vivere la vera conversione che deve essere un cambiamento di mentalità , che è frutto della volontà di evolvere(crescere). <<Non c’è più né giudeo né Greco, non c’è più né schiavo né libero; non c’è né maschio né femmina, perché voi tutti siete uno in Cristo Gesù>>. Galati 3,28-29.
Così, Gesù ci riveste e ristabilisce la nostra comune cittadinanza. In lui possiamo avere una vita di pace e essere in pace con lui, con gli altri e con noi stessi. È fondamentale che chiediamo specificamente a Gesù ciò che vogliamo, quello di cui abbiamo bisogno per vivere bene.
Dobbiamo esaminare ciò che ci turba, ciò che ci paralizza e non ci fa andare avanti, perché solo così la nostra volontà si realizza secondo la sua.
Ciò è all’origine del bene che Dio vuole per tutta la sua creazione.
I versetti 43 e 44 nel primo capitolo del vangelo di Marco che abbiamo ascoltato dice: << Gesù lo congedò subito, dopo averlo ammonito severamente, e gli disse: «Guarda di non dire nulla a nessuno, ma va’, mostrati al sacerdote, offri per la tua purificazione quel che Mosè ha prescritto; questo serva loro di testimonianza». L’ammonimento all’uomo guarito dalla lebbra era di non divulgare ciò che era stato fatto nei suoi confronti, di tacere perché Gesù temeva che le autorità religiose l’avrebbero subito espulso dalle loro sinagoghe, ma disobbedendogli è proprio quello che è accaduto. Gesù era diventato avversario dei capi sacerdoti.
Di conseguenza alla testimonianza del lebbroso, Gesù subì l’esclusione dalla propria comunità di fede. Così veniva visto sin dall’inizio come l’avversario dei farisei, dei sacerdoti, dei sadducei, e di tutti i giudei incapaci di credere che fosse stato venuto da Dio. Nel verso 45 dice che l’uomo guarito dalla lebbra subito è andato a divulgare e proclamare ciò che gli era successo e così Gesù non poteva più entrare apertamente in città e se ne stava fuori nei luoghi deserti.
Insomma, il ritorno nella comunità dell’uomo guarito da Gesù è stato la causa dell’esclusione di Gesù dal suo popolo.

Questo episodio però ci porta a dare attenzione ad un aspetto molto importante nelle nostre vite oggi, ossia all’invito a credere alla potenza di Dio che è presente nella nostra vita quotidiana.
Uno dei nostri principi fondamentale dice che la fede nasce dall’incontro personale fra Dio e l’uomo. In questo caso Dio in Gesù ha voluto incontrare l’uomo malato, impuro agli occhi degli uomini, vivo ma considerato morto da se stesso perché nessuno l’ ha voluto avvicinare, è stato discriminato a causa della sua malattia. Solo da questo incontro con il Dio che è stato capace di purificarlo, che gli ha ridato la vita, l’ha fatto sentire vivo l’uomo si è rialzato dal suo giaciglio e ha dato una vera testimonianza della presenza di Dio.

Gesù ha chiesto al lebbroso di fare un’offerta per la sua guarigione davanti al sacerdote come tradizione e segno di testimonianza che Dio l’ha guarito ma essendo un uomo malato che ha avuto la guarigione non ha potuto tacere. Infatti, andare a proclamare ciò che ci accade come miracolo è un segno e testimonianza di fede , è la testimonianza di chi crede. Romani 10,10: <<Infatti con il cuore si crede per ottenere la giustizia e con la bocca si fa confessione per essere salvati >>. La volontà di Dio di operare il bene nella vita di ognuno di noi richiede da parte nostra la proclamazione della sua gloria e testimonianza operosa . Egli gradisce parole e fatte da noi tutti.
Il lebbroso era considerato impuro. Non gli era permesso di avvicinarsi ad altri , ai puri. L’uomo lebbroso era escluso dalla comunità di Dio. Il concetto di impurità, quello che significava allora essere impuri, ci ammonisce di fare attenzione ora quando sorgono continuamente tensioni, e conflitti nelle nostre comunità di fede.
Ricordiamoci, da quando Gesù ha cominciato la sua attività ministeriale, essendo stato con i pubblicani e peccatori ha messo in discussioni le tradizioni dei nostri padri( le nostre tradizioni) andando oltre i limiti che determinavano l’esclusione per portare l’inclusione. Gesù nella pratica dei suoi insegnamenti ha voluto che si distruggessero le credenze che purtroppo sono tuttora alla base dei nostri pregiudizi.
Allora, nell’antichità si credeva che la lebbra fosse una malattia incurabile e il lebbroso era definito un uomo morto vivente(a living dead man).
Nella lingua filippina si dice taong buhay na patay.
Ora grazie al lavoro della ricerca medica può essere curata con la polichemioterapia e dopo due settimane dall’inizio del trattamento, la malattia non è più contagiosa.
Noi pastore e pastori delle chiese evangeliche, ogni anno riceviamo il calendario che promuove la missione evangelica contro la lebbra Onlus e il 25 gennaio è la giornata mondiale contro la lebbra.
Questo anno il testo biblico che posto sulla copertina del calendario è quello di Geremia 30,17 che dice: <<… io medicherò le tue ferite, ti guarirò dalle tue piaghe>> questa è la promessa di Dio.
Che sia fatta Sua la volontà in ognuno e ognuna di noi. Amen.

1

Raccontare la fede

3 settembre 2017

Isaia 29,17-24
Battesimo di Riccardo

Ancora un brevissimo tempo, e il Libano sarà mutato in un frutteto, e il frutteto sarà considerato come una foresta.  In quel giorno, i sordi udranno le parole del libro e, liberati dall’oscurità e dalle tenebre, gli occhi dei ciechi vedranno;  gli umili avranno abbondanza di gioia nel SIGNORE e i più poveri tra gli uomini esulteranno nel Santo d’Israele;  poiché il violento sarà scomparso, il beffardo non sarà più, e saranno distrutti tutti quelli che vegliano per commettere iniquità,  che condannano un uomo per una parola, che tendono tranelli a chi difende le cause alla porta e violano il diritto del giusto per un nulla.  Perciò così dice il SIGNORE alla casa di Giacobbe, il SIGNORE che riscattò Abraamo: «Giacobbe non avrà più da vergognarsi e la sua faccia non impallidirà più.  Poiché quando i suoi figli vedranno in mezzo a loro l’opera delle mie mani, santificheranno il mio nome, santificheranno il Santo di Giacobbe, e temeranno grandemente il Dio d’Israele;  i traviati di spirito impareranno la saggezza e i mormoratori accetteranno l’istruzione».

Care sorelle e cari fratelli, caro Riccardo, cari Cristiano e Giuseppe, cara Caith Zeon che oggi fai il compleanno, care bambine e cari bambini,

è soprattutto a voi che oggi mi rivolgo per prima cosa, anche se forse non riuscirete a seguire tutto il mio discorso. La prima cosa che vorrei invitarvi a fare, quando vi chiederanno qual è la vostra chiesa, è di rispondergli che siete cristiani evangelici, protestanti, che la vostra chiesa è quella metodista di Roma, e che la nostra fede si ispira ad una generazione di teologi che hanno riformato, cioè riportato la Chiesa alla sua vocazione originaria, all’evangelo di Gesù Cristo. Questo lo hanno fatto partendo dalla Bibbia, perciò la seconda cosa che vi chiedo è di ricordare ai vostri genitori di leggervi la Bibbia che al battesimo vi è stata regalata!
Da allora sono passati cinquecento anni, che hanno cambiato profondamente proprio il modo in cui la gente pensa e parla di Dio… Nel XVI secolo era sulla bocca di tutti: che cosa voleva Dio da noi, che cosa potevamo fare noi per lui, se poteva aiutarci… Oggi, invece, nessuno vi parlerà di Dio e se lo farà, la maggior parte delle volte lo farà in modo sbagliato, per cui dobbiamo stare molto attenti! Il più delle volte sentiamo chiamare Dio dai terroristi che gridano: Dio è grande, prima di uccidere le loro vittime. Oppure sarà invocato da chi, nel suo nome, cerca di imporvi dei limiti, dei vincoli, perché vorranno usare Dio come uno strumento per accrescere il loro potere.
Per lo più, però, non ne sentirete parlare, e pochi vi diranno di aver fatto le scelte fondamentali della loro vita nel suo nome: la società europea contemporanea non parla volentieri di Dio, e se questo avviene è anche a causa dei troppi cristiani che nel passato hanno creduto che fosse giusto uccidere altre persone nel nome di Dio. Per impedire la riforma della chiesa, che procedeva in maniera pacifica, infatti, già nel XVI secolo sono state scatenate delle feroci guerre contro i protestanti che, però, alla fine non hanno perso ma neanche hanno vinto, e così noi siamo ancora qui, in questo mondo che non ama parlare di Dio. Un giorno, cari bimbi, vi racconteremo questa storia… Ma oggi vorrei che riflettessimo un attimo sulla domanda: perché Dio accetta questo silenzio su di lui? Perché accetta che altri dei parlino più forte e impongano il loro volere alle persone? Perché Dio non parla ad alta voce e si impone su tutti gli altri?
Il silenzio di Dio, dunque, o meglio il desiderio degli antichi Israeliti di ricevere di nuovo da lui parole chiare e comprensibili, è lo sfondo su cui si colloca il brano che abbiamo letto dal profeta Isaia. Nel suo oracolo, infatti, vediamo come il popolo d’Israele sia veramente nei guai: con la sua ingiustizia, soprattutto con l’empietà dei ricchi e dei potenti, ha fatto adirare il suo Signore, e questi annuncia tempi duri e difficili, tempi di punizione per il peccato. Quando il Signore si arrabbia, però, invece di far scendere fuoco e fiamme dal cielo, sceglie di tacere: la sua voce non risuona più in mezzo al popolo, che si illude per questo di poter nascondere a Lui i suoi empi piani. I profeti ed i veggenti tacciono. La Parola di Dio è divenuta come un libro sigillato, che nessuno riesce ad aprire. Il popolo, allora, non conosce più che cosa è giusto e pensa di poter seguire altre vie, di poter continuare a commettere i propri crimini approfittando di questo silenzio, invece di capire che proprio questo silenzio è il segno del giudizio di Dio. Per questo andranno dritti alla rovina e solo dopo riusciranno di nuovo a sentire la voce di Dio, riconoscere e comprendere la sua volontà, e ricevere la sua parola di grazia.
Questo superamento del silenzio avviene per Isaia in tre momenti. Nel primo arriva il giorno del Signore e i giusti, gli umili ed i poveri vengono riscattati dalla loro condizione di miseria. Nel secondo, quasi un contraltare del primo, i ricchi, i potenti, gli arroganti vengono puniti da Dio. Nel terzo si annuncia la conversione di Israele di fronte alla grande opera di Dio: il ristabilimento del popolo. Di fronte alla parola di Dio sulla giustizia il malvagio si converte, perché sa finalmente che cos’è la verità.
Una parola molto forte, che suona attuale ancora oggi, dopo duemila e ottocento anni… Anche oggi, come allora, chi ha il potere si accaparra tutte le risorse del paese e riduce in miseria il resto della popolazione, distruggendo il pianeta in cui tutti viviamo. L’accusa dei profeti era chiara allora ed è chiara anche oggi: la classe dirigente aveva abbandonato Dio, ed aveva scelto un’altra strada lontano dalla sua giustizia. Era diventata sempre più avida e tutto il “progresso” lo aveva piegato al suo vantaggio. Su di loro e sulla loro corruzione il profeta annuncia il giudizio di Dio. Nel suo silenzio, questi non potranno che arrivare fino al colmo della loro condanna e non hanno più alcuna speranza di redenzione. E con loro quanta gente si rende complice, anche solo con il suo silenzio?
La condanna, dunque, è forte e chiara, e io credo che noi dovremmo cominciare il nostro anno ecclesiastico con una seria riflessione ed analisi della situazione in cui viviamo, per poter tornare a fare risuonare la nostra voce per proclamare la giustizia di Dio. Dobbiamo chiederci chi sono gli empi e chi sono gli umili, chi sono i ricchi che pervertono il diritto e chi sono quelli che umiliano il giusto. Dobbiamo chiederci dove sta il male di questo mondo e tornare a proclamare giustizia di Dio, per porre i potenti di fronte alla Sua volontà. Alla fine quello che conta sarà la sua volontà di giustizia, quando gli umili saranno innalzati, mentre potenti ed empi saranno umiliati. Quel giorno, dice Isaia, di fronte alla manifestazione della giustizia di Dio come ultima e definitiva parola sull’umanità, Israele si convertirà e tornerà al Signore.

A differenza del tempio di Isaia, in cui si aspettava il giorno del Signore, noi cristiani vediamo nella resurrezione di Gesù la realizzazione di quella promessa. In Gesù Cristo noi abbiamo la certezza che l’ultima parola appartiene a Dio e che in Gesù si sia manifestata come parole d’amore. Chi riceve questa testimonianza è rimandato a Dio e può convertirsi. L’evangelo significa che, per chiunque si avvicina a Dio con il desiderio di ascoltarlo, quelle parole non sono più sigillate e in Cristo le possiamo comprendere con chiarezza: sono parole di giudizio, certo, ma soprattutto parole di vita e di speranza. Il battesimo di Riccardo, oggi, ancora una volta ha spezzato questo silenzio e in maniera simbolica fa prorompere la parola d’amore di Dio nel mondo. Caro Riccardo, nella Bibbia che hai ricevuto oggi ci sono queste parole, fattele leggere, ascoltale e lascia che ti accompagnino nel corso della tua vita! Proprio come dovrebbe fare ogni cristiano, soprattutto ogni cristiano evangelico. Se Dio ha scelto di rimanere in un silenzio di condanna nei confronti dei peccati dell’umanità, ha scelto anche di parlare chiaramente ad ogni cuore che a lui si accosta, perché nel mondo risuoni la sua condanna del male e il suo desiderio di amore e di vita. Ha scelto di manifestare tutto questo in Gesù, nella sua storia, una storia d’amore che ci viene raccontata nella Bibbia. Non stanchiamoci di leggerla, di meditarla, di farla nostra nel silenzio della nostra casa e nella gioia del culto domenicale: Dio non ci lascia soli nel silenzio del suo giudizio, ma ci parla con parole d’amore in Cristo.

Amen

past. Eric Noffke

Essere comunità insieme

27 agosto 2017

Salmo 133 L’amore fraterno
At 4:32; Fl 2:1-4
1 Canto dei pellegrinaggi. Di Davide.
Ecco quant’è buono e quant’è piacevole
che i fratelli vivano insieme!
2 È come olio profumato che, sparso sul capo,
scende sulla barba, sulla barba d’Aaronne,
che scende fino all’orlo dei suoi vestiti;
3 è come la rugiada dell’Ermon,
che scende sui monti di Sion;
là infatti il SIGNORE ha ordinato che sia la benedizione,
la vita in eterno.

Atti 2,42.44-45
Ed erano perseveranti nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e nella comunione fraterna, nel rompere il pane e nelle preghiere.
Tutti quelli che credevano stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; vendevano le proprietà e i beni, e li distribuivano a tutti, secondo il bisogno di ciascuno.

Care sorelle e cari fratelli nel Signore, come forse avete già notato non ho scelto un testo biblico specifico per la predicazione di oggi ma le due letture bibliche che abbiamo ascoltato mi hanno stimolato a condividere con voi queste mie riflessioni.

Vorrei cominciare allora con questo racconto. Un giorno un giovane in procinto di sposarsi chiese a suo padre, “secondo te come andrà la mia vita matrimoniale?”

La risposta che ebbe fu “dipende!” poi girate le spalle il padre se ne andò, il figlio rimase perplesso perché non aveva compreso quella risposta.

La notte che precedeva le nozze, il padre preparò una lettera al figlio nella quale scrisse: “Mio caro figlio, mi hai chiesto come sarebbe andata la tua vita matrimoniale ed io ti ribadisco dipende, sì, dipende in quale mani tu la metterai come per tutte le cose;

infatti un bastone nelle mie mani non servirebbe che per appoggio nel cammino, ma nelle mani di Mosè servì per dividere il mare.

Una fionda nelle mie mani potrebbe essere insignificante, ma nelle mani di Davide diventò una terribile arma che uccise il gigante.

Pochi pani e pochi pesci nelle mie mani basterebbero a sfamare una sola persona, ma messi nelle mani di Gesù ne sfamarono cinquemila.

Dei chiodi infissi nelle mie mani produrrebbero solo un orrendo dolore, ma messi nelle mani di Gesù hanno prodotto la salvezza dell’intera umanità.

Si figlio ricordati, tutto dipende dalle mani in cui riponiamo le cose che più amiamo”.

Gesù disse ai Giudei : “Il Padre mio che me le ha date è più grande di tutti: e nessuno può rapirle di mano al Padre” (Giovanni 10: 29)

Care sorelle e cari fratelli nel Signore,

ben tornate! Come state? Com’è andata la vostra estate?

Come avete trascorso la vostra vacanza?

E penso che mi avreste chiesto anche voi, com’è andato il Sinodo delle chiese metodiste e valdesi in Italia?

Innanzitutto, vi dico la verità che è stato per me una grande gioia sin da quando ho saputo che ci saremmo andati a parteciparlo con delegazioni di numero più elevate nella nostra comunità: Maria Laura Sbaffi per il distretto, Lucia Doria per il circuito, Laura Nitti per la consulta delle chiese nel territorio romano, Antonella Varcasia per il consiglio della facoltà valdese, Eric Noffke professore della facoltà, Luca Baratto per la FCEI, , Fabio e Luciano uditori ma per la nostra comunità si impegnano per la comunicazione, Giulio Maisano predicatore locale e non solo, la pastora Mirella Manocchio rieletta presidente del CP – OPCEMI e Claudio Paravati membro di esso e direttore della rivista Confronti. E’ davvero un bel gruppo!

Così potrete anche sentire da loro le esperienze e le opinioni soprattutto sulla vita delle chiese che possono servire per noi di confronto. La valutazione globale del lavoro che abbiamo fatto nelle nostre chiese e come ha influito la nostra vita quotidiana e il nostro agire nella società, è fondamentale soprattutto per l’essere chiesa insieme. Sì, sono d’accordo con la risposta del papà del neo-sposo che tutto dipende dalle mani in cui riponiamo le cose che più amiamo”.

Sì, ricordiamoci ‘tutto dipende’ da come investiremo le nostre forze per servire meglio il Signore e la nostra chiesa. Sì, tutto dipende da come utilizzeremo i nostri mezzi per fare sempre meglio la nostra testimonianza di fede che riponiamo e rimettiamo nelle mani del Signore nostro. Mi ricordo molto questa risposta del padre al figlio prima che avrebbe intrapreso un impegno che dovrebbe durare fino alla fine del rapporto coniugale.

Dipende dice il padre al figlio, tutto dipende dalle mani cui puoi affidare tutte le cose che hai e che fai. Nel matrimonio si dichiara un comune patto di convivenza di due persone che si amano, è un accordo mutuo di due individui in cui legami di comunione si intensificano, si intrecciano in rapporto con dei beni materiali e quelli spirituali che hanno e ricevono a vicenda. Il loro star bene dipenderà dal loro modo di agire e affrontare le loro responsabilità ricordando sempre il loro comune accordo.

Nel matrimonio civile di un parente (di mio nipote) al quale ho assistito e ho rinnovato la mia considerazione sul confronto tra il patto d’amore e di fedeltà eterna di Dio al suo popolo e quello del patto matrimoniale di due nuovi sposi.
Il patto fra due persone che si dichiarano di amarsi l’un l’altro, e di conseguenza di promettere e intraprendere il cammino insieme è il punto di partenza per una vita di comunione e di impegno. Il legame coniugale si spera di consolidarlo nelle esperienze di gioia e di dolore. L’Amore li aiuterà ad affrontare anche le sfide nelle situazioni difficili e nelle prove più dure. Leggiamo nella prima lettera di Giovanni cap. 4 il versetto 8: <<Dio è amore >> quindi l’amore vero viene da Dio. Dunque, è fondamentale riconoscere che il legame matrimoniale è un patto in cui l’amore di Dio viene espresso. Esso è una parte integrante della vocazione al matrimonio del credente che possa aiutare a sostenere ogni impegno intrapreso. È in quell’amore di Dio che si muovono entrambe, le due persone saranno protette, coperte e tutelate.

Ai primi convertiti al cristianesimo, coloro che hanno creduto l’evangelo in Gesù Cristo , la nuova VIA per accedere al regno di Dio (alla casa del padre) la comunione fraterna era il momento clu della loro vita , cioè il nostro essere chiesa insieme.

42<<Erano perseveranti nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e nella comunione fraterna, nel rompere il pane e nelle preghiere. 43 Ognuno era preso da timore; e molti prodigi e segni erano fatti dagli apostoli. 44 Tutti quelli che credevano stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; 45 vendevano le proprietà e i beni, e li distribuivano a tutti, secondo il bisogno di ciascuno.

Sì, anche il benessere(ben stare) della nostra vita comunitaria dipende dalle cose che abbiamo, dalle risorse che abbiamo, tutto ciò che facciamo insieme, che siano accompagnate con una preghiera silenziosa personale e comune offriamole prima a Lui poiché ce le ridà spezzate e moltiplicate secondo il bisogno di ciascuno di noi per la sua edificazione.

Per raggiungere i nostri obiettivi ci vogliono le sue mani e le nostre, i frutti che raccoglieremo sicuramente la crescita e trasformazione continua della nostra vita.

Ricominceremo con la nostra comune accordo per programmare le nostre attività ecclesiastiche e saranno svolte bene o male, tutto dipende dalla preparazione e cura, dal tempo che dedicheremo prima, da ognuno di noi soprattutto da me nel saper coordinare con le sorelle e fratelli che si sono dati la loro disponibilità di aiutare per la chiesa del unico Signore Dio.

Per questo motivo vorrei condividere con voi le mie diverse considerazioni che penso siano utili per noi per ricominciare a riflettere sulla nostra vita comune d’Essere Chiesa Insieme ed è no degli argomenti che abbiamo discusso molto al Sinodo.

Primo, nei mesi di aprile e maggio, i membri del consiglio di chiesa hanno deciso di aggiornare l’elenco dei membri della comunità, e così hanno verificato che nel registro dei membri mancano i nomi di quelli che sanno che frequentano spesso i culti domenicali e i pranzi comunitari. Perciò io insieme alla past. Manocchio e all’animatrice giovanile Sara Mae Gabuyo, abbiamo preparato un modulo da compilare per il gruppo dei filippini e da distribuire a ciascuno e a ciascuna.

Poi, ci stata una riunione del gruppo per discutere se è necessario essere iscritto membro metodista di via XX settembre. Era una discussione molto intensa si sono immersi dei pensieri molto importanti su cui possiamo noi tutti riflettere proprio le caratteristiche del nostro battesimo e della nostra conversione come dice nel libro degli Atti. Alcuni sono andati via perché hanno ritenuto che bastava soltanto frequentare i culti domenicali e partecipare ai pranzi comunitari. Si è verificato anche che essere iscritto nel libro dei membri non li importavano. L’ abbandono alla comune adunanza ha recato di nuovo la tristezza a quelli che hanno ritenuto giusto diventare membro di questa comunità e che hanno capito l’importanza di essere parte integrante di questa comunità paragonata ad un corpo umano.

Io parlando con il gruppo su questo punto, mi ha fatto riflettere che un credente che non sente di costruire il suo rapporto con i membri della comunità a partire dal essere iscritto il proprio nome, da una parte non sembra dare interesse all’appartenere di un corpo e dall’altra parte non si sente responsabile nei confronti dei fratelli e delle sorelle, membri di questa chiesa.

Secondo, uno che ha formato e fa capo ad un altro gruppo dei filippini che ha frequentato anche la nostra comunità nel passato ha chiesto di celebrare la benedizione del matrimonio del figlio qui il 15 agosto. Egli ha contattato la nostra presidente del Consiglio Maria Laura Sbaffi per chiedere la disponibilità nostra e se il tempio è libero e così poi ho saputo tutto.

In questo tempio, sono passate tante persone e facciamo bene a prenderlo cura e tenerlo in ordine e che sia a disposizione di tutti e di tutte ma la comunione dei membri ha un valore e effetto nel nostro rapporto di chiesa che si costruisce fra i membri così ricordiamo anche oggi il rispetto che dobbiamo verso l’uno l’altro/l’una l’altra. Spero che i miei connazionali si rendano consapevoli che cosa hanno avuto da questo luogo e anche il privilegio di chiamarsi essere chiesa insieme. Spero che imparino anche a dare il dovuto rispetto.

Queste esperienze ci servono perché avere una comunità come questa ci è necessaria per avere un confronto e dialogo franco e onesto e perché abbiamo più riguardo alla nostra vita eterna nel vivere insieme come dice il salmista del 133 che abbiamo letto e ascoltato prima. La benedizione di Dio si riceve nel nostro stare insieme, nel vivere in comunione con l’altro e l’altra.

Non voglio essere fraintesa ma il nostro legame di fraternità in Cristo Gesù che è la causa della nostra conversione donato a partire dal nostro battesimo è la motivazione primaria della accoglienza che pratichiamo fra noi, è come modo di dare e ricevere noi stessi, segno visibile(l’immagine dell’ essere corpo di Cristo). 1 Cor.12.

Terzo, da maggio che non vado più a Pescara e la coordinatrice del gruppo dei filippini mi ha aggiornato che cosa stanno facendo e sta succedendo nella loro comunità. Era molto felice di raccontarmi al telefono che continuano a radunarsi a casa per leggere la Bibbia e condividere la loro riflessione in relazione al loro vissuto di giorno in giorno. Loro mi aspettano e si fortificano tra di loro. Questo fatto mi rallegra molto.

Che succederà in comunità quando ci sono dei cambiamenti? L’atteggiamento che dobbiamo avere è di portare davanti a Dio e pregarlo che non ci fa mancare il nostro senso di comunione, simpatia e affetto.

In questa estate abbiamo vissuto e esperimentato la siccità e tutt’ora.

Oltre il problema da affrontare sull’immigrazione abbiamo vissuto il caldo, non pioveva quindi la terra era molto asciutta e si limitava di attingere l’acqua dal lago di Bracciano. La crisi idrica è stata una calamità naturale! Il calore provoca l’incendio e anche l’uomo pieno di ira coglieva l’occasione di accendere il fuoco e bruciare i nostri boschi. L’uomo con il suo cattivo pensiero ha coinvolto il cielo e la terra a non donare più l’acqua. Quanti di noi hanno pregato Dio perché vi sia pioggia? Perché si spengano gli incendi che aumentino sempre di più il calore.

Domenica scorsa, il nostro un giorno una parola ha proposto di riflettere sul patto di Dio sul monte di Sinai e abbiamo questo ricordo della presenza di Dio come un’ Aquila madre che ha avuto cura del popolo di Israele. Sono stati anni di vissuto in cui Dio ha dimostrato di aver avuto cura al popolo di Israele e credo anche alle nostre chiese.

La figura di Mosè è fondamentale per la salvezza del popolo di Israele. Immaginate che tramite lui, Dio ha fatto uscire il popolo di Israele dal paese di Egitto, l’ha potuto strappare dalla mano del Faraone, dagli Egiziani che lo avevano dominato e soggiogato, schiavizzato duramente per essere serviti. Loro, seguendo Mosè sono arrivati alla loro destinazione sani e salvi.
Guardiamo e osserviamo in televisione molte persone, uomini, donne, genitori con i loro bambini e bambine, che intraprendono un viaggio ma non sono sicuri di arrivare alla loro destinazione perché non sono affidati ad una guida sicura come era Mosè. Sul gommone, in camion si ammucchiano come delle sardine e purtroppo muoiono e così non sono completamente liberati dalla guerra, dalla violenza, dalla povertà, dalla fame, dall’egoismo, dal dominio perché non hanno raggiunto la loro liberazione ma la morte.
Ci vogliono oggi molti Mosè e l’Aquila madre che con un patto d’amore ci portino alla salvezza.

Il patto di integrazione fra le chiese metodiste e valdesi è vissuto anche con Amore, un legame in un unico Dio a cui le chiese si rifanno, grazie all’esempio di vissuto del popolo di Israele scritto nelle Sacre Scritture.

Così noi pastori e pastore suoi collaboratori e collaboratrici siamo chiamati a ricoprire l’impegno e la dedizione che Dio continua a manifestare per il suo popolo.
Nel nostro campo di lavoro in cui ci troviamo ad operare, ci ritroviamo spesso a dover fare anche come Mosè. Noi invochiamo Dio con un grido di aiuto a Lui per affrontare i nostri impegni fedelmente. E così saremo sicuri che siamo sempre nelle mani sicure perché la sua promessa di grazia, misericordia e perdono ci giungerà . Amen.

I due figli

6 agosto 2017

Matteo 21,28-32

Parabola dei due figli
«Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli. Si avvicinò al primo e gli disse: “Figliolo, va’ a lavorare nella vigna oggi”. Ed egli rispose: “Vado, signore”; ma non vi andò. Il padre si avvicinò al secondo e gli disse la stessa cosa. Egli rispose: “Non ne ho voglia”; ma poi, pentitosi, vi andò. Quale dei due fece la volontà del padre?» Essi gli dissero: «L’ultimo». E Gesù a loro: «Io vi dico in verità: I pubblicani e le prostitute entrano prima di voi nel regno di Dio. Poiché Giovanni è venuto a voi per la via della giustizia, e voi non gli avete creduto; ma i pubblicani e le prostitute gli hanno creduto; e voi, che avete visto questo, non vi siete pentiti neppure dopo per credere a lui.

Care sorelle e cari fratelli nel Signore,

anche oggi siamo chiamati apposta per riascoltare un’altra parabola di Gesù che ha voluto raccontare a coloro che lo seguivano allora.

A loro quella volta disse: un uomo aveva due figli. Egli ha mandato questi figli ad andare a lavorare nella sua vigna. Il primo gli ha risposto: << vado, Signore>> ma il secondo gli ha risposto <<non ne ho voglia>>.

Il primo quindi gli ha dato la sua disponibilità. Di conseguenza ha ricevuto questo incarico e così dovrebbe compiere a tempo pieno, al massimo della sua capacità come spesso diciamo, di intendere e di volere ciò che occorre fare in questo campo di lavoro.

Supponiamo che egli fosse consapevole di tutto ciò che andava a fare, e quello che doveva essere fatto. Supponiamo anche che la sua adesione significava che voleva obbedire, rispettare la volontà del Padre suo Signore.

Dall’altra parte il secondo figlio gli ha fatto sapere che non andrà a lavorare nella vigna del Padre suo Signore. Supponiamo anche che ha espresso al padre che non vuole assumere nessuno impegno in quella vigna quindi non si occuperà in nessuno modo di migliorare la proprietà del padre. Il padre non deve allora aspettarsi niente da lui perché la decisione presa dal secondo figlio è molto chiara e netta.

Allora il primo figlio comincia a lavorare. Egli compie il suo mandato, è un incarico che adempie ma deve essere un collaboratore del Padre. Lavora insieme al padre. L’atteggiamento che dovrà mantenere è di obbedire a ciò che comanda il padre signore. Obbedire nel senso di ascoltare e fare ciò che ha ascoltato.

Il secondo figlio, che ha rifiutato nel primo momento di lavorare nella vigna, non ha però detto di non voler fare niente ma farà un’altra cosa e in quel frangente, accadrà qualcosa. Mentre sta facendo qualche altra cosa, pensa al lavoro che gli ha proposto il padre. Forse ha pensato che ha deluso il padre per la sua decisione e nel contempo si rende conto della sua inadeguatezza. Forse si è sentito che non è il suo mestiere, non ha degli strumenti per lavorare in questa vigna. Così come il primo si è sentito subito di essere in grado di fare ciò che a lui è stato affidato però a lungo andare ha creduto troppo in se stesso ed è diventato padrone di quella vigna al posto del padre suo Signore. Si è autorizzato da sé, è diventato auto-referenziale.

Egli si è dato le sue regole e ha trascurato l’accordo preso col padre di obbedire alla sua volontà e chiamata(vocazione).

Mentre invece il secondo quando ha avuto modo di pensare e riflettere sulla richiesta del padre si è pentito e dopo ha voluto anche lui lavorare nella sua vigna.

Molti genitori filippini dicono spesso: meglio avere due figli che uno solo. Perché? Perché notano, forse, grazie all’esperienza di molti altri prima di loro che nell’avere un unico figlio o figlia sembra mancare qualcosa. Pensano forse che sia meglio averne due perché avere due figli potrebbe significare avere due possibilità. E’ comodo per i genitori dirsi che se falliscono con uno avranno un’altra chance.

I genitori devono , poi, aspettare che crescano per capire chi sono i loro figli, come e quando obbediscono. I genitori crescendo i figli si accorgono delle loro diversità di carattere. L’atteggiamento o il comportamento dei figli, uno a uno si possono scoprire attraverso l’incarico o i compiti che a loro vengono affidati. Sono i genitori spesse volte a farsi prima un giudizio sui loro figli soprattutto quando sono due. Infatti è più facile esprimere un giudizio quando sono due, un numero perfetto per cominciare a fare un confronto.

I genitori investono sui figli. i figli sono un grande investimento per i genitori. I genitori possono anche rischiare di fallire, ma è comunque un loro dovere di investire sui loro figli. Per i genitori il rischio di cui devono tener conto è di non fare dei paragoni ma aiutare i figli a cercare di scoprire i doni, i talenti, i loro punti forti e deboli per poi, così piano piano affidare loro diversi incarichi.

I genitori sperano che i figli manterranno tutto oppure porteranno avanti con dei miglioramenti , soprattutto, quando ci sono le proprietà come nel caso di questo padre della parabola. L’esempio dei due figli (la parabola del padre misericordioso) in qualche modo, ci presenta due fotografie: una è quella del figlio che potrebbe far perdere tutto sperperando quella parte che gli spetta e l’altra è quella del figlio che ha dato se stesso, servendo il padre per mantenere tutta la proprietà.

Lavorare nei campi è pesante. Molti di noi filippini siamo proprietari di terra nel nostro paese. Abbiamo pensato bene di investire i nostri guadagni comprandoci la terra per il nostro futuro. Là dove potremo coltivare il riso, mais, arachidi, zucchero di canna e ecc. Ma c’è un problema da risolvere finché i figli non imparano questo mestiere. Lavorare in campagna è molto difficile e faticosa e la verità è che molti filippini si sono già allontanati dal loro paese perché coltivare la terra è più difficile che lavorare come un collaboratore domestico o collaboratrice domestica.

I figli devono imparare e hanno bisogno dei genitori come dei bravi insegnanti. Devono imparare anche loro che devono guadagnare quello che i genitori hanno già acquisito come beni materiali. I genitori, come insegnanti dei figli non dovrebbero dare tutto quello che hanno senza obbligare i figli a conquistare con fatica le loro proprietà perché la terra ha bisogno di essere coltivata per dare frutto. Quindi bisogna che i figli imparino prima e devono avere degli strumenti per la coltivazione o per qualsiasi mestiere.

La nostra parabola vuole però farci capire attraverso questi due figli cosa vuol dire obbedienza. Impariamo qui che ubbidire non è solo il rispondere con parole <sì vado> ma anche che la risposta di non volere merita una riflessione sulla motivazione. Prima la mancanza di volontà e poi l’assunzione della richiesta e il cambiamento di idea.

Dunque, in questa parabola si tratta di ubbidienza. Il padre con i suoi due figli ha provato forse una soddisfazione? Ha ottenuto forse quello che voleva? Egli ha messo forse alla prova i suoi due figli per vedere come fanno i conti con la realtà?

Che cosa ha voluto insegnare Gesù con questa parabola prendendo due soggetti importanti come questi due figli? Il padre signore, proprietario di un campo o di una vigna assume i suoi due figli a lavorare e collaborare con lui. Ci vuole insegnare, oggi, ancora che per lavorare nel suo campo come degli operai non basta l’adesione(l’aderenza), ma conta soprattutto quella pratica del pentimento dimostrato dal secondo figlio.

Ricordo che con i fratelli e le sorelle filippini abbiamo già letto i due primi capitoli dell’epistola di Paolo ai Galati. In quei due capitoli Paolo ha voluto sottolineare qual è il vero evangelo di Dio. È molto chiaro che nella chiamata dell’apostolo Paolo ci sia stata la sua conversione che era nata prima in risposta all’elezione da parte dei suoi padri israeliti. Egli ha obbedito agli insegnamenti dei suoi padri e ha dovuto obbedire per rispetto alle loro fede e tradizioni ma poi, la conversione più profonda quella seconda avviene in risposta a Cristo Gesù secondo la sua testimonianza. E stato Dio, Signore, Padre che gli ha svelato la vera Via della salvezza e questa è anche la vera motivazione dell’elezione dei figli legittimi e adottivi che sono i giudei- cristiani, i pagani, i pubblicani, le prostitute, gli stranieri(tutti quelli che si riconoscono peccatori e peccatrici che hanno bisogno della salvezza promessa nel figlio di Dio). Questo campo della vigna è la chiesa di Dio oggi che è disposta ad accogliere tutti, questa chiesa inclusiva.

Il secondo figlio, dalla sua iniziale esperienza di rifiuto nasce il ripensamento e la vera esperienza di essere un collaboratore di Dio proprietario della vigna e avere con lui un legame di continua fiducia e di ascolto di ciò che gli rivela giorno per giorno.

È un rapporto non solo di memoria, di ricordo al comando ma è una pratica di vita continua nella conversione. L’esempio del pentimento di questo secondo figlio è quella conversione che è nata dalla riflessione sulla fede. L’autentica fede è il frutto della consapevolezza che si deve rimanere legati e subordinati al Signore per poter essere degni di essere chiamati collaboratori.

In questa parabola dunque, c’è questo primo figlio che ha avuto l’incarico di lavorare per il Signore, il Padre di tutti i popoli e il secondo figlio che ha avuto anche l’incarico di lavorare per lo stesso Signore e il padre eterno .

Perché l’ordine dei figli è rovesciato.? Non basta il sì come risposta alla chiamata di lavorare nella vigna del Signore ovvero nel campo di lavoro del Signore perché ci vuole un continuo rinnovamento dell’adempimento alla vocazione, quello compito affidato a tutti i credenti. Il no come risposta dall’altro figlio che ha eseguito la volontà del padre ha ribaltato la situazione. Il diritto alla salvezza non si determina dall’adesione a parole ma dall’adempimento.

Uno dei commentari che ho letto dice: E’ probabile che quest’ordine alterato rifletta un’interpretazione allegorica della parabola della chiesa antica: gli ebrei pretendevano di essere obbedienti a Dio, ma respingevano l’evangelo, mentre i pagani, che avevano rifiutato di obbedire a Dio, si pentivano e lo accettavano. Agli ebrei è stata fatta prima la promessa del regno di Dio ma per il rifiuto del Vangelo si sono autocondannati. In quanto leader religiosi essi pretendono di essere obbedienti a Dio, ma non si rendono conto che l’obbedienza autentica include il reagire con fede alle nuove cose che Dio sta facendo.

Il ruolo di anticipazione , preparazione nella persona di Giovanni Battista che ha testimoniato il Cristo, conferma qui che il loro rifiuto di vedere Dio all’opera anticipa anche il loro rigetto di Gesù.

Perché c’è il rifiuto della autorità di Gesù? Per l’orgoglio di non accettare il dono di Dio in Gesù. Non era facile cambiare la mentalità di un popolo che ha sempre pensato che la sua salvezza dipendeva dall’obbedienza sul fare come un obbligo ad eseguire dei comandamenti, delle prescrizioni. I leader religiosi facevano fatica ad accettare questa promessa di Giovanni Battista, che battezzava con acqua coloro che credevano e si pentivano di aver commesso dei peccati. Nella fede come risposta alla testimonianza di Giovanni si denota la vera l’obbedienza.

Che lo Spirito Santo del Signore rinnovi continuamente la nostra volontà al pentimento e alla conversione per fare ciò che occorre nel nostro vivere oggi. Amen.

Pastora Joylin Galapon

Meditate la pazienza

6 agosto 2017

Pubblichiamo il sermone del pastore Mario Sbaffi, letto durante il culto odierno dalla figlia,  presidente del Consiglio di chiesa, Maria Laura.

Affinché mediante la pazienza…noi riteniamo la speranza. Or l’Iddio della pazienza.. vi dia d’aver fra voi un medesimo sentimento”. ( Romani 15,4-5)

Mediante la pazienza!…

Mediante la pazienza, scrive l’apostolo Paolo, noi riteniamo la speranza, cioè un ponte verso il futuro, una porta aperta sul domani.

E l’impazienza?

L’impazienza, spesso, infrange questo ponte, chiude questa porta. È di ostacolo alla speranza.

L’impazienza è un sentimento vecchio quanto l’uomo. Non entrò forse anche un pizzico di impazienza in quei nostri lontani progenitori che peccarono per voler tutto conoscere e vedere e fare?

Ma forse questa atmosfera di impazienza è diventata particolarmente acuta nel nostro tempo. Siamo continuamente impazienti con gli altri, con il nostro prossimo, con coloro che ci sono vicini  sul lavoro. Siamo impazienti in casa, in famiglia: il marito verso la moglie, la moglie verso il marito, i figli verso i genitori, i genitori verso i figli. Siamo impazienti con i nostri compagni di attività quotidiana, verso i nostri dipendenti e verso coloro da cui dipendiamo. Vorremmo sempre che gli altri fossero più pronti a rispondere a ciò che desideriamo, più lenti a reagire a ciò che non collima col loro pensiero e il loro interesse, più disposti ad accettare il nostro punto di vista.

Siamo impazienti anche con coloro che affermiamo di amare e questo nostro essere impazienti è un segno della imperfezione del nostro amore.

E impazienti lo siamo nei confronti degli eventi: impazienza del malato che vede tardare il ristabilimento della sua salute, impazienza di colui che deve lottare contro le difficoltà della vita quotidiana ed è stanco di questa lotta che gli sembra vana, impazienza di chi vorrebbe veder realizzato questo o quello e non considera a sufficienza che gli eventi attesi ci sembrano più lenti a concretarsi proprio perché noi non sappiamo aspettare con pazienza. E che dire della impazienza sul piano delle realizzazioni sociali, delle rivendicazioni politiche, delle conquiste scientifiche?

Che dire della impazienza con cui avanziamo verso una meta che ci siamo prefissata, con cui vorremmo bruciare le tappe del nostro successo, con cui vorremmo superare una situazione che ci appare pesante o irrealizzabile.

Tutto il nostro agire, tutto il nostro esprimerci, tutto il nostro desiderare sono continuamente intaccati, resi spesso pericolosi da questo nostro essere impazienti.

E solo che se noi consideriamo la nostra stessa vita e la vita di tante creature umane o la vita di interi popoli, noi dobbiamo riconoscere che molte delle grandi o piccole tragedie che travagliano l’umanità, molte delle catastrofi che si abbattono sugli uomini, hanno, fra l’altro e il più delle volte alla loro radice uno stato di impazienza.

E se queste forme di impazienza sono comuni a tutti gli uomini, noi, come credenti, siamo talvolta portati ad un altro atteggiamento di impazienza: all’impazienza nei confronti di Dio: impazienza nelle nostre preghiere, impazienza nell’attesa dell’esaudimento, impazienza nel considerare l’azione di Dio nel mondo.

Quante volte ci accade di sentir affermare: “ ho perso la fede- non riesco più a confidare in Dio, perché Dio non ha risposto alle mie preghiere, non ha esaudito alle mie richieste, non ha operato con la Sua potenza in questa o in quella circostanza”.

Come se Dio fosse il nostro cieco servitore, come se Egli potesse soggiacere passivamente alla nostra volontà, come se l’Eterno fosse schiavo della relatività del nostro tempo.

NO, sorelle e fratelli, Dio è il Signore ed il Maestro che sceglie il tempo favorevole, che opera secondo la Sua sapienza, Colui che era che  è e che sarà”

Dio è Colui  il cui stesso nome è una testimonianza della sua pazienza che si oppone alla nostra impazienza innata.

Ora l’ Iddio della pazienza – scrive l’apostolo Paolo – dopo aver invitato le creature umane ad essere pazienti.

L’Iddio della pazienza.

Basta sfogliare le pagine della nostra Bibbia per veder ergersi dinanzi al nostro spirito, con potenza convincente e contagiosa, la monumentale pazienza del nostro Dio.

L’Iddio di Israele,

L’Iddio di Gesù Cristo,

non si lascia mai andare all’impazienza, non abbandona mai l’impresa. Egli detesta il peccato degli uomini, ma usa pazienza verso di essi fino a giungere a salvarli.

Israele si ribella, dimentica, si allontana, ostacola l’azione di Dio, proprio come noi, ma Dio non si scoraggia e prosegue nei suoi piani.

Iddio non ricorre mai a soluzioni estreme, non annienta la creatura ribelle, sopporta, anzi porta Egli stesso i nostri errori.

Egli si prende tutto il tempo necessario per preparare, durante i secoli, e attuare attraverso i secoli il suo piano di liberazione e di salvezza.

Egli ci offre continuamente il suo perdono e sa attendere che noi diventiamo spiritualmente maturi per accettarlo.

E se la nostra impazienza esprime spesso l’inadeguatezza e la fragilità del nostro amore, la pazienza di Dio è uno dei segni del Suo amore perfetto.

Pazienza del buon pastore che prende amorevolmente sulle proprie spalle la pecorella che ha abbandonato il gregge e si è smarrita: pazienza del seminatore che, dopo aver sparso generosamente la buona semenza nei solchi, sa attendere la stagione in cui la messe sarà matura. Pazienza del padrone che vede crescere la zizzania insieme al buon grano, ma non si lascia tentare dall’ impulsività con cui, invece, gli uomini vorrebbero svellere l’erba cattiva senza riflettere che così facendo strapperebbero anche il buon frumento.

Pazienza del Padre che attende… attende la sera ed il mattino, attende con un’anima che prega e con un cuore che ama ardentemente, attende senza stancarsi fino a che il figliuol prodigo faccia ritorno alla casa che ha stoltamente abbandonato.

Pazienza del Signor Gesù che, durante il suo ministerio terreno, sa rispondere a tutte le sollecitazioni dell’impazienza umana: “l’ora mia non è ancora venuta”.

Pazienza del Cristo sulla  via del Calvario e sulla croce, pazienza dell’Iddio tre volte santo che è nostra speranza e nostra sicurezza, pazienza che continua a tenere le redini della storia di questo nostro mondo, malgrado i suoi sussulti, le sue ribellioni, le sue bestemmie.

Pazienza di Dio che non ha nulla in comune con le forme tutte umane di rassegnazione fatalistica, ma che è la forma più alta di azione.

Essa è fiducia assoluta nel potere dell’ Evangelo e nella forza di attrazione dell’amore.

Pazienza che ha in sé un rispetto infinito della nostra libertà, che rifugge da ogni forma di costrizione, che fa continuamente appello agli uomini e alla storia degli uomini ma sa attendere l’ora della risposta spontanea e convinta.

L’ Iddio della pazienza!

Oh sapessimo noi contemplarla questa pazienza divina in tutta la sua maestà, in tutta la sua potenza,  in tutta la sua pienezza d’amore da cui è mossa!

Come essa ci rifonderebbe coraggio e calma, come essa sarebbe un continuo correttivo alla nostra impazienza ed ai moti inconsulti che l’impazienza reca sempre con sé.

L’impazienza è il segno del naufragio già avvenuto della speranza, lo stato d’animo che infrange il “sentimento fra voi”, di cui parla l’apostolo, l’ allontanarsi dal nostro prossimo.

La pazienza è il segno che la fiducia nel domani non è spenta e che la comunione con gli uomini può essere mantenuta.

Ora – ci dice l’apostolo Paolo nel nostro testo di oggi – ora l’Iddio della pazienza vi dia di avere fra voi un medesimo sentimento, affinché, mediante la pazienza…noi riteniamo la speranza”

AMEN!

Simone il fariseo

16 luglio 2017

Luca 7,36-50

Simone, il fariseo
(Mt 26:1-13; Gv 12:1-8)(Mt 11:28; Gv 6:37)
Uno dei farisei lo invitò a pranzo; ed egli, entrato in casa del fariseo, si mise a tavola. Ed ecco, una donna che era in quella città, una peccatrice, saputo che egli era a tavola in casa del fariseo, portò un vaso di alabastro pieno di olio profumato;  e, stando ai piedi di lui, di dietro, piangendo, cominciò a rigargli di lacrime i piedi; e li asciugava con i suoi capelli; e gli baciava e ribaciava i piedi e li ungeva con l’olio. Il fariseo che lo aveva invitato, veduto ciò, disse fra sé: «Costui, se fosse profeta, saprebbe che donna è questa che lo tocca; perché è una peccatrice».

E Gesù, rispondendo gli disse: «Simone, ho qualcosa da dirti». Ed egli: «Maestro, di’ pure». «Un creditore aveva due debitori; l’uno gli doveva cinquecento(500) denari e l’altro cinquanta(50) . E poiché non avevano di che pagare condonò il debito a tutti e due. Chi di loro dunque lo amerà di più?»  Simone rispose: «Ritengo sia colui al quale ha condonato di più». Gesù gli disse: «Hai giudicato rettamente». E, voltatosi verso la donna, disse a Simone: «Vedi questa donna? Io sono entrato in casa tua, e tu non mi hai dato dell’acqua per i piedi; ma lei mi ha rigato i piedi di lacrime e li ha asciugati con i suoi capelli. Tu non mi hai dato un bacio; ma lei, da quando sono entrato, non ha smesso di baciarmi i piedi.  Tu non mi hai versato l’olio sul capo; ma lei mi ha cosparso di profumo i piedi. Perciò, io ti dico: i suoi molti peccati le sono perdonati, perché ha molto amato; ma colui a cui poco è perdonato, poco ama». Poi disse alla donna: «I tuoi peccati sono perdonati».  Quelli che erano a tavola con lui, cominciarono a dire in loro stessi: «Chi è costui che perdona anche i peccati?»  Ma egli disse alla donna: «La tua fede ti ha salvata; va’ in pace».

Sermone
Cara comunità, care sorelle e cari fratelli nel Signore,
qualche anno fa, nell’aggiornamento rivolto alle pastore e alle diacone trattammo i versetti dal 36 a 50 del vangelo di Luca cap. 7, che ho scelto di predicare oggi.

Questo brano mi ha fatto molto riflettere su ciò che viene detto e messo per iscritto nella Bibbia e allo stesso tempo su ciò che non viene messo per iscritto. Tutto ci stimola, ancora di più, a ricercare e voler scoprire le grazie, le benedizioni e i doni elargiti di Dio a tutte noi sulla terra affinché possiamo goderne gratuitamente, incondizionatamente.

Durante l’aggiornamento, facemmo il Bibliodramma di questo specifico brano in cui alcune di noi interpretarono i vari personaggi, le altre erano state invitate ad assistere ma anche loro beneficiarono dello spettacolo come spettatrici.
Alcune interpretarono il ruolo delle serve alle quali “la padrona di casa” aveva affidato l’incarico di servire bene la tavola. L’ intento della padrona di casa o del padrone di casa è sempre, quello di riuscire a servire bene l’ospite molto gradito. Il ruolo dei servi ha un’enorme importanza e senza di essi, senza la loro buona collaborazione il pranzo non riesce bene.

Quindi care e cari il gioco dei ruoli in questo episodio ci inviterebbe alla riflessione e poi dal momento che usciamo dal nostro amato tempio, farebbe si che non perdessimo di vista la fede che professiamo nel Signore Iddio.
Che cos’è il bibliodramma?
Il bibliodramma è una metodologia che favorisce l’incontro profondo tra la Parola di Dio e la vita concreta di ogni persona; una modalità di confronto biblico di gruppo, basata sull’esperienza umana di ognuno ed espressa, condivisa nel “qui ed ora” di un incontro, con vari linguaggi: per esempio attraverso l’espressione verbale – emozionale, quella grafico pittorica, quella del foto-linguaggio o mediante rappresentazioni con il corpo.
Così quando abbiamo fatto questa esperienza eravamo tutte noi attive senza dire una parola . Ognuna di noi doveva interpretare il proprio ruolo muta, ma ascoltare con attenzione il sentimento che si provava durante l’esecuzione della scena e poi dopo condividerlo. E’ stato veramente suggestivo ed eccitante.

Mi ricordo molto bene che Maria Bonafede , la nostra precedente moderatora, mi chiese di fare il ruolo di Gesù.
Allora quando eravamo già tutte pronte, cominciammo la scena immaginando che fossimo a casa di un fariseo che ci aveva invitate tutte, tranne una donna che entrò per ultima. Lei non era stata invitata ma arrivò solo perché aveva sentito delle voci in città sul fatto che Gesù si trovasse ospite di un fariseo.

Ricordiamo che un fariseo è un seguace di un’antica setta religiosa ebraica che si distingueva per la rigida osservanza della legge mosaica. Spesso è colui che con falsità e ipocrisia si preoccupa della forma più che della sostanza delle sue azioni; intendiamo con questa parola quello che definiamo l’ atteggiamento di un’ipocrita.

La donna in questo episodio catturò subito l’attenzione di tutti a partire dal suo ingresso e li sorprese con gesti estremamente affettuosi e, se vogliamo, sensuali che fece davanti a tutti, senza tener conto di ciò che potevano pensare gli altri: <<portò un vaso di alabastro pieno di olio profumato; 38 e, stando ai piedi di lui, di dietro, piangendo, cominciò a rigargli di lacrime i piedi; e li asciugava con i suoi capelli; e gli baciava e ribaciava i piedi e li ungeva con l’olio>>.

La donna non fu invitata, né gradita dalla farisea perché non aveva una buona reputazione. Era considerata un’impura quindi peccatrice! Disprezzata da tutte!

Mercoledì scorso sono passate due persone(una è americana, e l’altra è italiana) per chiedermi delle informazioni per un concerto qui nel tempio. Faceva troppo caldo, mi trovavo a casa a studiare questo testo. Quando ho dato loro il mio indirizzo e quello di Maria Laura avevo in mano la circolare e così alla fine abbiamo parlato del mio lavoro e ho anche condiviso questo testo, su cui mi trovavo a lavorare in quel momento. Una di loro ha detto che aveva sentito un predicatore porgersi la domanda sul perché quella donna era potuta entrare nella casa del fariseo se non era stata invitata? Chi era stato quello che l’aveva fatta entrare? Forse un servo o una serva che la conosceva?>

Questo fatto non è scritto nella Bibbia ma è sottointeso. Il vangelo di Giovanni termina con queste parole: << Ora vi sono ancora molte altre cose che Gesù ha fatte; se si scrivessero a una a una, penso che il mondo stesso non potrebbe contenere i libri che se ne scriverebbero>. (Giov. 21,25) L’attenzione posta qui è un’altra cosa, ovvero quello che vi dicevo prima di riflettere su ciò che non è stato messo per iscritto nella Bibbia ma che fa parte di essa perché fa da contorno. Sono fatti che permettono di comprendere, e completano un racconto o una storia nella sua complessità.

Torniamo al testo e per quanto mi riguarda, sono rimasta impressionata dal ruolo che ho interpretato e dai gesti manifestati dalla donna nei miei confronti.
Da un lato, la farisea aveva un’ espressione molto imbarazzata e irritata da quella donna perché non si aspettava di avere una ospite così invadente.
Ma la donna grintosa, ha fatto ciò che doveva senza timore, non le importava del giudizio delle altre , sicuramente un giudizio negativo che era risultato di quello che veniva detto su di lei, magari il suo mestiere di prostituta.

Nel racconto sull’ altra unzione che fece Maria di Betania a Gesù venne detto che aveva fatto ciò che era opportuno fare lì in quel momento, e in questo episodio la donna ha fatto ciò che ha dettato il suo cuore, ciò che era la dimostrazione del suo amore, segno della sua riconoscenza e gratitudine in cambio di quello che aveva avuto e ricevuto personalmente. Lei intrusa e indegna viene indicata da Gesù per far conoscere chi era veramente lui e il Dio.

Come ha detto il fariseo nel cuor suo: < Costui, se fosse profeta, saprebbe che donna è questa che lo tocca; perché è una peccatrice> .

Un profeta secondo il fariseo è colui che conosce la vera personalità di un uomo o di una donna. Sa ciò che è nascosto. Gesù lo è. Ecco il vero profeta, Gesù che conosce profondamente la donna peccatrice. È l’ospite di un uomo in cerca del vero Dio che lo renda libero dai suoi peccati per essere in pace con se stesso. Sarà la donna a lui non gradita ad insegnargli con i suoi gesti concreti, l’opera della vera presenza di Dio nella vita dei credenti. Gesù era disposto a condividere con lui il suo pranzo perché il suo desiderio era di far conoscere la verità, l’opera di Dio a tutti loro.
La salvezza è entrata a casa di Simone perché fosse salvato con tutte le altre/ gli altri come lui, dei peccatori.

La parabola raccontata da Gesù a lui sul creditore con i due debitori di 50 e di 500 denari ci insegna che pecchiamo poco o tanto ma siamo considerati gli stessi davanti a Dio, dei peccatori. Ma mi fa pensare di nuovo che le grazie, le benedizioni innumerevoli di Dio verso di noi attendono però le nostre risposte.

Le benedizioni che riceviamo da Dio, ci rendono grati verso di lui, come la donna? Siamo come Simone o come questa donna?
Rileggiamo, riascoltiamo bene queste parole di Gesù rivolte al fariseo guardando alla donna. 44 E, voltatosi verso la donna, disse a Simone: «Vedi questa donna?
Io sono entrato in casa tua, e tu non mi hai dato dell’acqua per i piedi; ma lei mi ha rigato i piedi di lacrime e li ha asciugati con i suoi capelli. 45 Tu non mi hai dato un bacio; ma lei, da quando sono entrato, non ha smesso di baciarmi i piedi. 46 Tu non mi hai versato l’olio sul capo; ma lei mi ha cosparso di profumo i piedi.
47 Perciò, io ti dico: i suoi molti peccati le sono perdonati, perché ha molto amato; ma colui a cui poco è perdonato, poco ama».

Che cosa vuol dire: < i suoi molti peccati le sono perdonati, perché ha molto amato; ma colui a cui poco è perdonato, poco ama». Vuol dire che chi ha ricevuto di più deve essere grato in egual misura così come ricevere poco serve a non restare nella superficialità. Questo ultimo che riceve di meno deve imparare ciò che insegna colui che sa perdonare, su come sviluppare profondamente un’autentica e vera relazione con il Dio Creditore.

Che cosa impariamo da questo racconto?
Voi che cosa dite ora che avete anche sentito e immaginato questa scena?
Gesù era quel profeta che il fariseo, prima, non conosceva? E dopo che l’ha conosciuto, pensate che avrà cambiato il suo modo di vivere? Pensate che avrà cambiato il suo modo di concepire e praticare la legge comandato da Mose, le prescrizioni. Tutto ciò che chiamiamo ora atti religiosi ma che non riguardano la salvezza che Dio ha voluto rivelare per mezzo di Gesù.
Purtroppo ci accorgiamo sempre di più che fino al vero incontro con Gesù, c’è una scarsa conoscenza di Dio. Siamo dei credenti in lui e nello stesso tempo molto religiosi come ci definirebbero coloro che ci osservano. Spesso ci manca la volontà di approfondire molte cose che possano aiutarci a vivere meglio liberandoci da tante cose futili o cose che ci schiavizzano e che ci fermano, ci paralizzano e ci impediscono di progredire, avanzare ed emanciparci.
Questo brano della Bibbia che abbiamo letto, da cui sono partiti prima i nostri padri e le nostre madri per ricercare il vero Dio continua a insegnarci qualcosa. Siamo veramente i figli e le figlie perdonati sia per i nostri atti religiosi da farisei che per le mancanze più gravi. Le chiese di Dio sono luoghi di aggregazione di molti religiosi e credenti in lui. Questo lui lo sa molto bene e siamo tutti portatori di impurità e ci serve di lui solo per essere purificati! Gesù disse alla donna: «La tua fede ti ha salvata; va’ in pace». Riceviamo la pace di Dio che custodirà i nostri cuori.
Care sorelle e cari fratelli,
in questa estate è piacevole trascorrere il nostro tempo con le nostre amiche e i nostri amici, con i fratelli e le sorelle di chiesa. Rivolgiamo un invito a pranzo a casa nostra a chi ci è simpatico o simpatica, e non solo, ci piace soprattutto avere degli scambi di idee e condividerle ed è spesso così che arricchiamo la nostra personalità.
Non trascuriamo l’ospitalità come dice nella lettera agli Ebrei 13,2: <Non dimenticate l’ospitalità; perché alcuni, praticandola, senza saperlo hanno ospitato angeli>. Amen.

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La testimonianza di Giovanni Battista

2 luglio 2017

 

Sermone: Giovanni 1,19-39

Care sorelle e cari fratelli, il testo della predicazione che abbiamo letto e ascoltato era la testimonianza di Giovanni Battista.

Nel primo giorno alcuni sacerdoti e leviti  che appartenevano al gruppo dei farisei andarono da Giovanni per domandargli  «Chi  egli fosse »?  Perché battezzava se non era il Cristo, Elia o un profeta.

Nel secondo giorno egli incontrò Gesù e in lui riconobbe e dichiarò  l’agnello di Dio, che toglie i peccati del mondo. Giovanni è stato  l’unico ad aver riconosciuto la vera identità di Gesù in mezzo ad altri.

Egli disse che Gesù,  è colui che viene prima e  dopo di lui. In lui ha visto  la presenza dello Spirito Santo, come una colomba che è scesa su di lui che è  il figlio di Dio, colui che toglie il peccato quindi è il salvatore dei peccatori.

Nel terzo giorno  testimoniò ancora, davanti ai discepoli  quando  Gesù passava,  «ecco  l’agnello di Dio». Così  i discepoli lo seguirono e lo chiamarono “ Rabbi” , il  maestro. Quel giorno  essi rimasero con lui nella sua dimora.

Il brano dal vangelo di Giovanni  che abbiamo letto e ascoltato ci ha ricordato anche che Giovanni Battista era contemporaneo di Gesù, egli ha assistito alle opere e ai miracoli compiuti da lui  e così ha confessato e  testimoniato che Gesù(lui)  è il Cristo di Dio.

Ora ci domandiamo di nuovo:

Perché Giovanni ha battezzato il Gesù Cristo di Dio, colui che è più grande di lui?

Chi gli ha dato l’autorità di battezzare? Chi gli ha dato l’autorità di battezzare Gesù?

Perché non è stato Gesù a battezzare Giovanni essendo più grande di lui e ancor di più  essendo colui che ha il potere di togliere i peccati del mondo?

A che serve quel battesimo dell’acqua che sembra qui  avere un valore  inferiore rispetto a quello dello Spirito Santo? Perché lo ripetiamo, lo facciamo ancora, quando Gesù Cristo ha già dato il suo Spirito Santo alla chiesa?  Perché ha ordinato  ai  suoi primi discepoli di compiere questo atto, prima che salisse dal padre dicendogli:  « Ogni potere mi è stato dato…» Matteo 28, 17-20.

Siamo venuti a conoscenza in questo brano della confessione di Giovanni che conferma e attesta chi è Cristo, il primogenito figlio di Dio.

Egli, gli  ha dato testimonianza in mezzo agli altri, ha voluto rivelare Colui che è il  figlio di Dio  e al contempo  l’agnello di Dio offerto come  sacrificio  per il mondo intero.

Che cosa vuol dire essere l’agnello di Dio?  Che cosa è la caratteristica unica dell’agnello,  e perché così importante questo essere? L’agnello  è umile.

L’agnello di Dio è colui che è completamente sottomesso alla volontà del Dio Padre.

Questo atteggiamento è stato scritto allora nel libro del profeta Isaia cap.  53 ,7: «Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la bocca. Come l’agnello condotto al mattatoio, come la pecora muta davanti a chi la tosa, egli non aprì la bocca »

Giovanni ha visto e ciò che ha visto l’ha testimoniato.

Giovanni  è un testimone, la voce che proclama nel deserto: “Raddrizzate la via del Signore”, come ha detto il profeta Isaia»

Giovanni  è stato un ponte, ha congiunto il passato e il futuro,  tramite lui possiamo  oggi rinnovare la nostra comprensione dell’atto del battesimo con acqua e quello dello Spirito Santo.

La generazione cristiana odierna, a mio avviso, non ha chiarito ancora bene questo aspetto perché sul battesimo degli infanti e degli adulti ci sono ancora dei punti  interrogativi a cui dare risposta.  È un peccato che ,spesse volte, commettiamo degli sbagli per primo noi predicatori  o predicatrici del vangelo in Cristo proprio sulla validità dell’atto del battesimo con acqua, sia aspersione che immersione, ma  grazie ad esso possiamo sentire vivamente e  concretamente il donarsi  di Dio, che nel presente opera e con l’azione umana si rende visibile.

In questo tempo ho considerato quanto è importante che la  fede venga trasmessa da una generazione all’altra. Vedo anziani, nonni,  genitori, che parlano ai figli/ai giovani della loro fede.

Gli anziani /gli adulti della  nostra comunità ci hanno fatto sapere che l’atto del battesimo con acqua  in formula trinitaria ci ricorda che lo spirito santo di Dio è vita e opera e  crea la fede.

Ad esempio la famiglia Valete e Ocampo da  cui è nato Mattias. Lui è circondato dai suoi nonni(Gregorio e Delia), dagli zii (Christopher e Mary Ann) e dalla cuginetta Kiara. Loro abitano lontano e quindi si svegliano presto per venire in chiesa. kiara è stata abituata così e sicuramente sarà un esempio per suo cugino.  Ereditare la fede dalla famiglia di provenienza è un dono preziosissimo e la chiesa ha proprio questo tesoro  da trasmettere.

Qui stiamo parlando di una famiglia di credenti che si aiuteranno a  vicenda per far crescere Mattias, certi della validità del suo battesimo e del fatto che lo spirito  dimorerà nella sua persona. Succede poi che questo atto del battesimo a cui abbiamo assistito non riguarda  solo  Mattias ma si espande  in noi questa buona parola come la pasta lievitata.  Ciò che stiamo vivendo ora è la gioia incontenibile per il dono  del battesimo del piccolo Mattias, di cui, come una piccola  pianta, dobbiamo prenderci cura, zappare il terreno intorno, annaffiarla e Dio Spirito sarà responsabile della sua crescita nel segreto del suo cuore.

Non è forse questo che intendeva dire Giovanni Battista dicendo:  «Dopo di me viene un uomo che mi ha preceduto, perché egli era prima di me. 31 Io non lo conoscevo; ma appunto perché egli sia manifestato a Israele, io sono venuto a battezzare in acqua».

L’atto del battesimo con acqua è il primo da compiere poi viene quello che è stato promesso dall’alto. Nell’atto del battesimo compiuto da Giovanni Battista  e quello di Gesù Cristo accade il miracolo in cui  l’umano e il divino si incontrano in una persona fisica, e suscitano  sia nel  bambino che nell’adulto un invito alla  professione di fede in Dio. Nel caso del bambino battezzato, i genitori e la chiesa tutta si riuniscono per dare testimonianza della loro fede e per un adulto  la confessione personale è necessario perché dia la sua testimonianza di colui che l’ha chiamato e entrambi proclamano la potenza e la gloria di Dio .

Il messaggio della dimensione della salvezza in questo brano è fondamentale perché lo Spirito Santo che scese,  riposò e dimorò in Cristo è UNO e pervade l’umanità e la creazione tutta. Infatti l’apostolo Paolo ha testimoniato alla comunità di Corinto l’opera dello Spirito Santo: «Ora vi è diversità di doni, ma vi è un medesimo Spirito. Vi è diversità di ministeri ma non vi è che un medesimo Signore. Vi è varietà di operazioni, ma non vi è che un medesimo Dio, il quale opera tutte le cose in tutti» Cor.12,4-6

E’ molto importante da tener conto che nella famiglia di Dio cioè nella chiesa si muove lo Spirito Santo affinché tolga ogni peccato. Lo Spirito Santo attesta le diversità dei suoi doni nei credenti, manifestandoli,  trasformandoli e  purificandoli dai loro peccati.

Questo fatto è il concetto che troviamo nel pensiero di Wesley sulla santificazione graduale del credente.

L’ultima conferenza del terzo distretto è avvenuta a Firenze e io e Maria laura Sbaffi abbiamo colto l’occasione per andare a visitare il palazzo degli uffizi. Lì  abbiamo trovato il  dipinto di Giovanni Battista che battezzava Gesù.  Ciò che vedete sullo schermo.

Osservate che l’artista ha dipinto le due mani lasciando scendere una colomba sul capo di Gesù, immaginiamo che queste mani siano di Dio, che lascia lo spirito Santo in forma di colomba scendere verso il capo di Gesù  mentre Giovanni lo battezza con acqua.

In  questa fotografia vediamo come  Dio nella persona di Gesù uomo,  credente in Lui, dona se stesso attraverso lo Spirito Santo.

Cara comunità cristiana che si è radunata in questo luogo, in questo tempio noi abbiamo riascoltato la testimonianza di Giovanni sulla distinzione fra il battesimo con acqua e quello dello Spirito Santo. L’argomento fondamentale  che vogliamo  ricordare ora è l’insegnamento che la chiesa deve continuare a testimoniare come aveva fatto Giovanni Battista. Abbiamo bisogno di comprendere e sempre tener bene in mente  che il battesimo con acqua, nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo  in formula trinitaria perché attestiamo il dono della presenza di Dio, e  lo facciamo con la fiducia che lo Spirito Santo di Cristo, appunto il battesimo di Cristo donando lo Spirito Santo  è colui che ci istruisce, come fu per i discepoli di Gesù. Il mandato di Gesù  risorto , nel quale  tutto si è avverato come profetizzato, è stato di lasciare ai discepoli lo Spirito santo stesso , affinché fosse  loro di aiuto per la diffusione del vangelo di Dio.

La chiesa oggi, ha il compito di continuare a testimoniare Gesù, il Cristo di Dio, l’agnello che toglie il peccato del mondo. Amen.

 

 

 

 

Ascoltiamo il lieto annuncio del Regno di Dio!

25 giugno 2017

Matteo 22, 1 – 14.

Gesù riprese a parlar loro in parabole e disse: «Il regno dei cieli è simile a un re che fece un banchetto di nozze per suo figlio. Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze, ma questi non vollero venire. Di nuovo mandò altri servi a dire: Ecco ho preparato il mio pranzo; i miei buoi e i miei animali ingrassati sono già macellati e tutto è pronto; venite alle nozze. Ma costoro non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari; altri poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero.Allora il re si indignò e, mandate le sue truppe, uccise quegli assassini e diede alle fiamme la loro città. Poi disse ai suoi servi: Il banchetto nuziale è pronto, ma gli invitati non ne erano degni; andate ora sulle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze!
Usciti nelle strade, quei servi raccolsero quanti ne trovarono, buoni e cattivi, e la sala si riempì di commensali. Il re entrò per vedere i commensali e, scorto un tale che non indossava l’abito nuziale, gli disse: Amico, come hai potuto entrare qui senz’abito nuziale? Ed egli ammutolì. Allora il re ordinò ai servi: Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti.Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti».

Cara comunità,

forse conoscete quei sogni strani ed imbarazzanti, nei quali improvvisamente ad un certo punto, in mezzo nella folla, – nella metro, durante la lezione a scuola o in una riunione importante, ci si rende conto di essere vestiti soltanto con una sciarpa.

Questi sogni sono tremendi, ma per fortuna – come tutti gli incubi che abbiamo – finiscono bene: il sognatore si sveglia e la tortura è finita.

Il testo previsto per la predicazione di questa domenica, NON permette una soluzione così immediata e risolutiva del problema:

l’ospite di cui racconta la parabola, che NON indossa un abito adatto, NON si sveglia da questo incubo nel suo letto accogliente.

Anzi, viene gettato “fuori nelle tenebre”. , lo attende la tortura, e molto probabilmente anche la morte…

La parabola sul regno di dio ci racconta la storia di un re, che celebra un banchetto di nozze per il suo figlio.

Il re invita quegli ospiti che EGLI considera importanti, – e li chiama tramite i suoi araldi due volte a questo banchetto – ma gli invitati si rifiutano:

alcuni ignorano semplicemente il suo invito,

ma altri insultano e uccidono gli araldi del re.

Preso della sua ira e della sua delusione profonda, il re manda le sue truppe per uccidere gli assassini e per ridurre in cenere le loro città.

Questa punizione non è l’unica conseguenza del comportamento degli invitati: il re vuole celebrare comunque le nozze di suo figlio; e quindi, decide di invitare a questo banchetto qualsiasi persona si trova a passare per strada.

Questa è la prospettiva del re, che nonostante il rifiuto del suo invito, riesce a realizzare il suo evento.

Ma la realizzazione del suo banchetto costa anche molte vittime: queste vittime sono i suoi servi, ammazzati invece del  loro padrone. Vittime sono i cittadini delle città, la cosiddetta popolazione civile, assolutamente innocente, perché nemmeno invitata a questo banchetto.

E vittima è anche l’ospite con l’abito sbagliato. E stranamente è proprio il suo destino che ci trascina cosi tanto in questa parabola, sollevando tante domande, come se fosse veramente così importante ciò che indossa a questo matrimonio, – sopratutto in questo caso, dove la persona è stata presa dalla strada e probabilmente non aveva nemmeno la possibilità di mettersi un vestito adeguato.

Non che le altre vittime valgano di meno o che le loro pene siano più opportune, no: ma il suo castigo in particolare ci sembra inadeguatamente duro.

Questo brano di Matteo, nella forma in cui ci viene presentato, ci rende insicuri, perché la storia, per come ci viene raccontata, non regge come annuncio della salvezza del Regno di Dio. Ma proprio per questo siamo invitati a decifrare ed indagare le rotture che incontriamo nell’ascolto di questo Vangelo:

(1. HAUPTTEIL)

In primo luogo vi sono gli ospiti che si presentano come un enigma a noi lettori, particolarmente quelli che vengono invitati DUE volte, così come era uso nel mondo antico, quando si invitava ad un evento:

un primo annuncio dell’evento e della data

e poi un secondo annuncio nel momento in cui la circostanza era ormai prossima. Questa ridondanza era semplicemente necessaria, perché nel mondo antico non esistevano agende, né tanto meno orologi da polso.

→ Ma questi ospiti rifiutano l’invito.

Il perché non ci viene spiegato, ma non penso che sia molto importante. Piuttosto sembra importante che qui si tratta di un gruppo di persone, che fanno parte del tutto sin dall’inizio e che appartengono al re e a suo figlio. Perciò il racconto dà per scontato che loro sono invitati a questo evento, ma proprio loro rifiutano di andare.

Poi ci sono gli ospiti imprevisti, che festeggiano col re e con suo figlio, mentre gli ospiti precedentemente invitati sono assenti. Nessuno si sarebbe aspettato di vederli partecipare al banchetto del re, anche perché la loro partecipazione non sembra d’essere soggetta a nessun criterio: sono chiamati dalla strada, – buoni, ma anche cattivi.

Proprio perché questa parabola, non ci da più informazioni su questi ospiti, ci fornisce più possibilità di interpretazione. La più diffusa è quella che Matteo ci presenta qui la storia del suo popolo, come la comprende lui stesso:

In questa interpretazione il re rappresenta Dio, che manda i suoi profeti e apostoli al popolo d’Israele, per invitarli alla sua salvezza in Gesù Cristo. Ma loro non solo ignorano l’ invito di Dio, ma scherniscono ed ammazzano i profeti, perché si rifiutano di riconoscere il suo figlio. La città messa in cenere è molto probabilmente Gerusalemme, devastata per la mano dei romani nel anno 70 dopo Cristo.

Sembra che Matteo interpreti questa distruzione come punizione divina per questo rifiuto, mentre gli ospiti imprevisti rappresentano ai suoi occhi la comunità cristiana.

Certo che non è l’interpretazione più facile, perché può parere molto problematica alla luce degli avvenimenti degli ultimi secoli: le persecuzioni e il genocidio degli ebrei in Europa, che sono stati anche giustificati con letture del genere.

Ma cerchiamo di non fare l’errore dell’anacronismo e malinterpretare questo racconto fuori dal suo contesto temporale. Penso piuttosto che dobbiamo comprendere questo racconto di Matteo partendo dalla sua delusione e la sua sofferenza sul fatto che la maggior parte del suo popolo è rimasto con ciò che conosceva già e che non ha accolto questa speranza nuova in Gesù Cristo che invece l’evangelista ha trovato illuminante.

(2. HAUPTTEIL)

Matteo ci dà in questo testo la sua visione della storia di Dio col suo popolo. Ma il destino d’Israele non è il centro di questa parabola. Nemmeno con l’invito degli ospiti imprevisti, cioè con il nuovo patto che Dio stringe con tutti gli popoli, la parabola ha raggiunto il suo culmine.

Il racconto trova piuttosto una continuazione cruciale: tutto quello che è stato detto ci porta all’episodio dell’ospite senza abito nuziale, che ci ha colpito già all’inizio di questa predicazione.

L’intenzione di questo episodio finale potrebbe essere quella di respingere un malinteso, secondo il quale a causa dell’invito a caso, si potrebbe pensare che il comportamento degli ospiti imprevisti non abbia nessuna importanza.

Questo lascia già intendere la qualificazione morale degli ospiti, quando Matteo sottolinea che i servi raccolgono “quanti ne trovarono, buoni e cattivi”.

L’evangelista ci ricorda che non dobbiamo darci delle arie per essere invitati al banchetto, ma che anche noi stiamo sotto il giudizio di Dio.

E Matteo ci illustra abbastanza bene che cosa ci aspetta, se questo giudizio è negativo: la pena che il re ordina sul ospite viene descritta in modo molto dettagliato: il respinto viene gettato fuori nelle tenebre; dove sarà pianto e stridore di denti.

In considerazione a questa pena, la prospettiva che ci offre questo Vangelo sul banchetto nel Regno di Dio è terrificante e opprimente:

perché indossiamo l’abito che noi consideriamo giusto, ma che viene respinto dall’ospitante,

allo stesso modo, non possiamo sapere se riusciremo ad essere all’altezza di questo giudizio.

E rispetto a cosa toccherà agli ospiti invitati, non so quale azione abbia una conseguenza peggiore: respingere l’invito o andare lì nel timore di non essere adatti. Ma il messaggio sicuramente non può consistere nella mancanza di via d’uscita per noi.

Per capire meglio quest’ immagine dell’abito nuziale, è utile sapere che oltre ad annunciare un evento due volte, nel mondo antico era anche uso che l’ospitante mettesse a disposizione i vestiti per gli ospiti del matrimonio.

Quindi si poteva andare ad un matrimonio con i vestiti del quotidiano, perché lì si riceveva un vestito come tutti gli altri ospiti e tutti erano vestisti in modo adatto. Un uso molto pratico direi.

Ma allora mi chiedo se il nostro timore è giustificato, dal momento che non importa come arriviamo al banchetto, visto che riceveremo lì gli abiti adatti. Il nostro sforzo consiste davvero solo nell’indossare i vestiti che riceveremo?

Abbiamo visto che l’invito ci viene offerto, improvvisamente e a caso, così come siamo: buoni o cattivi, spesso entrambe le cose contemporaneamente. In questo invito Dioci offre la sua grazia, perché non potremo mai essere all’altezza di poter partecipare.

Accettarla significa, detto con il pensiero di Lutero mettersi l’abito nuziale e rendersi degno, che è nient’altro che: vivere in fede, che provoca le opere dell’amore.

L’abito nuziale è la vita del cristiano, che sa che il momento del banchetto arriverà, ma non sa quando. E infatti in questa occasione gli ospiti vengono improvvisamente interpellati. Ma uno di loro non indosserà l’abito che dovrebbe.

È il SUO destino che ci illustra che siamo tutti chiamati, ma non tutti compiamo la nostra grande responsabilità. La responsabilità di di stimare la vita che ci è stata donata da Dio.

Crudo ma chiaro Matteo ci spiega, che non basta essere invitati al banchetto, considerandosi ospiti, ma che dobbiamo anche essere riconoscibili come tali, indossando l’abito che ci è stato offerto, cioè vivere come cristiani in fede e in amore.

Cari e care, confesso d’essere sempre di nuovo sconvolta della profondità dell’annuncio, soprattutto quando lo incontriamo nascosto in un testo così pretenzioso e denso di un Vangelo che non è solo spaventoso, ma anche pieno di buona notizia per noi. Lo è perché finisce con un grande banchetto, al quale noi tutti siamo invitati. Ed è un banchetto che in ogni caso prenderà luogo, – e questo è il messaggio importante di questa parabola: Che ognuno che sente amore per l’ospitante e il suo figlio parteciperà a questo evento.

Anna Vinatzer.

Non c’è spazio per la depressione nella Chiesa

18 giugno 2017

1Giovanni 4,16d-21.
Dio è amore; e chi rimane nell’amore rimane in Dio e Dio rimane in lui. 17 In questo l’amore è reso perfetto in noi: che nel giorno del giudizio abbiamo fiducia, perché qual egli è, tali siamo anche noi in questo mondo. 18 Nell’amore non c’è paura; anzi, l’amore perfetto caccia via la paura, perché chi ha paura teme un castigo. Quindi chi ha paura non è perfetto nell’amore. 19 Noi amiamo perché egli ci ha amati per primo. 20 Se uno dice: «Io amo Dio», ma odia suo fratello, è bugiardo; perché chi non ama suo fratello che ha visto, non può amare Dio che non ha visto. 21 Questo è il comandamento che abbiamo ricevuto da lui: che chi ama Dio ami anche suo fratello.

Care sorelle e cari fratelli,

sovente si parla di crisi della nostra chiesa, almeno a livello nazionale. Si parla della diminuzione del numero dei membri di chiesa, dei problemi finanziari, di una spiritualità addormentata ecc. Discorsi che si ripetono alle assemblee di chiesa, al circuito, al distretto, al sinodo… Al di là delle questioni contingenti, però, trovo che due siano le caratteristiche (e direi anche le ragioni) di questa crisi: da una parte una brutta depressione, dall’altra l’aumento della conflittualità un po’ a tutti i livelli.

Affrontiamo prima questa depressione e le sue ragioni. Una degli aspetti peggiori della depressione è che chi non ne soffre non la riconosce fino in fondo come una vera malattia. La frase classica è: «hai tutto, stai bene, che cosa ti manca, scuotiti di dosso questa indolenza e reagisci». Peccato che sia proprio questo il problema, almeno in buona parte dei casi. Chi è depresso, infatti, pensa di non avere le energie per uscire dalla sua condizione, e il fatto di non sentirsi preso sul serio non fa altro che aumentare la mancanza di autostima: «se non riesco a uscire da una situazione così poco grave, vuol dire che sono davvero una persona da nulla!»

Sovente, dunque, un modo per combattere la depressione è ricostruire l’autostima della persona malata. Per cui riflettiamo sulla nostra condizione di chiesa depressa e vediamo se e come possiamo ricostruire una nostra autostima. Senza nasconderci o sminuire le difficoltà contingenti, dovremmo ricordarci che ci è stato affidato un messaggio che ha cambiato il mondo degli ultimi duemila anni e che, ogni volta che è stato vissuto nella sua purezza, ha aiutato persone sofferenti a trovare conforto e persone umiliate e trovare il proprio riscatto. È una Parola bella, importante, e soprattutto è una Parola che quando agisce può spostare le montagne. C’è un libro su Lutero di parecchi anni fa che si intitola: Lutero, la parola scatenata. Se ci liberiamo dalle nostre catene, se lasciamo la Parola risuonare nelle nostre orecchie e tra le panche delle nostre chiese, potremo sentire di nuovo questa forza in azione: lo Spirito soffia, apriamo le nostre vele e lasciamoci portare.

Siamo anche eredi di una storia bella e importante, nel nostro paese e nel mondo, quella del protestantesimo. Una storia di fede, di libertà, di responsabilità, una storia di grande attualità, proprio oggi che di nuovo si accentuano le diseguaglianze, che la povertà continua a diffondersi in un mondo dove la guerra miete sempre nuove vittime, dove i ricchi fomentano la guerra tra poveri, dove la povertà è prima di tutto una povertà di idee e di progettualità… Quella di Dio è una storia di salvezza e di vita che, quando viene narrata tra le mura delle nostre chiese, può di nuovo coinvolgere nuove persone, perché ritrovino il loro rapporto con Dio e si uniscano al nostro progetto di chiesa, una comunità di sorelle e fratelli che accoglie e raccoglie in un unico corpo le numerose diversità che compongono questa umanità travagliata. In una parola, noi abbiamo ricevuto una bella storia, un bel messaggio: mi pare che abbiamo delle belle ragioni per ritrovare la stima in noi stessi, visto pure che è il Signore stesso ad averci chiamati.

Naturalmente, con questo non voglio ricadere nel rischio che rammentavo all’inizio: nel cercare di recuperare l’autostima, non dobbiamo sminuire la portata della nostra malattia. L’analisi della nostra situazione rimane una necessità: dobbiamo curarci, non basta riscoprire ciò che di bello abbiamo. E, nella storia della Chiesa, l’unica cura che abbia risollevato le chiese è sempre stata una bella iniezione di Bibbia. A questa dobbiamo tornare, con decisione. Sarebbe bello se la pubblicazione della Bibbia della Riforma (prevista per l’inizio di ottobre) potesse essere uno stimolo in questa direzione.

Questo ci aiuterà anche a guarire dalla prima conseguenza della depressione, cioè la difficoltà di avere e mantenere decenti rapporti interpersonali. Non so perché nella nostra chiesa, in generale nel mondo evangelico (ma sospetto che sia una malattia comune a tutte le chiese), si scambia la fraternità con la libertà di trattare male il prossimo. Troppo sovente una cattiva gestione dei rapporti interpersonali crea danni gravi, talvolta irreversibili. La mancanza di fraternità, o un’idea sbagliata di fraternità, può rovinare non solo intere giornate, ma anche far allontanare le persone dalla chiesa, facendo disperdere enormi energie nella gestione dei conflitti. Anche questo non va sottovalutato e non per nulla la prima preoccupazione dei consigli di chiesa protestanti tradizionali era la gestione della disciplina nella chiesa. Abbiamo tutte e tutti dei caratteri difficili e dire una parola sbagliata al momento sbagliato è molto facile, ci caschiamo tutti. Ma guai a noi quando ci caschiamo!

Come non si scherza con la depressione, anche la conflittualità è una malattia seria dove non basta la buona volontà, ma servono autodisciplina e, nei casi peggiori, disciplina. Se la domenica mattina ci svegliamo che abbiamo solo voglia di mordere, torniamo a dormire, leggiamoci un libro. È meglio non venire in chiesa a rovinare la giornata agli altri, se non siamo disposti alla conversione! In chiesa dobbiamo portare il meglio di noi stessi, per poter vivere anche a casa o al lavoro dei rapporti positivi. La chiesa dev’essere un rifugio dove troviamo buonumore, consolazione, conforto, dove veniamo a ricaricare le batterie… Ma quante volte le nostre comunità non sono capaci di vivere questa vocazione? Si possono affrontare anche difficili discussioni in maniera fraterna e costruttiva e non è necessario far finta di non essere arrabbiati, se lo siamo. Ma ogni sentimento va espresso nella maniera adeguata. Come dice Giovanni: non si può amare Dio senza amare il prossimo. Quindi, occhio a come parliamo e a quello che diciamo!

Un’ultima cosa: queste due brutte malattie, la depressione e la conflittualità, da dove hanno origine? Il testo della Prima Lettera di Giovanni è illuminante: dalla paura. Il contrario dell’amore è proprio la paura, non l’odio! La depressione nasce dalla paura, la paura di non essere all’altezza, di non essere degni, di non avere le forze, di quello che gli altri possono dire o pensare… Quante paure! Proprio come la nostra società, che vive le nostre stesse dinamiche! Una società depressa che non ha più autostima e non è più capace di esprimere un minimo di coesione, di rispetto per il prossimo, di amore per l’altro o l’altra… Anche noi credenti abbiamo paura, di mille cose: di dove trovare i soldi per tenere in piedi la baracca, di non essere omologati in questa società, di essere rifiutati, di suscitare reazioni negative… Quante paure abbiamo, che ci portano a dimenticare l’amore, prima di tutto l’amore per Dio e poi l’amore per il prossimo? Paura di perdere un posto acquisito nella chiesa? Paura di essere messi in discussione? Paura di non essere accettati? Che paure abbiamo, per cui non riusciamo più a vivere l’amore di Dio e ci lasciamo andare a discussioni inutili, quando non dannose? Riflettiamoci, seriamente come seriamente dobbiamo prendere questi due mali che ci affliggono.

Ritornare all’evangelo, alla Parola di Dio che ce lo annuncia, dunque, potrà curare questi mali. Io credo che, nel nostro piccolo, la nostra comunità di via XX Settembre abbia vissuto e vinto, almeno in parte, queste malattie (cosa che non ci rende immuni per il futuro!). Pensate dove saremmo adesso, se non avessimo accolto le varie sfide che abbiamo incontrato sulla nostra strada, sfide di accoglienza di persone nuove, sfide per costruire una comunità accogliente e simpatica, dove ritrovarsi insieme per vivere l’amore di Cristo. Noi possiamo essere una comunità che dà l’esempio alla nostra chiesa nazionale, per ritornare a guardare con ottimismo alla nostra missione e vocazione: affrontare e vincere la paura per tornare a vivere l’amore di Dio e del prossimo. La strada ormai la conosciamo, proseguiamo con coraggio per la via che il Signore ci ha indicato e per la quale ci accompagna. Amen

past. Eric Noffke

Benedite quelli che vi perseguitano. Benedite e non maledite – culto contro l’omofobia

11 giugno 2017

Romani 12.14

 

Dunque, non so voi ma, dopo aver letto questo testo, il mio primo pensiero è stato “ecco, bell’idea, noi sono anni che lottiamo affinché cessino violenze, aggressioni e discriminazioni verso persone omosessuali e transessuali; e poi arriva Paolo che dice cosa? Benedite quelli che vi perseguitano?! e magari poteva anche aggiungere state cheti e non vi ribellate! Ma io gli faccio un fondello così!”. Poi, ecco, diciamo che ho fatto un paio di respiri profondi e a mente lucida ho ritenuto che sarebbe stato poco proficuo fare un sermone su quanto mi sembrino fuori luogo queste parole dell’apostolo. E sapete che vi dico? La mia ritrovata calma è stata premiata, se così vogliamo dire, qualche versetto dopo. Al versetto 20 della medesima lettera Paolo scrive «Anzi, «se il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare; se ha sete, dagli da bere; poiché, facendo così, tu radunerai dei carboni accesi sul suo capo»».

Alla luce di questo versetto le precedenti affermazioni hanno improvvisamente assunto tutto un altro aspetto. E così mi sono chiesto, stai a vedere che lo stesso principio dei carboni accesi vale anche nella dinamica benedici chi ti maledice? Se prendiamo per buona questa teoria la dinamica cambia parecchio; ma andiamo con ordine.

Riprendiamo dal primo pezzo di Romani 12.14 “benedite – quelli – che vi perseguitano”. Benedire, come anche il perdonare non è un qualcosa di banale, se fatto dal profondo del cuore. Nella benedizione c’è anche la dimensione della condivisione, io benedico un’azione quando ritengo che quell’azione rispecchi pienamente la mia opinione, la mia deontologia e la mia persona. Come posso dunque benedire il mio aggressore? Come posso essere d’accordo con il suo gesto violento nei miei confronti fino al punto di benedirlo? Significa forse che me lo merito? Significa che tutte le discriminazioni di cui sono vittima sono la giusta conseguenza del mio comportamento? Cosa sono dunque i loro gesti? L’ultimo disperato tentativo di salvarmi da una via deviata dalla moralità corrotta? Dalla mia sessualità contro natura?

No, assolutamente no. La violenza non ha giustificazione, mai! Chi rinuncia al dialogo e passa all’aggressione, che sia verbale, fisica, psicologica o anche tutte queste assieme, ha semplicemente rinunciato alla sua intelligenza e si è lasciato prostrare dai sentimenti di rabbia, rabbia spesso scaturita dalla paura dell’ignoto, del diverso, di ciò che la loro mente reputa controsenso. Benedire i nostri aggressori significa dimostrare loro che l’alternativa alla violenza esiste, vuol dire dimostrare loro che noi siamo più forti dei loro insulti dei loro calci dei loro abusi. Subire per poi maledire, in questo caso, assumerebbe la stessa capacità di cambiamento dell’espressione infantile “specchio riflesso”. Rispondere al male con altro male non può che portare ad un’escalation di violenza, la violenza si spegne solamente con l’amore, che nel testo di Paolo si trasforma in benedizioni, persino contro i persecutori.

Mi rendo conto che in questo momento sembrano solamente parole, molti di voi staranno magari pensando che la realtà è molto più cruda. Ed io vi do ragione, questa è la teoria, la pratica è molto più faticosa.
Ma se avessimo deciso che tanto non c’è nulla da fare, cosa ci faremmo noi qui? Per ricordare le vittime non c’è bisogno necessariamente di un culto, anzi, le veglie sono decisamente una formula più appropriata. Noi siamo qui perché abbiamo deciso di dire a tutti coloro che ci voglio male che la nostra fede è più forte dei loro pugni, che noi non siamo soli, che le vittime non rimangono sole, che la persona a terra non rimarrà a terra ma si rialza, e contro qualunque aspettativa non brama la vendetta, anzi fa qualcosa di ancora più forte, è pronta a perdonare la tua debolezza, la debolezza che ti ha portato alla paura, la paura che ha innescato il tuo gesto.

Benedire, dunque, non significa sottomettersi o trasformarsi in vittime silenti che subiscono senza fiatare. Benedire significa guardare l’aggressore a testa alta e con decisione affermare che si è liberi dalle catene dell’odio.
Cari fratelli e care sorelle, resistere all’impulsività dei sentimenti non è mai facile; e nessuno pretende che lo sia. Paolo con le sue parole non ci sta ammonendo, ci sta invitando a riflettere sulle nostre azioni e reazioni, ci sta invitando a fare la differenza.

Possano dunque i nostri gesti accompagnare nei fatti le nostre parole. Amen

Giovanni Bernardini